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INTRODUZIONE
“Il naso della plebaglia è la sua immaginazione, chi la
prende per questo naso può portarla dove vuole”
Edgar Allan Poe
Il fenomeno del populismo ha sempre rappresentato per la scienza
politica un argomento di difficile trattazione. Le difficoltà derivano
anzitutto da una concettualizzazione a dir poco problematica, essendo assai
arduo circoscrivere un ambito definitorio che possa descriverne al meglio le
caratteristiche e gli elementi più caratterizzanti. La vaghezza del termine ha
così spinto ad accostare il populismo a diversi contesti e a diverse
discipline, determinando, di conseguenza, un utilizzo poco chiaro dello
stesso concetto. La sovrautilizzazione del termine ha, dunque, aumentato le
difficoltà di chiarire il suo esatto contenuto. Per far fronte a queste
problematiche concettuali, la scienza politica ha progressivamente
delimitato il campo d’analisi attraverso un processo di individuazione
spazio-temporale, riferendo sempre più spesso il termine “populismo” ad
un gruppo di partiti che, in particolar modo a partire dalla seconda metà del
Novecento, si sono sviluppati prevalentemente in Europa. La particolarità
di tali partiti, che giustifica la ridenominazione di “populisti”, è da ricercare
nella loro tendenza e prerogativa di posizionare il popolo al centro dei
propri appelli e discorsi.
Nasce, a questo punto, la necessità di definire e delineare il concetto
di popolo per i populisti. Il riferimento al popolo, nei discorsi populisti,
può avere un duplice aspetto: il popolo può essere considerato in quanto
demos, ovvero come l’insieme di tutti i comuni cittadini, oppure come ethnos,
quando ci riferiamo al popolo-nazione, cioè al popolo inteso come identità
nazionale. Nel primo caso (popolo come demos) siamo di fronte ad una
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prima tipologia di populismo: il populismo anti-elitario, o protestatario. In
questo tipo di populismo la quasi totalità degli appelli rivolti al popolo sono
basati sulla critica del sistema politico, presentato in termini polemici in
quanto considerato eccessivamente distante dalle masse popolari. Esso si
esprime, appunto, in una lotta nei confronti delle cosiddette élites politiche,
costituite da rappresentanti politici che, a detta dei populisti, mirano
prevalentemente alla realizzazione dei propri interessi, tralasciando e
sottovalutando i bisogni e le necessità della comunità.
Quando, invece, il popolo viene trattato come ethnos, si viene a creare
una nuova forma di populismo, ovvero nasce il populismo identitario, il cui
obiettivo, questa volta, è quello di difendere l’identità nazionale dal rischio
di decadenza o, addirittura, di sparizione. Viene ideata in questo caso, da
parte del populista, l’immagine di un “nemico” pericoloso, da combattere,
sconfiggere e allontanare dalla propria terra. Il nemico principale è, il più
delle volte, accostato alla figura dello straniero, ritenuto minaccioso in
quanto portatore di nuove usanze, tradizioni e valori che potrebbero
compromettere la sopravvivenza dell’identità nazionale del popolo. Il
rifiuto dell’immigrazione clandestina comporta la nascita e la diffusione di
forti atteggiamenti xenofobi e razzisti che, come vedremo, spingono
inevitabilmente il populismo ad accostamenti, di certo poco edificanti, con
il fascismo e il nazionalismo.
I riferimenti al fascismo o al nazionalismo non devono, tuttavia,
indurre nell’errore di considerare il populismo esclusivamente come un
movimento di destra, addirittura estrema. Tutti i populisti tendono, anzi, a
rifiutare e a criticare la tradizionale divisione destra/sinistra, proponendosi,
il più delle volte, come partiti anti-sistema e anti-politici.
La storia ha conosciuto diversi casi e diverse forme di populismo. I
primi esempi di populismo vengono, generalmente, ricondotti ai movimenti
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sviluppatisi in Russia e negli Stati Uniti intorno alla seconda metà del XIX
secolo. Questi primi casi di populismo possono essere, più correttamente,
classificati come le prime forme di populismo agrario. Tali movimenti,
infatti nacquero per lo più in difesa delle comunità contadine. I populisti
russi (narodniki), per esempio, erano un gruppo di intellettuali che avevano
come principale obiettivo quello di difendere i tradizionali valori contadini,
patriarcali e cristiani dall’invasione delle idee liberali delle società
occidentali. Anche il populismo statunitense era caratterizzato da una
visione romantica del popolo contadino (in realtà unico elemento in
comune col populismo russo). Il People’s Party nacque, infatti, nel 1892 con
l’intento di difendere e promuovere le esigenze dei contadini del Midwest e
del Sud. In seguito nasceranno e si affermeranno nuovi esempi e casi di
populismi, con caratteristiche quasi totalmente differenti dai primi
populismi russi e statunitensi. Verranno, infatti, analizzati, nella prima parte
della tesi, anche i movimenti populisti sorti nei paesi latino-americani,
come, per, esempio, quello di Getulio Vargas in Brasile e, più in particolare,
quello argentino di Juan Domingo Perón. Populismi, questi, che hanno
dimostrato l’importanza di una figura politica carismatica, come appunto
potevano essere considerate quelle di Perón e Vargas.
Dopo tali esempi, infatti, anche i movimenti populisti nati in Europa
attribuiranno una particolare rilevanza alle capacità carismatiche del
leader/capo. Il concetto di potere carismatico ci porta, doverosamente, a
Max Weber, il quale indicava il carisma come una terza forma di potere, che
si contrappone a quello tradizionale e a quello razionale:
«Per “carisma” si deve intendere una qualità considerata
straordinaria […] che viene attribuita ad una persona. Pertanto
questa viene considerata come dotata di forze e proprietà
soprannaturali o sovrumane, o almeno eccezionali in modo
specifico, non accessibili agli altri, oppure come inviata da Dio o
come rivestita di un valore esemplare […]. Il potere carismatico,
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in quanto straordinario, si contrappone nettamente tanto a quello
razionale […] quanto a quello tradizionale» (Weber 1999).
La maggior parte dei partiti populisti si identifica, dunque, innanzi
tutto con il proprio leader:
«Per i nuovi populisti, la leadership non è un mero ingrediente: è
l’essenza del loro messaggio e del loro partito. Nei partiti
neopopulisti, la base carismatica della leadership è un elemento
essenziale perché rappresenta una sfida simbolica ai modelli di
organizzazione di partito prevalenti» (Taggart 1995).
E così, a partire dal poujadismo francese degli anni cinquanta,
nasceranno in Europa, e nel resto del mondo, numerosi movimenti
populisti, rigorosamente guidati da leader dal forte carisma che
utilizzeranno le proprie capacità dialettiche e comunicative con l’obiettivo
di coinvolgere e sedurre (attraverso discorsi il più delle volte demagogici) le
masse popolari: Jean-Marie Le Pen in Francia, Silvio Berlusconi e Umberto
Bossi in Italia, Jorg Haider in Austria, Hugo Chavez in Venezuela, Emiliano
Zapata in Messico, Ross Perot negli Stati Uniti, sono solo alcuni esempi.
La parte centrale della tesi verterà sul rapporto tra il populismo e la
democrazia. Il legame tra i due concetti risulta, anch’esso, alquanto
problematico e delicato. In quanto “governo del popolo” la democrazia
potrebbe ritrovare all’interno del populismo alcuni elementi e principi
accomunanti e, viceversa, il populista dovrebbe, teoricamente, considerare il
sistema democratico come l’unico in cui potersi stabilire e affermare. Ma la
realtà, come vedremo, ci mostra una situazione decisamente diversa. A
partire dalla seconda metà del Novecento, dopo la conclusione del secondo
conflitto mondiale, i sistemi democratici europei modificarono i propri
pilastri fondamentali, attribuendo una particolare importanza al concetto
del check-and-balances, che prevede, tra le altre cose, la separazione e
limitazione dei poteri, un controllo di costituzionalità delle leggi ed
un’indipendenza giudiziaria e, conseguentemente, un leggero
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ridimensionamento del potere attribuito al popolo. Il costituzionalismo
venne creato con l’obiettivo di contenere il potere anche in seguito ad una
legittimazione popolare, ma questa esigenza non nasceva per eliminare
totalmente l’influenza delle decisioni popolari ma, più che altro, per
ridimensionarla. Ciò che si vuole evitare con il costituzionalismo è il
ripetersi di traumatiche esperienze dittatoriali, come quelle, per esempio,
vissute in Italia e Germania con Benito Mussolini e Adolf Hitler che,
comunque, erano state il risultato di investiture formalmente regolari.
Nascono così le polemiche dei populisti nei confronti del sistema
democratico. In primo luogo ciò che viene criticato è il sistema di
democrazia rappresentativa, che prevede la figura di un rappresentante,
regolarmente eletto, che faccia da intermediario tra i cittadini e le istituzioni.
I populisti, che fondano l’intera democrazia sulla volontà popolare
propongono, in alternativa, un sistema democratico diretto (obiettivamente,
di difficile realizzazione) che prevede l’eliminazione dell’intermediario e
l’utilizzo di vari strumenti di consultazione, come per esempio i
referendum, necessari per manifestare le richieste e le opinioni popolari, in
modo tale da ridurre, o addirittura annullare, la distanza che si è venuta a
creare tra i governanti e i governati. Il conflitto tra il populismo e la
democrazia nasce, dunque, dalle differenti aspirazioni dei populisti (che
mirano ad un mutamento del sistema democratico, in modo da attribuire
un’importanza fondamentale alla sovranità popolare) rispetto a quelle dei
“democratici” che, al contrario, temono proprio una deriva populista che
potrebbe portare ad una “tirannia del popolo”.
Già da alcuni anni numerose ricerche politologiche hanno messo in
rilievo una progressiva crisi democratica, causata da un malessere popolare
che, come abbiamo appena detto, si è venuto a creare (in particolar modo
negli ultimi decenni) nei confronti del funzionamento dei sistemi di
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democrazia e, più in generale, nei confronti dell’intero sistema politico. A
partire dagli anni settanta, in Europa, la partecipazione alla vita politica ha
subito un netto calo che potrebbe confermare una reale sfiducia da parte
dei cittadini nei confronti dei partiti, degli uomini politici e delle istituzioni.
Come affermano Mény e Surel, nel loro lavoro Populismo e democrazia: “[il]
declino della prestazione democratica potrebbe trovare la sua causa sia
nell’incapacità dei governi di soddisfare i propri mandanti […] sia nel
mancato rispetto dei loro impegni specifici (promesse elettorali) e
fondamentali (violazioni etiche)” (Mény, Surel 2004, 149). Tuttavia, il calo
della partecipazione politica, e il conseguente aumento dei tassi
d’astensionismo, non dovrebbero costituire, in sé, una seria minaccia per la
stabilità della democrazia. Tali fenomeni, allo stesso tempo, potrebbero
però spianare la strada alla nascita di nuovi partiti populisti che, sfruttando
questa generale insoddisfazione popolare, potrebbero proporsi come una
valida, o forse l’unica, alternativa in grado di cambiare l’intero sistema
politico e democratico. Da qui nasce, come vedremo più avanti, il rischio
per la democrazia di una deriva populista, certamente da non sottovalutare.
La terza e ultima parte della mia tesi è interamente dedicata a due dei
principali esempi di leader populisti europei: Silvio Berlusconi e Jean-Marie
Le Pen. Verranno comparati e analizzati i due percorsi politici, ponendo
maggiore attenzione sugli elementi populisti che si possono facilmente
riscontrare nella carriera politica (da poco conclusasi) di Le Pen e in quella
(attuale) di Berlusconi.
La sorprendente affermazione al primo turno delle elezioni
presidenziali francesi nell’Aprile del 2002 di Jean-Marie Le Pen venne
accolta, da parte di quasi tutte le classi dirigenti, con un certo senso di
timore e, addirittura, il successo del leader francese venne paragonato ad un
“terremoto” (Taguieff 2006). Nonostante il secondo turno vide trionfare,
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con la percentuale di voti più alta di sempre, Jacques Chirac, sancendo, in
qualche modo, la pressoché definitiva conclusione della carriera politica di
Le Pen, il risultato del primo turno rappresentò un evento, per certi versi,
storico per l’intero panorama politico francese ed europeo. La politica
populista di Le Pen, a partire dagli inizi degli anni ottanta, ha occupato,
come vedremo, un importante posizione nel sistema politico della Francia.
La sua battaglia per la difesa dell’identità nazionale (con la conseguente lotta
all’immigrazione) e le critiche rivolte a tutti gli altri partiti francesi, compresi
quelli di destra, ed ai metodi di funzionamento della democrazia francese,
classificano il suo populismo sia come identitario che come protestatario.
L’aspetto identitario, tuttavia, risulta prevalere: il suo principale obiettivo
politico era, infatti, quello di difendere l’identità nazionale dei “veri
francesi” dalla minaccia rappresentata dallo straniero. L’etranger veniva
infatti etichettato come il colpevole di tutte le violenze e le ingiustizie che il
popolo francese subiva. Ad esso veniva attribuito l’aumento dei casi di
violenza nei centri urbani francesi, della disoccupazione, dell’uso di droga,
ecc. (Gentile 2008). Le Pen, tuttavia, non si limitava a considerare il popolo
solamente come ethnos, e nella sua ideologia era presente, come detto, anche
un carattere prettamente protestatario: il leader francese si presentava al
popolo, questa volta inteso come demos, come un’alternativa sia al
comunismo che al gollismo. Il suo slogan era: “Ni droite, ni gauche:
Français d’abord” (ibid.), ovvero “né destra né sinistra: i francesi prima di
tutto”. Il Front National veniva considerato da Jean-Marie Le Pen come
l’unico partito in grado di difendere i valori e gli interessi del popolo
francese, e alla critica di tutti gli altri schieramenti includeva, come detto,
anche quella alla destra di Chirac, che Le Pen reputava “falsa”.
L’esempio più emblematico di leader populista è però forse
rappresentato da Silvio Berlusconi. L’Italia è uno dei pochi paesi europei in