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INTRODUZIONE
Questa tesi origina da un interesse, che ho maturato nel tempo, nei
confronti della rete dei contadini di Terra Madre: questo è un
evento che nasce all’interno del movimento Slow Food e che, nelle
intenzioni dei suoi organizzatori, si pone lo scopo di mettere in
contatto tra loro i produttori di cibo che nel mondo operano nel
nome della sostenibilità, anche al fine di dar loro visibilità e forza
nei rapporti con il Mercato.
Ripercorrerò pertanto la storia degli studi contadini privilegiando i
contributi offerti in questo ambito dall’antropologia economica.
Nel capitolo I tratterò della collocazione dello studio delle
comunità contadine all’interno dell’antropologia economica ed
affronterò gli studi classici condotti nella metà del XX secolo
partendo dal contributo che a questi ha dato Eric Wolf che, nel
saggio scritto nel 1955, propose una innovativa metodologia di
studio sui contadini che mettesse al centro dell’analisi le relazioni
intercorrenti tra i contadini ed i mercati.
Al riguardo Wolf scrisse:
Una tipologia delle comunità contadine deve poggiare sulla
regolarità della ricorrenza di relazioni strutturali piuttosto che nella
ricorrenza di elementi culturali similari (Wolf, 1996: 234).
Questo approccio evidenzia, già negli anni Sessanta, che si avranno
tipi diversi di contadini a seconda del diverso tipo di mercato con il
quale sono in rapporto di relazione.
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Poiché a noi interessa più la distinzione tra differenti tipi di
contadini che un generico tipo di contadino, dobbiamo tracciare le
differenze fra gruppi di contadini partecipi di tipi divergenti di
cultura urbana (Wolf, 1996: 232).
Nel capitolo II, dopo aver brevemente accennato allo stato delle
discipline demo-etno-antropologiche in Italia, rivolgerò lo studio
verso testi classici di autori italiani e stranieri che si sono occupati
di contesti contadini italiani.
Nel capitolo III esaminerò i cambiamenti avvenuti nel tempo nelle
tecniche agricole e come questi abbiano modificato lo status
socioeconomico dei contadini.
Nel medesimo capitolo darò altresì conto dei contributi che
sull’argomento hanno fornito autori contemporanei soffermandomi,
in particolare, sul lavoro di Jan Diouwe van der Ploeg.
La tesi di fondo di questo autore è che la figura del contadino non è
una reminiscenza del passato, bensì una parte integrante dell’attuale
società: propone pertanto che l’analisi della situazione
dell’agricoltura contadina e del suo ruolo avvenga tenendo conto
che essa si colloca in un contesto di globalizzazione.
Nel capitolo IV ripercorrerò la storia di Slow Food dalla sua nascita
fino all’ideazione del progetto Terra Madre, avvalendomi degli
scritti di Carlo Petrini - Fondatore e Presidente di Slow Food, ed
ideatore del progetto di Terra Madre – nonché del materiale
presente sui siti dell’organizzazione.
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Evidenzierò, in particolare, il concetto di cibo di qualità che Slow
Food declina attraverso il trinomio buono-pulito-giusto .
Il Manifesto della qualità alimentare secondo Slow Food, al
riguardo afferma:
Buono. La bontà organolettica, che sensi educati e allenati sanno
riconoscere, è il risultato della competenza di chi produce, della
scelta delle materie prime, e di metodi produttivi che non ne alterino
la naturalità.
Pulito. L’ambiente deve essere rispettato e pratiche agricole,
zootecniche, di trasformazione, di commercializzazione e di
consumo sostenibili dovrebbero essere prese in seria considerazione.
Tutti i passaggi della filiera agro-alimentare, consumo incluso,
dovrebbero infatti proteggere gli ecosistemi e la biodiversità,
tutelando la salute del consumatore e del produttore.
Giusto. La giustizia sociale va perseguita attraverso la creazione di
condizioni di lavoro rispettose dell’uomo e dei suoi diritti e che
generino un’adeguata gratificazione; attraverso la ricerca di
economie globali equilibrate; attraverso la pratica della solidarietà;
attraverso il rispetto delle diversità culturali e delle tradizioni.
Tale caratterizzazione, coinvolgendo tutte le fasi del cibo -
produzione, trasformazione, distribuzione e consumo – ha condotto
Slow Food a realizzare, nel tempo, numerosi progetti dedicati di
volta in volta a ciascuno di questi aspetti.
L’ultimo, ma solo in senso cronologico, è Terra Madre con il quale
Slow Food ha voluto favorire un incontro internazionale dei
produttori di cibo che conducono il proprio lavoro sulla base dei
principi suesposti, al fine di dar loro visibilità e favorendo la
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creazione di una rete che desse loro la forza di resistere nei
confronti del mercato globale del cibo.
A Torino dal 20 al 23 ottobre 2004 si è svolta la Prima edizione di
Terra Madre che ha visto la partecipazione di 5000 persone
provenienti da 130 Paesi del mondo.
Infine, nel capitolo V, illustrerò una breve ricerca che ho effettuato
rivolgendomi direttamente ad alcuni produttori aderenti alla rete di
Terra Madre.
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CAPITOLO I
STUDI CLASSICI AMERICANI SULLE SOCIETÀ
CONTADINE
1. Premessa
Verso la metà del XX secolo alcune discipline sociali, e fra queste,
l’antropologia economica, cominciano a rivolgere i propri interessi
al mondo contadino che arriva ad essere uno dei temi più
importanti del dibattito accademico (Wilk, 1997: 44).
In questi anni comincia ad avviarsi il processo di
modernizzazione
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: le società acquisiscono, attraverso un percorso
di trasformazione, le caratteristiche economiche, politiche e sociali
considerate tipiche della modernità. Da un punto di vista
economico si riteneva che modernizzare significasse introdurre un
sistema di produzione industriale che applicasse sempre maggiore
tecnologia, riducendo al contempo la necessità di lavoro umano ed
animale e sviluppando una sempre più complessa divisione del
lavoro.
Il lavoro agricolo, elemento caratterizzante le società tradizionali,
diminuirebbe sempre più, spostando masse di contadini verso
l’industria.
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Termine con il quale si intende un processo di profondo mutamento sociale che ha come
punto di arrivo un futuro caratterizzato da modernità e progresso visto in contrapposizione
con un passato caratterizzato dalla tradizione. (Gallino, 1993: 421)
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Il concetto di modernizzazione è alla base delle Teorie della
Modernizzazione che sono da collocare tra la metà degli anni
Cinquanta e la metà degli anni Sessanta (Bianco, 1998: 285).
Questo periodo storico, posteriore alla fine della seconda guerra
mondiale è caratterizzato, tra gli altri, da due grandi fenomeni: la
decolonizzazione dei Paesi dell’Asia e dell’Africa e l’inizio della
guerra fredda tra gli Stati uniti e l’Unione Sovietica che cercavano
di attirare, ognuno nella propria orbita, gli stati decolonizzati.
Le Teorie della modernizzazione sono da collocare tra la metà degli
anni Cinquanta e la metà dei Sessanta. Esse partivano dall’assunto
che il modello occidentale di crescita e benessere diffuso fosse
estensibile ad altri contesti geografici e culturali. Al fine di superare
l’arretratezza tali teorie proponevano di trasferire dai Paesi più
evoluti a quelli non ancora sviluppati know-how tecnologico e
capitali, in modo da dotarli delle infrastrutture necessarie e avviare
così il processo di sviluppo […] La versione più nota delle teorie
della modernizzazione è quella che fa perno sulla modernizzazione
economica, nota come la teoria degli stadi
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di W. Rostow (Bianco,
1998: 285).
Quindi al centro delle Teorie della modernizzazione è fondamentale
la classica dicotomia tradizionale-moderno dove la società
tradizionale è vista come staticamente sempre uguale a sé stessa e
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Allo stadio iniziale, quello della società tradizionale, doveva seguire il secondo, caratterizzato
dalla formazione delle condizioni per il decollo economico, take-off, la cui realizzazione era
compito del terzo. Al take off seguiva il quarto stadio, ovvero quello del consolidamento e,
infine, il quinto, quello dei consumi di massa, raggiunto dai Paesi sviluppati negli anni
Sessanta. [Bianco, 1998: 285]
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la società moderna, invece, dinamicamente protesa verso un futuro
sempre più prospero.
Di conseguenza, è generale convinzione, specialmente nei luoghi in
cui il processo di modernizzazione ha avuto successo, che la classe
contadina sia di fatto scomparsa. Dal punto di vista sia dei
“modernisti” che dei “marxisti”, i membri di quella classe si sono
convertiti in “imprenditori” o in “proletari” (Van der Ploeg, 2009:
32).
2. L’antropologia economica negli USA
L’antropologia culturale nacque alla fine del XIX secolo come
studio che si prefiggeva “la comprensione dell’alterità culturale” e
nel suo periodo classico, concentrò i propri interessi nei confronti
delle culture cosiddette “primitive” nel loro immediato contesto
(Fabietti, 1999).
Le complessità che caratterizzarono il mondo nel secolo successivo
e, particolarmente, dopo la seconda guerra mondiale, indussero
molti antropologi culturali a pensare che non fosse possibile
comprendere i differenti modi in cui gli individui agiscono e
comprendono le loro vite occupandosi esclusivamente del contesto
locale, ritenendo invece imprescindibile un’analisi delle culture
locali addirittura all’interno di relazioni politiche ed economiche
globali. (Fabietti, 1999: 261-262).
I repentini cambiamenti storici appena citati, non solo ampliarono il
panorama dei terreni di ricerca e delle modalità di studio
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dell’antropologia, ma ne comportarono anche una sempre maggiore
specializzazione. Ai fini che qui rilevano si ritiene importante
soffermare l’attenzione su una di queste specializzazioni:
l’antropologia economica. Questa “disciplina indisciplinata” cerca
di spiegare il comportamento economico umano attraverso un
complesso rapporto tra antropologia ed economia (Wilk,1997: 14).
Il rapporto, d’altra parte, non può che essere complesso in quanto il
nucleo di ricerca di entrambe le discipline, e di tutte le scienze
sociali, pur essendo la comprensione dell’agire economico umano,
muove da presupposti diversi.
Per gli economisti la natura umana è fondamentalmente egoista e
gli uomini sono dei massimizzatori razionali della propria utilità.
2.1 Prima dell’antropologia economica.
L’inizio della scienza economica avvenne in Europa e, solitamente,
viene fatto risalire al filosofo ed economista scozzese Adam Smith
(5 giugno 1723-17 luglio 1790) il quale per primo fornì in un’unica
opera (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle
nazioni 1776) il quadro generale delle forze che determinano la
ricchezza delle nazioni, delle politiche economiche più appropriate
per promuovere la crescita e lo sviluppo e del modo in cui milioni
di decisioni economiche prese autonomamente vengano
effettivamente coordinate tramite il mercato.
Tuttavia, Smith non visse abbastanza per vedere gli effetti prodotti
dal capitalismo industriale e dal colonialismo su milioni di persone
nelle fabbriche e nei campi, e non fu costretto ad assistere alla
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giustificazione della sofferenza o della povertà di massa in nome del
libero mercato (Wilk, 1997: 77).
Una risposta “sociale” alternativa a quella “egoistica” sulla natura
dell’uomo viene proposta da due grandi figure del panorama delle
scienze sociali, Émile Durkheim e Karl Marx che sono, però,
avvicinabili solo in quanto sostenitori di una natura umana sociale,
allontanandosi invece totalmente quando formulano le ipotesi su
cosa caratterizza una società.
Durkheim, considerando la società come un organismo
indipendentemente dai singoli elementi che la compongono,
sostiene che per capire la società bisogna partire da un gruppo di
organismi legati da vincoli di solidarietà. Per questo non considera
affatto la situazione psicologica degli attori sociali considerandoli
come elementi funzionali al mantenimento del sistema stesso (Izzo,
1994: 194).
Il sistema deve preservarsi sia dai mutamenti interni, che da quelli
esterni dovuti alle forze perturbatrici che minano l'ordine del
sistema. Durkheim attribuisce un valore assoluto alle strutture
cristallizzate e cristallizzanti dell'organismo sociale considerando
tutto il resto funzionale al mantenimento dell'equilibrio di tale
organismo. Durkheim, il cui metodo si basa sull’affermazione di
considerare i fatti sociali come cose, presta attenzione allo studio
rigoroso degli oggetti e di qualunque evento della società e
considera i valori e i costumi come un tessuto connettivo per la
società (Izzo,1994: 198).
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Per quanto riguarda gli studi sull'economia, egli analizza soprattutto
la divisione del lavoro, ovvero il farsi strada di differenze sempre
più complesse e influenti tra le varie posizioni occupazionali. Pian
piano, il lavoro viene considerato da Durkheim come il principale
fondamento della coesione sociale, ancora prima della religione.
Inoltre, con la divisione delle attività, gli individui diventano
sempre più dipendenti gli uni dagli altri, perché ognuno ha bisogno
di beni forniti da coloro che svolgono un lavoro diverso dal proprio
(Izzo, 1994: 197).
Secondo Durkheim, la divisione del lavoro prende gradualmente il
posto della religione come principale fondamento della coesione
sociale.
Anche Karl Marx è un convinto sostenitore della natura sociale
degli individui ma contrariamente a Durkheim egli interpreta la
società come il luogo del “conflitto” (Izzo, 1994: 197).
Marx nella sua analisi della società prioritariamente individua una
struttura ed una sovrastruttura : la prima è costituita dai rapporti di
produzione, mentre la seconda è costituita dalle norme, le leggi e
credenze che tendono a giustificare l’esistenza di quella
determinata struttura (Izzo, 1994: 111).
È importante riconoscere, quindi, che l’aspetto fondamentale nello
studio di una società sia l’analisi dei suoi mezzi e dei suoi modi di
produzione, cioè la sua struttura economica. Partendo da questi
presupposti Marx sostiene che il modo di produzione non solo
condiziona i processi sociali e politici, ma, principalmente,
condiziona la coscienza degli individui. Ne consegue logicamente
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che le idee di chi detiene i mezzi di produzione e quindi determina
la struttura economica, perciò le idee delle classi dominanti,
saranno quelle che determineranno anche la sovrastruttura politica,
giuridica e culturale.
L’ulteriore passo logico di Marx, quindi, è quello di affermare che
il progresso della natura umana non è un fatto individuale, bensì
sociale e non si può realizzare attraverso la modifica della
sovrastruttura, ma della struttura economica : il punto di vista del
Materialismo marxiano è una “prassi rivoluzionaria”.
La sua analisi della società quindi, partendo dall’economia che la
caratterizza, arriva ad essere uno studio sul potere e sui rapporti di
dominazione (Wilk, 1997: 32).
Proprio questo aspetto del pensiero marxiano ebbe un grande
influsso su molti antropologi economici che, pur partendo dal suo
punto di vista, lo rielaborarono in funzione dei cambiamenti
storico-sociali-politici che avevano investito il mondo: Marx infatti
aveva elaborato le sue teorie in un mondo che cominciava a fare i
conti con l’industrializzazione, il capitalismo, lo sfruttamento e la
dominazione (Wilk, 1997: 34).
3. Il dibattito tra gli antropologi economici
Gli antropologi economici muovevano da una situazione ormai
“globalizzata”
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di tali aspetti e vedevano tali rapporti di
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La globalizzazione in senso stretto è, nella definizione dell’OCSE: quel “processo attraverso
cui mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa
della dinamica di scambio di beni e servizi” (Musso , 1998: 245)