2
partecipativa in cui si manterrebbe invece intensa, ad ogni livello, la
partecipazione popolare.
Che si accetti o meno la definizione datane da Schumpeter, il requisito
fondamentale perché si abbia un regime democratico è dunque rappresentato
dall’allargamento a tutti i cittadini, con il solo limite dell’età, del diritto di voto.
Tuttavia, occorre subito chiarire che, se il suffragio universale rappresenta la
condizione essenziale di un regime democratico, quest’ultimo non può però
prescindere dall’esercizio di quelle attività (critiche pubbliche, forme diverse di
contestazione) e di quei diritti (stampa, riunione, informazione, espressione)
indispensabili per una libera e consapevole strutturazione del voto.
Per parte sua, Robert Dahl ha individuato all’interno del processo di
democratizzazione una fase di liberalizzazione, intesa come ampliamento delle
opportunità di contestazione, la quale trasforma i regimi chiusi in oligarchie
competitive, e una fase di inclusività, in cui il potere continua ad essere
detenuto dalle élites dominanti, ma dove tutti hanno la possibilità di
partecipare alla vita pubblica. Liberalizzazione e inclusività determinano una
diffusione del potere politico tra una pluralità di detentori (poliarchia).
L’indagine condotta da Dahl sulle poliarchie si è posta dunque l’obiettivo di
individuare le condizioni politiche ritenute necessarie per l’affermazione di un
regime democratico e per il suo mantenimento grazie ad uno strato
possibilmente ampio di attivisti che abbia interiorizzato le norme
democratiche di reciproca legittimazione, tolleranza politica e conflitto
controllato
2
. Nell’opinione di questo studioso, ciò sta a significare che, per
arrivare alla democrazia, è necessario garantire le condizioni migliori affinché
tutti possano prendere parte al gioco politico: un obiettivo che viene
raggiunto quanto tutti i cittadini si sentono uguali (anche se ovviamente – e
Dahl per primo ne è ben consapevole - non lo sono)
2
Cfr. R. A. DAHL, Intervista sul pluralismo, a cura di Giancarlo Borsetti, Laterza, Roma-Bari 2002, citato
in G. PASQUINO, op. cit., p. 251 sg.
3
A detta di Dankwart Rustow, affinché qualsiasi tentativo di
edificazione di un regime democratico possa prendere avvio, è indispensabile
l’esistenza di un accordo preliminare tra i partecipanti in merito alla loro
appartenenza ad una comunità politica. In effetti, là dove esiste una
minoranza coesa, cospicua e concentrata, che mette in dubbio la propria
appartenenza a quella comunità politica che si vorrebbe democratizzare, il
processo di instaurazione di una democrazia risulterà difficile e alla fine
probabilmente impossibile, come dimostrano con ampiezza i casi di
minoranze etniche irriducibili presenti, ad esempio, nelle realtà africane o
asiatiche
3
. Per contro, alla condizione di riconosciuta appartenenza ad una
comunità fa seguito la prima fase, che potrebbe essere definita preparatoria,
della costruzione di un regime democratico: un compromesso pone infatti
termine al prolungato conflitto tra le élites, che accettano di convivere e
competere per il potere politico. Tale compromesso apre la fase della
decisione, durante la quale non ci si limita a riconoscere su un piano di parità
le proprie diversità, ma si creano strutture e procedure atte a valorizzare tali
diversità, orientandole nel senso della competizione democratica e
dell’accettazione del ruolo dell’opposizione. Il compromesso politico non
segna quindi la fine del conflitto politico, in quanto la dialettica e le contese
continueranno ad essere alla base delle decisioni politiche anche nella fase
finale, che Rustow definisce di assuefazione alle procedure democratiche.
Questa è la fase in cui gli artefici del compromesso democratico convincono i
politici di professione ed i cittadini dell’importanza e della necessità dei
principi di conciliazione e accomodamento, il cui buon funzionamento –
opportunamente controllato – permette alla democrazia di crescere.
In ultimo, qualsiasi indagine condotta in merito alle modalità di
edificazione dei regimi democratici, specie se riferita a Paesi esterni all’alveo in
cui il concetto e il sistema democratici si sono generati, non può ovviamente
3
Cfr. D. RUSTOW, Transition to Democracy: Toward a Dynamic Model, in “Comparative Politics”, 1970,
citato in G. PASQUINO, op. cit., p. 253.
4
prescindere dal ruolo svolto dal sistema internazionale. Quest’ultimo, almeno
nei termini che ha assunto dal 1945 ad oggi, non è ovviamente in grado –
come tale – di procedere direttamente all’edificazione o alla distruzione di
regimi democratici. Può soltanto operare come elemento di facilitazione di
tendenze democratiche preesistenti, da un lato fungendo da strumento di
sostegno dall’altro da fattore di perturbazione di regimi che democratici non
sono. Ma l’intero processo è tutt’altro che semplice, basti pensare al ruolo
svolto dall’ONU nell’attuale crisi irakena. A tale proposito, Samuel
Huntington ha riconosciuto che in genere le democrazie giovani sono
altamente fragili, ma sostiene – e con ciò ci avviciniamo decisamente al tema
che si pone al centro del nostro lavoro – che un possibile (o addirittura
probabile) riflusso antidemocratico, se non dovesse essere determinato da un
fattore specifico come il fondamentalismo islamico (che è in grado di mettere
in campo ragioni religiose e culturali, dunque metapolitiche), non appare in
realtà dotato della necessaria legittimità politica, che risulta ormai
indispensabile per soppiantare persino i sistemi democratici più recenti, per
quanto deboli e criticabili essi possano risultare a causa delle condizioni socio-
economiche in cui versano
4
.
Proprio utilizzando alcuni indicatori socio-economici, nel 1981 Seymour
Martin Lipset sostenne che sono i sistemi socio-economici più sviluppati che
riescono a creare e mantenere un regime democratico, quasi ad affermare –
per questa via – l’esistenza di un nesso causale tra il superamento di
determinate soglie di industrializzazione, alfabetizzazione, urbanizzazione e
l’instaurazione e il mantenimento al potere di regimi democratici
5
.
Partendo da queste considerazioni, altri studiosi hanno precisato che, più che
per la presenza di tali caratteristiche aggregate del sistema socio-economico, la
4
Cfr. S. P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 23
sg.
5
Cfr. S. M. LIPSET, Political Man. The Social Bases of Politics, The Johns Hopkins University Press,
Baltimore-London, 1981, seconda edizione riveduta ed ampliata, citata in G. PASQUINO, op. cit., p.
256 sg.
5
democrazia riesce ad affermarsi là ove mancano squilibri e disuguaglianze di
grande portata tra i vari gruppi sociali
6
. In aperta critica alle tesi di Lipset,
Przeworski e Limongi hanno sostenuto che le democrazie nascono
casualmente, vale a dire indipendentemente dai livelli di sviluppo economico,
ma tendono a sopravvivere nei Paesi ricchi ed a morire in quelli poveri, in
quanto i regimi più poveri risultano maggiormente destabilizzati dalle crisi
economiche
7
. In effetti, se tutti i sistemi politici hanno la possibilità di
diventare democratici, solo quelli ricchi riescono però a fronteggiare le crisi
economiche che nei regimi più poveri chiamano rapidamente in causa lo
stesso assetto democratico, le sue istituzioni e le sue regole, addebitandogli
l’incapacità di fronteggiare le crisi e di fornirvi una risposta adeguata.
In definitiva, se la democrazia appare oggi il solo modello politico-
istituzionale praticabile nel mondo occidentale e l’unica vera alternativa a tutte
le forme di autoritarismo possibili, non c’è dubbio che essa sia comunque in
crisi, in misura maggiore o minore, un po’ dappertutto. E’ una crisi che
riguarda la rappresentanza politica, la dimensione costituzionale dello Stato e
gli ambiti in cui vengono prese le decisioni.
Con premesse di questo genere, che rendono evidente come la questione
della democrazia sia ancora aperta all’interno della stessa società occidentale, è
chiaro che la questione della possibilità e autonomia della democrazia nei
Paesi islamici – che si pone al centro del presente lavoro - non è certo di facile
soluzione, considerata anche la diversità delle tradizioni storiche, le difficoltà
di rapporti e di reciproca comprensione, e infine le attuali tensioni tra
Occidente e mondo musulmano. Molti studiosi che si sono soffermati su
questa problematica hanno sottolineato come la democrazia sia un concetto
complesso e ambivalente, che per Ralf Dahrendorf può ad esempio essere
6
Questa lettura è ovviamente possibile anche in senso inverso, vale a dire sostenendo che la democrazia
mira a ridurre le disuguaglianze socio-economiche, la cui esasperazione potrebbe aprire la strada ad
esiti autoritari.
7
Cfr. A. PRZEWORSKI - F. LIMONGI, Modernization: Theories and Facts, in “World Politics”, gennaio
1997, p. 169 sgg. Citato in G. PASQUINO, op. cit., p. 258 sg.
6
sintetizzato nella formula “progresso senza violenza”. Tuttavia, anche per lui
occorre essere consapevoli del fatto che la semplice presenza di istituzioni
democratiche non è sufficiente, di per sé, a garantire il loro funzionamento.
Non ha senso, quindi, imporre la democrazia dall’alto, fidando poi che venga
pure messa in pratica. Per funzionare, infatti, la democrazia deve essere
radicata nel confronto di gruppi sociali diversi e nel riconoscimento delle
istituzioni che ne sono componente essenziale
.
In definitiva, la risposta ad un interrogativo cruciale come quello relativo
alla possibilità della democrazia in Paesi che ancora non vi sono approdati
difficilmente può essere perentoria e univoca. La democrazia, per funzionare,
presuppone infatti l’affermazione di principi individualistici (come “un uomo,
un voto”; i diritti di cittadinanza, etc.) di cui spesso e volentieri non esistono,
nei Paesi in cui si vorrebbe esportarla, né le condizioni né i presupposti di
base. Questo significa che esportare la democrazia è difficile, anche se non
impossibile, e comunque si può ritenere in linea generale che la sua
esportazione venga indubbiamente favorita dal precedente instaurarsi, nel
Paese interessato, di un’economia di mercato.
Oggi i fautori del “relativismo culturale” sostengono che la democrazia è
un concetto puramente occidentale ed è aberrante cercare di impiantarla
altrove. Secondo i fautori dell’”imperialismo culturale”, per contro, la
democrazia, anche se nata in Occidente, è un bene in sé e pure i non
occidentali, quando hanno la possibilità di sperimentarla, finiscono per
apprezzarla
8
. Nell’opinione di un intellettuale musulmano come Khaled
Fouad Allam, questa distinzione esprime bene la differenza che esiste tra la
8
Cfr. A. PANEBIANCO, Democrazia, si può esportare?, in “Corriere della Sera”, 1° aprile 2003. Questa
visione viene ripresa anche da Khaled Fouad Allam, per il quale tuttavia la visione del “relativismo
culturale” è non solo quella degli europei ma anche – a suo modo di vedere – una visione pericolosa,
in quanto crea una gerarchia tra popoli che sarebbero più o meno inclini alla democrazia e di fatto
esclude tre quarti del mondo. Allam si sente invece più vicino alla visione per la quale la democrazia
sarebbe esportabile, anche se respinge con fermezza l’ipotesi che sia esportabile con i carri armati (cfr.
K. F. ALLAM, Le mie idee raccontate alla gente, in “La Repubblica”).
7
concezione europea, per la quale la democrazia si misura sulla cultura e la sua
esportabilità dipende appunto da capacità e compatibilità culturali, e quella
americana, per la quale la democrazia rappresenta invece un’esperienza storica
e un quadro giuridico e – come tale - può essere esportata
9
.
A giudizio di Huntington, tuttavia, il superficiale pregiudizio occidentale
in base al quale i governi democraticamente eletti saranno sempre cooperativi
e filo-occidentali non si dimostra necessariamente vero per le società non
occidentali, dove la competizione elettorale può portare al potere forze
nazionaliste e fondamentaliste anti-occidentali. In molti Paesi arabi –
compresi Egitto ed Arabia Saudita – libere elezioni oggi produrrebbero quasi
certamente governi molto meno rispondenti agli interessi occidentali rispetto
ai loro predecessori non democratici. Ne consegue che, man mano che i
leader politici occidentali si rendono conto che i processi democratici nelle
società non occidentali producono spesso governi ostili all’Occidente, tentano
di influenzare a proprio favore le elezioni politiche in quei Paesi (o ne
rovesciano l’esito, come è accaduto in Algeria) e nel contempo perdono ogni
entusiasmo per la promozione della democrazia in quelle società
10
.
. Per tentare di inquadrare nel migliore dei modi una problematica che –
come si è visto – risulta davvero complessa, si è deciso di ripartire il presente
lavoro in tre capitoli, di cui il primo dedicato ad una lettura storica dei
rapporti tra Occidente e Islam, intesa ad evidenziare i differenti punti di vista
di uno studioso di cultura occidentale e di uno di cultura musulmana; il
secondo inteso ad analizzare a fondo la questione della possibilità della
democrazia in Paesi che ancora non vi sono approdati ed il terzo focalizzato
sull’evidenziazione di alcune problematiche cruciali di carattere giuridico-
politico che si pongono a corollario della questione dominante. Il tutto è
completato da una conclusione e corredato da una bibliografia.
9
Cfr. K. F. ALLAM, La questione democratica nel mondo arabo, in “Astenia”, n. 22, 2003, p. 213.
10
Cfr. HUNTINGTON, op. cit., p. 288 sg.