5
A più di un secolo dalla nascita della psicologia moderna, infatti,
alcuni di noi sono ancora intenti a dibattere sull’esistenza dell’anima o
dell’inconscio, altri a cercare nella genetica quei sentimenti e quelle
emozioni che non riescono a controllare nella vita reale, come se i
discorsi “squisitamente intellettuali” fossero di per se stessi capaci di
dare un senso esistenziale compiuto alla condizione umana.
La soddisfazione provata da taluni per aver creato modelli
epistemologici particolarmente complicati non gratifica però tanti
altri, i quali non si accontentano della sola spiegazione razionale degli
eventi e scelgono di indagare anche la sfera emotiva, ovvero quella
dimensione che è fondamentale per le scelte esistenziali che operiamo
e parte integrante di quella complessa struttura psichica che possiamo
chiamare “mente culturale”.
Questo costrutto culturalmente determinato è secondo Nathan
l’unico capace di assicurare all’essere umano la sua sopravvivenza
psichica, in special modo quando le problematiche esistenziali
irrompono nella sua vita spazzando via in un solo istante quel cumulo
di opinioni che egli potrebbe aver accumulato nel corso degli anni.
Alcune delle domande che cercheremo di produrre in questa
trattazione riguardano il tipo di cure che gli “esperti” delle culture
occidentali possono fornire a pazienti che hanno costruito la loro vita
psichica in culture non-occidentali; questo ci permetterà di
approfondire la conoscenza dei metodi di cura tradizionali (non-
occidentali), così da poter valorizzare di conseguenza le culture
6
“altre”, presupposto fondamentale per la costruzione di un pensiero
finalmente libero dall’etnocentrismo della cultura occidentale.
A questi e ad altri quesiti ha accennato anche Freud in «Totem e
Tabù» (che secondo Nathan è “la prima vera e propria opera
etnopsicoanalitica2”), ispirando nel fisico, psicoanalista, antropologo
ed epistemologo Georges Devereux3 quei particolari studi sulle
“psicopatologie culturalmente ordinate” che sarebbero poi divenuti il
fondamento della nascente disciplina etnopsichiatrica.
Effettuando le ricerche sullo stretto legame che intercorre tra
cultura e psicopatologia, Devereux ha inoltre “incidentalmente”
fornito alla psicoanalisi un grande vigore epistemologico, impulso che
conferisce indirettamente potenza anche alla metodologia nathaniana,
che si avvale anche del patrimonio di conoscenze tecniche che nei
millenni sono state affinate dai guaritori delle medicine tradizionali4.
Se pensiamo per un attimo alle tempeste emotive che il concetto
di “possessione” scatena in molti di noi occidentali (e questo
indipendentemente dall’essere o meno credenti), restiamo più o meno
perturbati da quelle fantasie e superstizioni che trovano nella nostra
eredità culturale quel terreno fertile costituito sia dalla tradizione
greco-romana che da quella cristiana, l’una sempre tesa a
rappresentare nelle antiche tragedie teatrali quegli istinti irrazionali e
quei desideri inconfessabili che da sempre tormentano l’animo di ogni
2
Nathan T., 1986, p. 62
3
Maestro di Tobie Nathan.
4
Per “medicine tradizionali” s’intendono le medicine non-occidentali (che vanno distinte da quelle
“alternative”).
7
uomo, e l’altra così ricca di ambiguità, di contraddizioni e di labili
confini tra mondo visibile e invisibile.
Per rendere fin da subito agevole la trattazione, abbiamo pensato
di occuparci di un essere umano “comunque posseduto da demoni”,
indipendentemente dalla natura di questi “spiriti”, siano essi “creature
inconsce”, “ricordi atavici5” oppure entità non visibili e quindi non
indagabili con strumenti di ricerca obiettivi6.
Come vedremo meglio in seguito, uno degli aspetti
particolarmente interessanti del fenomeno della possessione è che esso
differisce dalla schizofrenia in quanto fenomeno presente nella “realtà
psichica” di intere collettività, oltre che di individui.
Come noto, anche Jung fu molto attratto dalla “dimensione
irrazionale” dell’umana esistenza, rivendicando la coerenza del suo
“empirismo” anche con queste parole: «il mio atteggiamento di fronte
a queste cose è pragmatico e le grandi maestre che mi hanno insegnato
a considerarlo pratico e utile sono la psicoterapia e la psicologia
medica. Questo è il campo nel quale, più che in ogni altro, ci si trova a
confrontarsi con l’ignoto, nel quale maggiormente ci si abitua ad
adoperare quel che risulta efficace7, anche se il più delle volte non si
comprende perché lo sia. Terapie discutibili provocano guarigioni
inattese, mentre metodi attendibili si bloccano su inattesi insuccessi
(…) l’irrazionale pienezza della vita mi ha insegnato a non scartare
5
Archetipi?
6
Es.: il microscopio.
7
concetto che sembra essere particolarmente valido nella Sciamanismo.
8
mai nulla, neanche quello che urta contro le nostre teorie (oh, quanto
effimere) o sembra per ora inspiegabile8».
Nelle parole di Jung troviamo infatti l’atteggiamento ideale per la
ricerca etnopsichiatrica di Nathan, che è l’indagine della complessità
della natura umana facendo attenzione a non scartare mai nulla (di
utile), neanche quello che urta contro le nostre teorie.
La trattazione consiste in quattro capitoli: il primo è dedicato
all’approccio etnopsichiatrico di Nathan e ad alcune riflessioni circa la
costruzione epistemologica di Devereux; il secondo è dedicato
all’approfondimento di alcuni aspetti del «dispositivo nathaniano»; il
terzo è dedicato al coraggioso approccio antropologico di Ioan M.
Lewis, mentre il quarto contiene due interventi di psicoterapia
complementarista incentrati sull’incesto.
Le motivazioni che ci hanno spinto a investire i primi due capitoli
sul dispositivo terapeutico etnopsichiatrico di Tobie Nathan sono
principalmente tre: 1) Lo riteniamo uno dei più coerenti per il
trattamento dei disagi psichici in pazienti provenienti sia da culture
non-occidentali, che occidentali; 2) Il dispositivo tecnico della
psicoterapia di gruppo nathaniana può ospitare “il testimone” e di
conseguenza produrre dati molti più oggettivi rispetto alle psicoterapie
individuali; 3) Riteniamo che il disagio psichico del paziente
immigrato sia un’ottima occasione per la creazione del dialogo
multietnico, che rappresenta il fondamento dell’integrazione sociale.
8
C. G. Jung.
9
Abbiamo poi deciso di considerare a parte l’approccio
antropologico alla possessione, così da poter riconoscere i notevoli
contributi che questa disciplina ha fornito (e fornisce) agli studi
etnopsichiatrici, in special modo nei confronti del compianto Prof.
Ioan M. Lewis, il quale circa trent’anni fa ha proposto all’antropologia
notevoli aperture nei confronti della psicologia e della psichiatria,
atteggiamento storicamente inusuale se consideriamo le posizioni più
radicali delle scuole sia antropologiche che psicoanalitiche.
L’antropologia e la psicoanalisi hanno infatti concezioni della
vita psichica e sociale dell’uomo talmente distanti da rendere unico
nel suo genere il tentativo di Devereux di studiare le due discipline
secondo l’ottica complementarista.
Abbiamo anche deliberatamente evitato di dedicare uno spazio
ben definito all’approccio psichiatrico, visto che, durante la stesura di
questa tesi, esso è comparso e scomparso come un fantasma alla
ricerca di un corpo teorico adatto a contenere le sue eccessive
contraddizioni epistemologiche.
Devereux e Nathan usano infatti il termine “psichiatria” nel suo
significato originale, considerando cioè la psicoanalisi come radice
epistemologica sulla quale costruire l’etnopsichiatria.
Alla luce degli studi etnopsichiatrici, infatti, l’importanza della
psichiatria biologica è ridimensionata soprattutto a causa della sua
tendenza a ridurre la complessità della natura umana a semplici “fatti
biochimici”, per non parlare del disagio che gli psichiatri provano nei
confronti della suggestione e dell’effetto placebo.
10
Nonostante la necessità di riconsiderare i “miti” che hanno
inficiato alcune della fondamenta della psicoanalisi, crediamo sia
importante riconoscere al celebre neurologo austriaco non il culto, ma
il merito di aver creato i presupposti per la costruzione di una
“psichiatria” più fedele alla sua originale vocazione, che affonda cioè
le sue radici nella psicoanalisi anziché nella biologia.
11
CAPITOLO
1
APPROCCIO ETNOPSICHIATRICO
12
1.1 INTRODUZIONE ALL’ETNOPSICHIATRIA
Abbiamo pensato di introdurre l’etnopsichiatria di Nathan
utilizzando alcune sintesi storiche operate da Piero Coppo e coll. 9,
entusiasti promotori di questa giovane e promettente disciplina, così
da poter disporre fin da subito di alcune informazioni concernenti
l’origine della disciplina etnopsichiatrica.
Gli autori iniziano la trattazione considerando l’arroganza con la
quale l’Occidente si è sovente auto-attribuito il possesso di “verità
universali” e come esso abbia utilizzato questo assioma per esportare i
frutti della “civiltà più alta10” nelle culture non-occidentali.
I conflitti mondiali che angustiarono il secolo scorso minarono
però molto in profondità l’immagine che la civiltà occidentale aveva
costruito di se stessa; in più, le ambizioni del positivismo erano
sempre più frustrate da una realtà sfuggente, sempre più multiforme,
che imponeva continuamente limiti alla ricerca scientifica: “la crisi di
identità e supremazia europee e le nuove acquisizioni permettevano
finalmente ad alcuni incontri di non risolversi in cieca distruzione,
negazione o svalorizzazione dell’altro11”.
Le tecnologie resero sempre più economiche e accessibili le
comunicazioni e i movimenti immigratori palesarono ben presto le
contraddizioni dell’ideologia occidentale, giunta ad uno dei suoi
picchi di etnocentrismo con “la teoria dell’evoluzionismo culturale”,
9
Coppo P., Cardamone G., Inglese S., 1996
10
Ivi, p. 7.
11
Ivi, p. 8.
13
per la quale le diversità umane sono, in definitiva, discutibilmente
rappresentate tra i due poli del continuum evoluzionistico tra
“primitivo non occidentale” e ”civile occidentale”.
Le prime reali occasioni di incontro avvennero nel periodo
coloniale, durante il quale medici e psichiatri furono incaricati di
esportare nelle «culture selvagge» il loro concetto di salute mentale,
nonché i prodotti farmaceutici delle loro moderne industrie.
Fu subito chiaro che “il loro «saper-fare» mal si adattava alle
realtà che avevano di fronte12”. Alcuni di loro riuscirono ad avere la
pazienza e l’umiltà necessarie per “ascoltare i loro colleghi di altri
mondi” (stregoni, guaritori, ecc.), giungendo a quel confronto critico
delle proprie concezioni che è terreno ideale per la nascita della
disciplina etnopsichiatrica nathaniana.
Vale la pena ricordare, anche per comprendere meglio il
significato di “psichiatria”, che per “etnopsichiatria” si intende la
combinazione del significato di tre parole greche: «Etnòs» ovvero
“razza, tribù, stirpe famiglia” ma anche “provincia, territorio” (la
dimensione locale rispetto al tutto); «Psyché» come “soffio vitale,
spirito” e «iatréia» intesa come “l’arte di prendersi cura13”.
Essa nacque e si sviluppò grazie all’originale contributo di
ricercatori come Collomb, Kraepelin e Devereux, i quali, pur non
usando le stesse parole per definire cosa stavano studiando,
dedicarono la loro vita allo studio delle strette connessioni tra
psicopatologia e cultura.
12
Ivi, p. 8.
13
Ivi, p. 9.
14
In particolare, lo psicoanalista e antropologo francese Georges
Devereux studiò le correlazioni tra psiche e cultura attraverso la
rilettura in chiave psicoanalitica dei miti presenti nella maggior parte
delle culture umane, partendo proprio da quella dimensione che Freud
aveva potuto (o voluto) soltanto accennare in «Totem e Tabù».
La differenza fondamentale tra la psichiatria ufficiale e
l’etnopsichiatria, oltre agli evidenti significati etimologici14, è
essenzialmente epistemologica: “mentre la psichiatria cerca di astrarre
dal singolo caso indicazioni valide per tutti, l’etnopsichiatria ne
sottolinea piuttosto la specificità in rapporto a ciò che lo circonda: il
gruppo e l’ambiente di cui fa parte; studia cioè disagi, disturbi e
modalità di cura collegandoli alle caratteristiche del territorio 15”.
Per intervenire sul disagio, l’approccio etnopsichiatrico si avvale
anche di altre discipline, quali “«l’antropologia» (che studia le
particolarità fisiche e culturali dei gruppi umani), «la sociologia» (che
si occupa dell’organizzazione di individui in comunità e società) e
«l’etnologia» (che ne descrive usi e costumi), costituendo una materia
di studio multidisciplinare capace di concepire il disagio di individui,
gruppi e collettività secondo varie prospettive16”.
Nell’etnopsichiatria vi sono due principali oggetti di studio: il
primo concerne la differenza tra “normalità” e “psicopatologia”,
mentre il secondo consiste nello studio delle “differenze tra cultura e
14
Di cui l’Istituzione psichiatrica non sembra tenere particolarmente conto.
15
Coppo P., Cardamone G., Inglese S., 1996, p. 9.
16
Ivi.
15
cultura”17; queste differenze determinano naturalmente una grande
varietà di concezioni del disagio mentale e quindi di modalità
attraverso le quali esso viene trattato18.
Per esempio, nelle culture “tradizionali” (rurali o pastorali), nelle
quali l’individuo è costretto ad affrontare condizioni ambientali
durissime, appartenere ad un gruppo significa spesso “sopravvivere”,
mentre in Occidente “ove lo sradicamento dei legami è condizione
necessaria per la realizzazione di una società che fonda se stessa sulla
libertà individuale19”, tale appartenenza è più debolmente strutturata.
E’ quindi naturale dedurre che il concetto di «supporto sociale»
abbia un significato molto diverso da una cultura all’altra, e che esso
possa essere un potente «fattore di protezione» rispetto a disturbi che
né paziente né gruppo possono controllare20.
Di conseguenza, se in Occidente è più naturale pensare ad una
“psicoterapia individuale”, lo è molto meno nelle culture tradizionali,
nelle quali è invece più logico pensare ad un intervento su tutto il
gruppo di appartenenza21.
Un’altra grande differenza tra culture occidentali e non-
occidentali consiste nella scelta dello “specialista” cui far ricorso nel
momento in cui uno dei membri del gruppo supera quell’invisibile
soglia tra normalità e follia: in Occidente si ricorre allo psicoterapeuta
17
Ivi, p. 38.
18
Ivi, p. 41.
19
Ivi.
20
Ivi, p. 42.
21
Da cui la “psicoterapia di gruppo nathaniana” (vedi Cap. 2.2).
16
o allo psichiatra, mentre nelle culture tradizionali si consulta
normalmente “il guaritore”, “lo sciamano” o “lo stregone”.
Come vedremo meglio in Nathan, è pregiudizievole pensare alle
culture tradizionali come a “tribù di primitivi” nelle quali il pensiero
irrazionale soverchia quello razionale; anche se in esse la concezione
del mondo è abbastanza diversa rispetto a quella occidentale (nella
quale domina invece il pensiero aristotelico), se osserviamo in
profondità scopriamo che essa corrisponde invece a logiche precise.
Per opporsi a questo pregiudizio Nathan propone un aneddoto sui
Boscimani Kung22: «avevano appena eseguito i loro rituali della
pioggia che una piccola nuvola apparve all’orizzonte, si ingrossò e si
oscurò. La pioggia cadde. Tuttavia vennero pubblicamente derisi
quegli antropologi che avevano chiesto se i Boscimani pensavano che
la pioggia fosse caduta grazie ai loro riti23».
Anche se naturalmente esistono delle eccezioni, come in alcune
tribù di indiani d’America nelle quali lo stato di veglia è concepito in
continuità rispetto al sogno, “i bianchi, in genere, ritengono che
esistano due tipi di società: quelle in cui il pensare prevale sul
credere e quelle in cui il credere prevale sul pensare. Naturalmente la
società dei bianchi appartiene al primo tipo. Per giustificare questa
distinzione essi chiamano in causa ogni sorta di spiegazione delle
credenze altrui24”.
22
Individui che noi chiamiamo “selvaggi”.
23
Douglas, 1981 in Nathan T., 1995, p. 45
24
Nathan T., 1995, p. 44.