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Introduzione
È difficile trovare una definizione precisa che spieghi cosa sia la cultura postmoderna,
essendo quest’ultima un fenomeno estremamente eterogeneo.
A partire dalla metà degli anni Sessanta, si è percepito negli Stati Uniti un mutamento
storico e culturale, a discapito del sapere moderno, generato dall’esplosione di fenomeni
quali la pop art, la letteratura cult, la poesia beat, fino alla rivoluzione studentesca e al
movimento hippie.
Il termine postmodernismo, però, inizia a circolare sin dalla fine degli anni Cinquanta,
quando due critici, Irwing Howe e Harry Levin, lo utilizzano con accezione negativa; solo
un decennio più tardi la sua valenza diventerà positiva. Leslie Aaron Fiedler, uno dei
maggiori critici letterari statunitensi del Novecento, ne è talmente entusiasta da dichiarare
l’inizio di una “postcultura” e segnala, in Cross the borders. Close the gap (1969), la caduta di
ogni differenza tra cultura “elevata” e “popolare”, una complessa giustapposizione di arte
d’elite e consumo di massa.
L’uscita del saggio The language of postmodern architecture (1977) dello storico
dell’architettura Charles Jencks, pone l’accento, per la prima volta in modo significativo,
sulla corrente di pensiero postmoderna e sul suo ruolo di controparte al movimento
moderno.
Il ventesimo secolo vide il concretizzarsi di un’intesa tra i migliori architetti
dell’Occidente, ispirata dalle poetiche del funzionalismo-razionalismo. Gropius, Le
Corbusier, Mies der Rohe sostenevano soluzioni basate su una tipologia di edifici nudi e
schematici, in nome dell’economia costruttiva e delle condizioni igieniche dell’abitare, con
il divieto assoluto di motivi ornamentali e di accondiscendenza verso la tradizione.
Privilegiavano il cemento a vista rispetto al colore ed escludevano riferimenti alle tipologie
del passato quali colonne, archi e timpani; così da avvalorare la tesi dell’architetto
austriaco Adolf Loos secondo cui l’ornamento era un delitto.
Il movimento moderno in architettura era strettamente connesso ad avanguardie quali il
cubismo, il costruttivismo sovietico, il neoplasticismo tedesco di Mondrian e Ritveld; altri
fenomeni artistici del periodo , però, si differenziavano notevolmente da questi appena
citati. Il futurismo elogiava l’energia e l’elettricità come sue fonti d’ispirazione, il dadaismo
celebrava l’intervento del caso e il surrealismo focalizzava l’attenzione sugli aspetti
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dell’inconscio. Questa disomogeneità interna al Movimento contribuì a sottolineare
l’anacronismo degli ideali moderni.
Si iniziò a delineare un atteggiamento culturale meno rigido, a favore di una rivalutazione
del passato e del superfluo come elemento necessario. “Less is more”, frase-manifesto del
movimento moderno, veniva capovolta dall’architetto Robert Venturi in “less is a bore”,
puntare sul meno è una noia.
La pittura e la scultura attraversano, così come l’architettura, la fase postmoderna. Negli
anni tra il 1975 e il 1985 si assiste ad una ripresa, o meglio, citazione di tratti distintivi
appartenenti ai secoli d’oro dell’arte. Vi è il rilancio delle tecniche tradizionali […]
accompagnato da un vigile senso di autoironia, quale si conviene a chi sappia di stare
citando dal passato, e dunque sia consapevole di dovervi porre le debite virgolette, se non
reali almeno metaforiche1.
Come si è visto, i caratteri postmoderni, come la rivisitazione di forme depositate nella
storia, sono estendibili a svariati ambiti artistici. Infatti, all’inizio degli anni ’90 si è
cominciato a parlare di avvento del postmoderno, oltre che nell’architettura, nell’arte e
nella letteratura, nel cinema.
Il cinema postmoderno è un cinema citazionistico. La citazione diventa lo spunto per la
costruzione dell’intera struttura narrativa e può essere verbale, legata alle parole
pronunciate dai personaggi, o visiva, in relazione alle immagini che è possibile vedere
sullo schermo. La loro combinazione porta alla citazione situazionale, cioè alla ripetizione,
più o meno fedele, di situazioni cinematografiche già viste al cinema, frantumate
all’interno del nuovo contesto narrativo. La citazione non è più una parte estranea allo
svolgimento della vicenda raccontata, ma parte essenziale di essa.
Inevitabilmente il “gioco dei rimandi” comporta il passaggio da una narrazione
tradizionale ad una narrazione che sia in grado di riflettere sull’atto stesso del narrare;
ogni citazione richiede infatti uno sguardo all’indietro puntato su un differente modo di
raccontare. L’interesse dello spettatore postmoderno non è rivolto tanto alla vicenda
narrata quanto al modo in cui essa viene raccontata , cioè allo stile. Lo stile diventa
dominante rispetto alla trama, il messaggio non è più contenuto nel testo ma nella
1. Barilli (2004: 714).
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contemporanea scoperta e sfruttamento delle possibilità del “mezzo” cinematografico. La
narrazione postmoderna, rendendo palesi e facilmente identificabili i processi che portano
alla sua formazione, tenta continuamente di impegnare lo spettatore, il lettore,
l’ascoltatore all’interno del processo di produzione del significato.
L’ascesa improvvisa del ruolo dello spettatore sembrerebbe comportare una parallela
discesa del ruolo dell’autore, ma è vero solo in parte, perché è proprio l’autore a decidere
quanto e quale spazio concedere al gioco con lo spettatore e, soprattutto, con quale tipo di
pubblico e a che livello di conoscenza stabilire le regole del gioco (citazioni più o meno
colte o più o meno individuabili all’interno del testo). Il cinema postmoderno chiede al suo
fruitore di credere e partecipare, perchè le innumerevoli citazioni e gli spazi vuoti
sollecitano una riscrittura personale del testo filmico attraverso cui si raggiunge il punto di
contatto finale tra il processo narrativo e l’attività dello spettatore.
La citazione, la serie, il remake evidenziano l’autoriflessività del testo accanto alla quale,
però, si sviluppa un carattere più spettacolare e in un certo modo più commerciale. Nei
film della postmodernità si creano zone in cui la scrittura esalta soprattutto se stessa. È il
caso dell’iperrealismo, in cui l’eccesso spazio-temporale diviene cifra stilistica e ricerca
estetica: temporalità dilatate dalla tecnica del rallenty oppure estremamente contratte da
un montaggio serrato, spazi frammentati, abbondanza di dettagli di oggetti, ambienti e
particolari del corpo umano. La valorizzazione del dettaglio serve a spostare l’attenzione
dalla linearità del racconto al fantastico; il particolare non è più parte di una totalità ma è
pienamente autoreferenziale. La cancellazione della distanza produce paradossalmente
una sorta di censura dello sguardo. Il poter vedere tutto da vicino, la ridondanza di
immagini ravvicinate, l’assenza di campi medi e lunghi, sull’esempio della pubblicità e
della nuova televisione, sembrano creare un senso di onnipotenza dello sguardo, laddove
questo modo di vedere porta invece all’ esclusione di tutto quello che ruota intorno al
particolare inquadrato a tutto schermo. Gli occhi sono programmati per vedere l’unica
realtà che il film vuole che si veda e non altro.
Lo spettatore assume punti di vista non umani ma quelli di oggetti come proiettili e frecce;
lo sguardo realista è sostituito dal metarealismo e dal surrealismo, che valorizzano il
supporto dell’immagine più che il suo contenuto e investono di intensità il significante più
che il significato.
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Nelle storie della postmodernità dominano:
a) il principio della contingenza, per il quale tutto può accadere casualmente senza
spiegazioni razionali, motivazioni logiche, causa ed effetto;
b) il principio della contaminazione, che dà la luce a prodotti ibridi in continua oscillazione
tra genere maschile e femminile (scambio di ruoli, confusione delle identità sessuali),
animato e inanimato, normalità e trasgressione, basso e alto;
c) il principio dell’accumulo e del collezionismo, che offre una visione superficiale del mondo
come elenco di oggetti, storie, personaggi, generi cinematografici e sensazioni estreme
al limite dell’estasi. Proprio questo effetto estatico drammatizza il rapporto tra il
mondo fittizio del racconto e il mondo reale; il sapere e il credere vengono
progressivamente sostituiti dal sentire. Il cinema e la televisione di questo fine
millennio raccontano storie che esulano da un’analisi razionale a favore di una lettura
prettamente emotiva.
Il caso cinematografico della prima metà degli anni Novanta, tipico esempio di stile
postmoderno, è stato senza dubbio Pulp Fiction, scritto e diretto dal regista statunitense
Quentin Tarantino in collaborazione con Roger R. Avary. La tradizione cui il film attinge è
quella dei grandi gangsters movies di Sam Peckinpah, Brian De Palma, Jean-Luc Godard e
Sergio Leone; Tarantino trae da questi modelli la nevroticità del montaggio (fitto di tagli),
l’esplicitazione della violenza e la centralità del crimine ma con un atteggiamento
profondamente diverso perché non propone letture morali, si limita a dipanare una storia
in cui i killer sono degli esecutori incapaci di collocarsi nel sistema, le loro azioni appaiono
parte del contesto e la violenza è condizione del mondo. Gli “eroi” tarantiniani sono
rappresentati con un effetto di iperrealtà ma non hanno credibilità, sono stilizzati e
psicologicamente vuoti senza una connotazione sociale. Pulp Fiction non è altro che la
rappresentazione di una realtà culturale e delle sue icone attraverso la lente dell’eccesso.
La struttura narrativa del film presenta una caratteristica propria della visione
postmoderna: la non-linearità. Con la frammentazione del racconto e l’utilizzo del