3
In considerazione di questo mutamento di prospettiva si è
affermata la necessità di ridefinire lo spazio per l'intervento
pubblico. Ne è scaturita una visione sistemica degli attori del
processo innovativo, secondo la quale si produce
innovazione tecnologica solo se tali soggetti sono sempre
più vicini ed intercomunicanti.
Si è quindi sottolineata l'idea che lo Stato, in aggiunta o
forse in alternativa agli strumenti tradizionali d'intervento,
cioè fornitura di conoscenza scientifica prodotta direttamente
dal settore pubblico ed incentivazione finanziaria alla ricerca
privata, dovrebbe mirare a fortificare la rete di relazioni tra i
tre poli che compongono questo sistema: ricerca privata,
Università ed enti pubblici.
A questo proposito è stato messo in risalto il ruolo chiave
che in tale prospettiva sistemica dovrebbero avere le
istituzioni-ponte, che fungano da interfaccia tra il mondo
produttivo e quello accademico, permettendo una maggiore
comunicabilità ed un più incisivo trasferimento di
conoscenza tecnologica.
Si sono poi analizzate le peculiarità del sistema italiano,
affollato di piccole imprese che non possono raggiungere
da sole la massa critica d'investimenti necessari per la
ricerca e sviluppo, mettendo in luce come esso sia
caratterizzato da scarsa qualità media della ricerca
scientifica pubblica ed universitaria, contrapposta a punte
isolate di eccellenza e da una diffusa debolezza della
domanda di tecnologia da parte dell'industria.
Infine nell'ultimo capitolo si è cercato di dare un quadro
sintetico sia delle leggi di politica tecnologica ed innovativa
4
che dell'attività dei due più grandi Enti di ricerca pubblici
italiani: CNR ed ENEA.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato gentilmente nella
stesura di questa tesi, in particolare: il direttore del
Consorzio Milano Ricerche, Prof. Archetti; il direttore del
Comitato Scientifico e Tecnologico del Ministero
dell'Università e della Ricerca Scientifica, Prof. Fabri; la
dott.ssa Palma dell'ENEA; il relatore, Prof. Pontarollo; la
correlatrice, prof. Solimene.
9
1 L'intervento pubblico
nell'industria.
1.1 Ragioni e significati della politica
industriale.
La storia dei sistemi economici moderni ha visto il frequente
intervento della mano pubblica in diversi campi d'attività ed a
più livelli: regionali, nazionali ed internazionali.
Questi interventi hanno trovato ragion d'essere
tradizionalmente nella teoria dei mercati imperfetti, cioè si
configurerebbero come correzioni che il policy maker attua
in mercati che, lasciati a se stessi, porterebbero ad
un'allocazione inefficiente delle risorse. In questo senso
sarebbero delle cure da destinare a mercati patologici,
affetti da:
• rendimenti di scala non decrescenti nella produzione, il
che comporta il rischio di monopolio o oligopolio naturale;
• presenza di informazioni incomplete, incerte o distribuite
in maniera inadeguata tra gli operatori;
• ricaduta di effetti collaterali negativi sugli operatori
estranei alla produzione o al consumo;
• presenza di beni non razionabili da un prezzo.
Al di fuori di questa teoria tradizionale esistono però altre
spiegazioni dell'intervento pubblico nell'economia.
10
Innanzitutto esso può essere ricondotto a ragioni di equità,
piuttosto che di efficienza, ed essere finalizzato ad una
riallocazione delle risorse mirata ad un obiettivo in termini di
equidistribuzione approvato dalla comunità.
Inoltre lo Stato può intervenire per guidare il sistema
economico verso percorsi di sviluppo ritenuti adeguati in
rapporto alla situazione internazionale.
Le politiche industriali sono solo una delle molteplici facce
dell'intervento pubblico nell'economia, la cosiddetta mano
visibile. Esse si sostanziano nell'intervento di un'autorità
pubblica volto a modificare la struttura industriale di
un'economia secondo certi modelli.
Il loro presupposto è quindi che la struttura industriale, se
lasciata alla spontanea iniziativa privata si evolverebbe in
maniera inadeguata, o mancherebbe di qualche fattore
essenziale.
Tradizionalmente esse trovavano ragion d'esistere oltre che
nella teoria del fallimento dei mercati, anche nella
strategicità che i governi riconoscono ad alcuni settori
industriali, dal punto di vista militare o dal punto di vista dello
sviluppo del benessere della collettività.
Al contrario nuove visioni della politica industriale, nate alla
scuola di Chicago, vedrebbero in esse un semplice
trasferimento di benessere dalla comunità nella sua
interezza ad alcuni gruppi, che, poiché meglio organizzati e
rappresentati, avrebbero un potere di pressione sul
Governo. Tale teoria, ipotizzando la cattura degli strumenti
di erogazione di benefici da parte di interessi privati, scolora
11
il significato dell'intervento statale, rendendolo di fatto
controproducente.
Secondo altre linee di pensiero recenti e più ottimiste le
politiche industriali dovrebbero essere gli interventi finalizzati
a creare appropriati contesti competitivi per le imprese, ed
avrebbero senso solo in relazione alle esternalità positive
che si dovrebbero generare in tali contesti.
Per le teorie americane della scuola di Harvard, più liberiste,
le politiche industriali dovrebbero servire esclusivamente a
mantenere concorrenziali i mercati in modo da operare una
selezione naturale sulle imprese, rendendole dunque più
adeguate alla competizione internazionale. In quest'ottica le
politiche industriali si risolvono quasi totalmente in politiche
antitrust, il cui compito è di garantire una struttura produttiva
concorrenziale, da cui discendono comportamenti e
performance anch'esse concorrenziali (secondo il
paradigma harvardiano S-C-R).
Va sottolineato come la letteratura proponga molteplici
interpretazioni dell'argomento, talvolta anche inconciliabili tra
loro.
In effetti gli economisti si dividono tra coloro che credono nei
meccanismi di mercato come strumento efficiente di
allocazione delle risorse, e coloro che invece enfatizzano il
ruolo correttivo dei comportamenti strategici pubblici.
Per i primi le politiche industriali, per lo meno quelle
tradizionali, sono controproducenti nella misura in cui si
configurano come atti di protezionismo o di salvataggio di
imprese inefficienti, ma anche quando esse siano attive, dal
momento che non si può dimostrare a priori che lo Stato sia
12
in grado di riconoscere meglio degli imprenditori privati quali
siano i settori con le migliori prospettive di sviluppo.
Inoltre tali politiche di sussidio comportano un rilevante
prelievo fiscale, cosicché si rischia che esse si risolvano in
un mero trasferimento di risorse dalle imprese efficienti a
quelle in agonia, operando un meccanismo perverso, che va
nel senso opposto alla selezione naturale che impongono i
mercati.
Al contrario altri credono che il grado di imperfezione dei
mercati sia alto e che i market failures siano la regola
piuttosto che l'eccezione; allora il potere pubblico potrebbe
garantire l'eliminazione degli effetti esterni negativi, delle
asimmetrie e delle incertezze.
Inoltre nei settori ad alta tecnologia potrebbe sostenere la
ricerca, che comporta elevati investimenti senza ritorni, e
socializzarne parte dei rischi, tenendo presente che proprio
questi sono i settori chiave delle economie contemporanee.
Infine politiche pubbliche lungimiranti potrebbero indirizzare
il processo di accumulazione di capitale fisico ed umano
verso settori ritenuti strategici, ma nei quali il Paese non
trova tradizionalmente un vantaggio competitivo: caso
emblematico è l'orientamento verso l'industria pesante ed
elettronica che il Ministero dell'Industria giapponese ha
imposto negli Anni Sessanta e che ha rappresentato una
svolta epocale per l'industria mondiale. Proprio questo
esempio sembrerebbe dimostrare che una politica
industriale trasparente e ben definita nei suoi obiettivi
economici può fare la fortuna di un Paese e che quindi le
politiche industriali hanno una ragione d'esistere.
13
1.2 Politiche industriali e politiche per
l'industria.
Nella teoria dell'intervento pubblico nell'industria si
distinguono le politiche industriali in senso stretto o
tradizionali, da quelle latu sensu, a cui ci si riferisce anche
come politiche per l'industria o fattoriali.
Le politiche industriali tradizionali: sono interventi selettivi
sui settori o sulle singole imprese. Esse sono manovre di
natura microeconomica e di medio-lungo periodo volte a
variare direttamente la struttura produttiva del paese.
In quanto selettive esse sono discrezionali e quindi
pongono grossi problemi di obiettività e di turbamento
dell'assetto concorrenziale, per questo risultano ben poco
compatibili con un ordinamento sovranazionale come quello
dell'Unione Europea.
Tuttavia per anni tutti i governi europei si sono affidati a
politiche pubbliche di questo tipo che, soprattutto dopo la
crisi petrolifera, permettevano un intervento diretto ed
efficace (qualora non distorto da deviazioni d'interesse
privato) sul settore o sull'impresa in crisi.
Le finalità di tali politiche erano per lo più difensive, cioè di
tamponamento delle difficoltà del sistema industriale e si
sostanziavano in:
14
• politiche di sostegno delle industrie nascenti, cioè di quei
settori emergenti sottoposti alla concorrenza di imprese
di paesi ad un livello di sviluppo maggiore;
• politiche per lo sviluppo delle aree arretrate, di cui è
esemplare il caso del Mezzogiorno italiano, consistenti in
interventi volti a difendere e stimolare la nascita di un
sistema industriale locale;
• politiche per le piccole e medie imprese, volte a
difenderle dall'aggressività delle imprese maggiori che
proprio nella loro dimensione traggono un vantaggio
competitivo incolmabile;
• politiche per i settori in declino, poste in essere per
limitare gli effetti negativi sul benessere della collettività
della crisi di imprese obsolete.
Esistono d'altra parte politiche industriali di natura
aggressiva, la finalità delle quali è connessa al
miglioramento della posizione del paese nel panorama
competitivo internazionale e all'eliminazione delle
strozzature del sistema produttivo. Alla base di queste
politiche sta la presunzione della strategicità di alcuni settori,
verso i quali la mano pubblica volge le risorse nazionali, ed
una concezione neomercantilista di lotta internazionale per
la ricchezza.
Tali politiche trovano di consueto applicazione in:
• settori con produzioni ad alto valore aggiunto;
• settori dinamici con alte possibilità di sviluppo;
• settori con ampie economie di scala potenziali;
• settori caratterizzati da potenziali spillovers tecnologici e
di domanda .
15
Anche le politiche per l'industria sono interventi dell'autorità
pubblica di natura microeconomica e di medio lungo
termine, però esse sono prive del requisito della selettività.
Si sostanziano in interventi "a pioggia", cioè garantiti (e non
assegnati a discrezione) a tutte le imprese che rientrino in
certi parametri oggettivi.
Questa differenza le ha rese molto attuali nei paesi ove
fosse maturata la convinzione che il meccanismo di
erogazione selettivo venisse regolarmente distorto da
comportamenti opportunisti delle amministrazioni coinvolte.
Tali politiche sono di tipo orizzontale o fattoriale, invece che
settoriale, in quanto sono finalizzate a rendere più
disponibile all'intero sistema industriale un fattore produttivo
ritenuto essenziale, garantendo quindi condizioni
precompetitive uguali per tutti.
Tra le politiche per l'industria possiamo quindi annoverare
due grossi filoni d'intervento:
• la regolamentazione, che consiste nell'approntamento di
regole ed organismi preposti al controllo dei mercati e
dell'attività produttiva. Vi rientrano l'attività di controllo dei
mercati delle public utilities, l'antitrust, la normativa
tecnica di settore ed il controllo ambientale.
• La fornitura di beni pubblici e semi-pubblici, che si ritiene
siano essenziali per la performance dell'industria, dal
momento che sono usati come input nei processi
produttivi, ad esempio: infrastrutture, educazione tecnica,
professionale ed informazione scientifica e tecnologica.
16
Figura 1: quadro sinottico delle politiche settoriali e fattoriali.
- fallimenti dei mercati
- struttura produttiva inadeguata
aggressive
in senso stretto: politiche
settoriali e selettive difensive
dei mercati
Politiche industriali
regolamentazione
dell'attività
produttiva
in senso lato: politiche fattoriali (politiche per l'industria)
fornitura di beni pubblici e semi-pubblici
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1.3 Strumenti delle politiche industriali.
La quantità di strumenti con cui i Governi hanno operato
concretamente nell'Industria è estremamente vasta.
Si possono distinguere strumenti di d'intervento diretti, con i
quali si impongono in maniera coercitiva certi comportamenti
alle imprese, ed indiretti la cui ratio è di fornire incentivi
economici all'adozione dei comportamenti desiderati.
Tra gli interventi diretti si può annoverare la gestione di
imprese, strumento assai usato in Italia e che permette di
perseguire congiuntamente molti obiettivi, talvolta anche
conflittuali tra di loro: sostegno degli investimenti, sostegno
dei settori in crisi, mantenimento dell'occupazione in
momenti o contesti particolari.
Inoltre l'impresa pubblica può operare in settori strategici
ove l'iniziativa privata fosse ritenuta insufficiente, a causa
della rilevanza delle dimensioni d'investimenti necessari o
per la scarsa remunerazione attesa.
Poi essa ha risolto il problema di mercati imperfetti che
tendono al monopolio, o alla scrematura della clientela
nell'erogazione di servizi a rete sul territorio (trasporti,
telecomunicazioni, distribuzione dell'energia, eccetera),
secondo l'idea che il monopolio pubblico, sussidiato dallo
Stato, garantirebbe condizioni migliori (prezzi più bassi e
diffusione capillare) di quello privato.
L'esperienza italiana di politica industriale è proprio segnata
da un massiccio intervento di gestione diretta di imprese
18
sotto varie forme: dalle municipalizzate, agli Enti pubblici,
alle partecipazioni statali. Questo blocco di industria
pubblica svolse estremamente bene il proprio compito negli
Anni Cinquanta e Sessanta, sospingendo l'Italia verso livelli
di benessere mai raggiunti prima, grazie ad una
generazione di dirigenti e politici illuminati e ad una
congiuntura economica particolarmente felice.
Ma dagli Anni Settanta in poi il modello entrò in crisi,
abbattuto dall'esterno dalla crisi energetica e dall'interno
dalla deviazione dagli obiettivi principali.
Una spinta ulteriore venne negli Anni '80 dal nuovo spirito
liberista che si concretizzò nell'ondata di privatizzazioni e di
dismissioni di partecipazioni, ulteriormente accelerata dai
mutamenti tecnologici che stravolgevano l'assetto mondiale
di alcuni mercati (microelettronica, informatica,
telecomunicazioni, energia...) e dalle ristrettezze del
Ministero del Tesoro.
L'impresa pubblica del resto si armonizza male con lo spirito
europeista degli Anni Novanta, visto che essa è sussidiata
dallo Stato secondo logiche diverse dal finanziamento
privato, eppure molto spesso si trova in competizione con
imprese private.
Bisogna poi menzionare anche la gestione della domanda
pubblica che, sotto forma di commesse, appalti e acquisti, è
stata a lungo considerata uno degli strumenti più potenti di
politica industriale (Ninni 1994). Essa infatti per i suoi grandi
volumi, la certezza dei pagamenti e delle scadenze ha
19
potuto fungere da traino tanto per settori ad alta tecnologia,
quanto per settori maturi.
L'acquirente pubblico non si comporta mai come uno
privato, ma fa "acquisti politici", massimizzando una
funzione di utilità diversa da quella dei privati: esso all'atto
dell'acquisto in realtà desidera sempre perseguire anche un
obiettivo di modificazione della struttura produttiva.
La domanda pubblica può essere manovrata per rafforzare
l'industria nazionale, garantendole rilevanti volumi di vendita,
specialmente quando essa vi fosse rivolta in esclusiva, per
legge o per la presenza di barriere al commercio
internazionale sotto forma di standard tecnici di settore.
Inoltre può servire a favorire le imprese localizzate in aree
arretrate, o in funzione anticiclica per stabilizzare la
domanda aggregata.
Ma soprattutto essa può essere usata per promuovere
l'innovazione: partecipando alla costituzione del paradigma
tecnologico potenziale (Dosi, 1988), definendo le specifiche
tecniche necessarie, accollandosi l'onere della
sperimentazione in modo da ridurre i rischi a carico
dell'impresa e, quando la tecnologia fosse ormai
consolidata, garantendo elevati volumi di vendita così da
permettere il raggiungimento di economie di scala nella
produzione.
Quando la domanda pubblica è stata abbondante e di
buona qualità (come negli Stati Uniti) anche se non
programmata coscientemente come strumento per
rafforzare il sistema industriale nazionale ha prodotto effetti
largamente positivi. Viceversa laddove venisse usata in
20
maniera disorganica e poco lungimirante, nuocerebbe al
sistema, indebolendolo.
Infatti quando la fornitura del settore pubblico è assicurata
in esclusiva ai produttori nazionali si ricade de facto in una
forma di protezionismo che, in quanto tale, può mantenere
in vita imprese non competitive o comunque causare
persistenza di x-inefficiency.
La situazione è stata rivoluzionata da una serie di Direttive
CEE ( 88/265 per le forniture, 89/440 per i lavori, 90/531 per
energia, acqua, trasporti e telecomunicazioni , 92/50 per i
servizi) con cui i mercati dei Paesi membri dell'Unione
Europea hanno reciprocamente aperto i propri mercati,
escludendo di conseguenza i fornitori extra continentali.
La domanda pubblica si è venuta così a configurare come
strumento di politica commerciale internazionale e di politica
dell'innovazione, piuttosto che come strumento di politica
industriale.
Gli Stati infine si sono serviti spesso di sussidi alle imprese
sotto varie forme quali trasferimenti in conto capitale o
sgravi fiscali
1
, i quali hanno però aperto una serie di
questioni.
In primo luogo, trattandosi di aiuti selettivi e discrezionali
erogati alle imprese, hanno sempre indotto discriminazioni
nell'industria tra imprese in grado di accedervi, perché
dotate delle necessarie risorse informative ed umane, ed
imprese escluse, che paradossalmente spesso dovrebbero
essere le destinatarie principali.
1
Per un quadro riassuntivo delle leggi d'intervento a favore della ricerca privata v. infra par.
4.1.