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dinari nelle otto regioni del Mezzogiorno, più le province meridionali di Lazio e Marche: que-
sti interventi sarebbero stati finanziati con mille miliardi, ripartiti in dieci anni, e mantenuti
con l’impegno a destinare una quota del bilancio dello Stato non inferiore al 40% al Mezzo-
giorno. La Cassa fu attiva per trent’anni e durante tutti gli anni ’59 e ’60 furono portati avanti
importanti opere infrastrutturali: si rinnovò la rete ferroviaria, si rimodernò la rete stradale, fu
creata una rete autostradale, furono ampliati e resi più efficienti i porti. Tutte queste opere tro-
vavano una sponda teorica nel “capitale fisso sociale” di Hirschman, cioè nell’impegno dello
Stato a fornire una struttura di base (rappresentata appunto dalle infrastrutture, soprattutto di
trasporto) su cui poi si sarebbe sviluppata l’azione privata, con la creazione, per dirla con Hir-
schman, di “attività direttamente produttive”. L’esperimento portò a successi parziali ma que-
sti successi sono comunque inficiati da elementi che in una pura teoria del capitale fisso so-
ciale sarebbero da considerare come pesi per lo sviluppo. Tra questi pesi il più oneroso è sicu-
ramente la mancata coordinazione tra i diversi tipi di infrastrutture che hanno portato ad una
situazione paradossale, almeno negli anni ’50, di utilizzare le ferrovie come mezzo di traspor-
to per le distanze brevi e la rete stradale e autostradale per le distanze medio-lunghe; inoltre le
principali opere venivano costruite lungo vie di comunicazione già sfruttate, consolidando
quella che era già una situazione di fatto e rinforzando una dipendenza strutturale del sud nei
confronti del resto del Paese. In sintesi le nuove infrastrutture create non servivano ad uno
sviluppo autonomo del Mezzogiorno, o quantomeno in armonia con il resto del Paese, ma
portarono ad una crescita strettamente legata e quindi successiva a quella del resto d’Italia,
che tra gli anni ’50 e ’60 fu particolarmente rapida.
A tutto ciò va aggiunto che parte della crescita delle Regioni del Sud fu aiutata anche
dall’intervento diretto dello Stato con sue aziende. Questi elementi potrebbero portare a pen-
sare che la teoria del capitale fisso sociale non sia una buona strada per lo sviluppo e la cre-
scita del Mezzogiorno, ma ci sono molti elementi che non sono stati debitamente sviluppati
nell’esperienza italiana e che saranno analizzati in questo lavoro. Tra questi, particolare im-
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portanza racchiude la definizione di infrastrutture e quindi di capitale fisso sociale, poiché ol-
tre alle infrastrutture di trasporto dovrebbe comprendere anche altri tipi di infrastrutture come
gli elettrodotti e gli acquedotti che sono state, almeno in una prima parte, ignorate dagli obiet-
tivi della Cassa del Mezzogiorno e hanno subito, soprattutto fino ai primi anni ’60 un lentis-
simo sviluppo che lasciava fuori dall’elettrificazione la maggior parte dei centri minori, men-
tre ancora più lenta è stata la diffusione degli acquedotti, tanto lenta che ancora oggi ci sono
zone a rischio siccità.
A metà degli anni ’50 con lo “schema Vanoni” la metodologia di intervento verso il
Sud subisce un primo cambiamento: le politiche infrastrutturali non vengono abbandonate, ma
non si riconosce loro la stessa importanza che si era riconosciuta fino a quel momento. Si pun-
ta soprattutto sulla piena occupazione, sul riequilibrio economico tra Nord e Sud, mentre le
infrastrutture perdono parzialmente il ruolo di elemento propulsivo. Ma solo con gli anni ’60
si abbandona anche formalmente la teoria del capitale fissi sociale per passare ad un nuovo
tipo di teoria delle infrastrutture che, peraltro, sul capitale fisso sociale si innesta. Nasce l’idea
che le vie di comunicazione non debbano essere solo un mezzo di collegamento tra due poli
industriai, ma che debbano far crescere intorno ad esse altri centri di produzione di ricchezza.
Si passa così alla teoria degli assi di sviluppo di Pottier: le vie di comunicazione sono solo un
punto di partenza, il fulcro dello sviluppo dell’intera zona intorno all’asse di comunicazione.
Un’importanza particolare rivestono allora non solo lo sviluppo di strade, ferrovie, acquedotti
ed elettrodotti ma anche lo sviluppo di scuole, ospedali, università e centri di ricerca, con lo
scopo di creare un sistema integrato in cui l’azione privata debba essere rappresentare il com-
pimento naturale di uno schema complessivo predefinito. Questi argomenti possono sembrare
simili a quelli esposti da Hirschman, ma ciò che differenzia le due posizioni è essenzialmente
la coordinazione dall’alto dei diversi tipi di infrastrutture, la creazione di uno schema predefi-
nito da attuare in termini relativamente brevi che non solo spinga il privato ad investire ma
che lo incanali verso specifiche forme di investimento. Questa teoria è stata applicata par-
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zialmente in Italia, dove gli elementi principali (lo schema e l’investimento privato) sono stati
capovolti in alcuni casi, in altri casi la teoria è stata inglobata in quella dei distretti industriali
e, di nuovo, la politica infrastrutturale è stata solo costruzione di vie di collegamento tra centri
di produzione già sviluppati. In altri casi ancora si è proceduto ad invogliare l’instaurazione di
insediamenti industriali senza, però, creare intorno a questi una valida rete di infrastrutture.
In ogni caso lo sviluppo delle infrastrutture e l’idea di sviluppo legato alle infrastruttu-
re viene portato avanti fino agli anni ’70, quando la crisi economica internazionale spinge il
Governo italiano a cambiare completamente strategia: non più riequilibrare l’economia del
nord e del sud ma accrescere la ricchezza in modo che la spartizione della torta possa soddi-
sfare tutti. Negli anni ’80 le politiche infrastrutturali nel Mezzogiorno vengono praticamente
abbandonate, la Cassa del Mezzogiorno viene sostituita da altre forme di intervento straordi-
nario e lo Stato passa al sostegno diretto dell’industria. Anche il dibattito teorico sulle infra-
strutture si acquieta, le tematiche discusse sono altre: le infrastrutture non sono più viste come
un perno portante dello sviluppo.
Bisogna aspettare gli anni ’90 perché le infrastrutture tornino ad essere centrali nelle
politiche economiche, in Italia soprattutto sulla spinta dell’Unione Europea. Il cosiddetto “o-
biettivo 1” a sostegno delle regioni svantaggiate prevede, tra le sue aree di intervento, anche le
infrastrutture ed in tale obiettivo rientrano le otto regioni del mezzogiorno, ma anche questa si
trasforma più in un’occasione persa che in un’opportunità. Gli ammodernamenti sono lenti,
continuano a mancare strutture di raccordo, i fondi comunitari non sono mai utilizzati a pieno,
soprattutto si assiste ad una politica infrastrutturale a due velocità: da un lato si cerca di porta-
re le infrastrutture del Mezzogiorno al livello di quelle del Centro - Nord o comunque al livel-
lo della media europea sia in termini di radicamento sul territorio che di efficienza, dall’altro
si porta avanti una politica di nuove grandi infrastrutture come l’alta velocità che va, però, ad
innestarsi su una base fragile. Al di là delle politiche dello Stato Italiano vanno considerate
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ancora le politiche europee che, purtroppo, tendono ad escludere il Sud Italia dai nuovi “cor-
ridoi” e quindi a scoraggiare investimenti consistenti nelle infrastrutture del Mezzogiorno.
Ma sempre dai primi anni ’90 la teoria economica tende a rivalutare il ruolo delle in-
frastrutture, soprattutto si tende a valorizzare il rapporto tra infrastrutture e settore privato.
Certo, le nuove teorie sono essenzialmente improntate alle esigenze dei paesi in cerca di svi-
luppo, ma in fondo queste teorie sono ampiamente applicabili alla situazione del Mezzogior-
no: infatti si può dimostrare come nelle zone del sud che hanno beneficiato di una politica in-
frastrutturale più rigorosa ed organizzata si sia riusciti ad innescare un processo di sviluppo
economico, mentre le zone che invece sono servite da infrastrutture vecchie e precarie sono
rimaste sostanzialmente indietro rispetto al resto dell’Italia.
Dire che le politiche infrastrutturali sono la panacea a tutti i mali dell’economia del
Mezzogiorno è sicuramente un’affermazione avventata, ma resta il fatto che le infrastrutture,
siano esse di trasporto o infrastrutture sociali, sono l’ossatura di un’economia, laddove eco-
nomie con infrastrutture fragili sono sempre soggette ad alternanza di periodi di crescita a pe-
riodi di recessione. La maggior parte delle regioni italiane è li a dimostrarcelo.
Alla luce di queste considerazioni, nella presente Tesi è stata strutturata in tre Capitoli,
con la seguente configurazione. Nel primo Capitolo descriveremo le principali teorie econo-
miche che hanno come tema centrale l’impatto delle infrastrutture sullo sviluppo economico
partendo dalla teoria di sviluppo in condizioni di disequilibrio di Hirschman fino ad arrivare a
teorie più recenti che rivalutano il ruolo delle infrastrutture dopo un parziale abbandono. Nel
secondo capitolo ripercorreremo lo sviluppo storico delle diverse categorie di infrastrutture a
partire dal 1950, anno di istituzione della Cassa del Mezzogiorno, fino ai giorni nostri facendo
un confronto tra l’andamento storico e la situazione attuale. Nel terzo ed ultimo capitolo por-
remo in relazione l’andamento delle infrastrutture e la crescita economica, cercando conferma
in modelli econometrici.
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In appendice a questo capitolo descriveremo anche il MOMEZ, il modello econome-
trico per lo sviluppo del Mezzogiorno, sviluppato dal ministero del tesoro e che pone al centro
l’offerta di beni da parte dell’operatore pubblico, offerta in cui spiccano le infrastrutture.
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CAPITOLO I
INFRASTRUTTURE E SVILUPPO ECONOMICO. ASPETTI TEORICI E DI
POLITICA ECONOMICA
I.1 Le infrastrutture come capitale fisso sociale.
Cosa ci vuole per permettere ad un Paese o ad una zona di un Paese di svilupparsi? Per
anni economisti di tutto il mondo hanno cercato e cercano tuttora di rispondere a questa do-
manda con risultati differenti. Tutti concordano sulla necessità, in primo luogo, di un passag-
gio da una economia agricola ad una economia fortemente industriale ma sul come questo
passaggio debba avvenire sono nate diverse teorie. In un primo tempo – anzi nel primo
modello sullo sviluppo economico di un’area arretrata del Rosenstain Rodan (1943) – si è
pensato che fosse importante una crescita equilibrata dell’economia, cioè una crescita che
coinvolga contemporaneamente diversi settori produttivi moderni in modo da non creare
disequilibrio del sistema o tra diverse zone del Paese. Uno dei primi ad abbandonare tale
concezione fu Albert Hirschman che nel 1958
1
perorò la causa dello sviluppo non equilibrato,
dando fiducia al mercato e alla sua forza equilibratrice. Ma Hirschman si spinse ancora un
poco oltre, aprendo la strada all’analisi di un settore che fino a quel momento era stato
considerato accessorio al sistema economico e naturalmente inglobato nello sviluppo
equilibrato: Hirshman ipotizzò la possibilità di indurre lo sviluppo tramite l’investimento in
infrastrutture o meglio tramite l’investimento in capitale fisso sociale.
1
Albert O. Hirschman, “The Strategy of Economic Development”, Yale University Press, New Haven and Lon-
don, 1958
11
Definiamo il Capitale Fisso Sociale
Hirschman inizia la sua analisi facendo una distinzione tra il capitale fisso sociale
(CFS) e le attività direttamente produttive (ADP) sottolineando che questa distinzione è basa-
ta più sulla sua utilità teorica e pratica che su una stringente logica. Ma più di questa distin-
zione è importante a questo punto dell’analisi capire qual è la distinzione tra capitale fisso so-
ciale e capitale sociale. Poiché entrambe le denominazioni hanno al loro interno l’aggettivo
sociale è consequenziale che i due concetti abbiano degli elementi in comune, infatti entrambe
riguardano “beni” materiali, o immateriali, di cui usufruisce l’intera collettività. Ma questa de-
finizione è piuttosto vaga, elusive per dirla con gli inglesi, come del resto è lo stesso concetto
di capitale sociale e, in minor misura, quello di capitale fisso sociale.
Proviamo a procedere con ordine iniziando a definire il capitale fisso sociale, poiché è
centrale nella nostra analisi, e a paragonarlo in seguito con il capitale sociale.
«Normalmente noi includiamo nel CFS (o infrastrutture vive) tutti quei servizi di base
senza i quali le attività produttive primarie, secondarie e terziarie non possono funzionare. Nel
suo significato più ampio esso include tutti i servizi pubblici, dall’ordine pubblico
all’istruzione, alla sanità, ai trasporti, alle comunicazioni, ai rifornimenti di energia e acqua e
anche l’infrastruttura agricola, cioè i sistemi di irrigazione e di drenaggio»
2
. Hirschman divide
in maniera esplicita il CFS in una definizione allargata, che è essenzialmente quella riportata
in precedenza, e una definizione ristretta che include solo trasporti ed energia: questa divisio-
ne della definizione si può rivelare utile per capire i punti di contatto e di divisione tra capitale
sociale e capitale fisso sociale.
Affidandoci ancora a Hirschman troviamo degli elementi che caratterizzano il CFS, tra
i quali rientrano la possibilità di influenzare e/o facilitare una varietà di attività economiche, il
controllo, diretto o indiretto, di enti pubblici sull’erogazione di questi servizi, e l’impossibilità
2
Albert O. Hirschman, opera citata, pag. 97
12
per ogni Paese di importare questi servizi dall’estero. Queste caratteristiche sono valide sia
per le infrastrutture di trasporto e approvvigionamento (cioè per il CFS in senso stretto) che
per altri servizi come la sanità e l’istruzione (cioè per il CFS in senso allargato). Per rendere
più definitiva la divisione tra significato ampio e ristretto di CFS Hirschman aggiunge una
quarta caratteristica e cioè l’indivisibilità tecnica e l’alto rapporto capitale – prodotto
dell’investimento operato per poter fornire questi servizi; secondo Hirschman autostrade, fer-
rovie, elettrodotti, porti e acquedotti sarebbero in possesso di tutti e quattro i requisiti, a diffe-
renza di sanità ed istruzione.
In realtà l’ultimo punto presenta qualche incertezza poiché lo stesso Hirschman non è
sicuro che sia sempre possibile misurare il rapporto capitale prodotto, quindi questa insicurez-
za annulla già di per sé la differenza tra le due categorie di CFS. Per quello che riguarda
l’indivisibilità tecnica non sembra convincente l’ipotesi che sia presente nelle infrastrutture di
trasporto ma non nelle altre infrastrutture “sociali”. Se vogliamo trovare una differenza tra le
due classi del capitale fisso sociale potremmo evidenziare il fatto che in alcuni servizi forniti
dalle infrastrutture, come ad esempio l’istruzione, il “prodotto” dipende in maniera preponde-
rante da caratteristiche proprie del soggetto che ne usufruisce e dei soggetti che lo erogano.
Avendo in qualche nodo delimitato il concetto di CFS, occupiamoci ora del capitale
sociale. Esistono varie definizioni, dalle più ampie che comprendono in esso tutto ciò che è la
società, dalle strade alla politica, ad altre presentate in tono più minimalista ma altrettanto
complesse che vedono il capitale sociale come l’insieme delle persone con tutto ciò che com-
portano.
Tra le varie definizioni ce n’è una che sembra però spiegare in maniera più originale
ed esauriente il concetto di capitale sociale. Questa definizione è stata data da Coleman nel
1990
3
secondo cui egli ritiene che ogni individuo abbia a sua disposizione tre tipologie di ca-
pitali: fisico, umano e sociale. Nel capitale fisico rientrano i beni strumentali e tangibili, nel
3
J. S. Coleman, “Foundations of Social Theory”, Cambridge University Press, Cambridge, Mass., 1990
13
capitale umano le capacità e le abilità personali. Il capitale sociale «è invece costituito da re-
lazioni sociali che hanno una certa persistenza nel tempo e che gli individui possiedono ascrit-
tivamente (ad esempio: relazioni parentali o di ceto), in parte costruiscono attivamente nel
corso della loro vita»
4
.
Prendendo quindi questa definizione viene evidenziato che il capitale sociale è qualco-
sa di intangibile, è una rete di conoscenze e contatti che esula, in parte, dai beni strumentali
posseduti e dalle capacità del singolo individuo ma è insita nella struttura delle relazioni su
cui si basa il concetto stesso di società.
Se prendiamo per buona questa tripartizione del “capitale”
5
, potremmo inserire il CFS
di Hirschman nella categoria del capitale fisso, ma sembra più giusto mantenere il paralleli-
smo tra capitale sociale e CFS. Infatti se riprendiamo la definizione di CFS data da Hirschman
vediamo che uno dei suoi caratteri fondanti è la possibilità che ha di influenzare e/o facilitare
una grande varietà di attività economiche; ma se non si hanno le relazioni sociali per iniziare e
sviluppare una attività economica questi strumenti sono inutili poiché hanno proprio il compi-
to di facilitare lo sviluppo delle attività economiche una volta che siano state pensate. D’altra
parte senza le infrastrutture di collegamento e di utilizzo sociale (come l’istruzione) non è
possibile sviluppare una rete di conoscenze tali da permettere uno sviluppo di largo respiro,
economico ma non solo.
In sintesi il capitale fisso sociale (che considereremo, al di là di ciò che fa Hirshman,
un campo unico) è il valido e necessario complemento del capitale sociale definito da Cole-
man come rete di relazioni sociali resistenti nel tempo, poiché il primo sarebbe inutile senza il
secondo ma il secondo sarebbe impossibile senza il primo.
4
Antonio Mutti, “Capitale sociale e sviluppo: la fiducia come risorsa”, il Mulino, Bologna, 1998
5
Si noti che resta però esclusa uba quarta ed importante categoria di capitale, quella del “capitale finanziario”