V
Introduzione
POLITICS, n. A strife of interests
masquerading
as a contest of principles
(Ambrose Bierce - Devil's Dictionary)
L’attuale generazione di giovani europei è la prima ad aver vissuto il passaggio dall'Europa del
muro all'Europa (quasi) priva di frontiere. Nell'Unione Europea i giovani possono muoversi
liberamente, e studiare o lavorare all'estero con una facilità impensabile in passato. Favorendo la
mobilità interna, le istituzioni europee hanno creato una generazione per la quale non è strano
iniziare gli studi a Ljubljana, specializzarsi a Barcellona, fare un anno di volontariato a Budapest,
poi trovare lavoro a Londra. Nel libro Imagined Communities l'autore Benedict Anderson (1983) si
chiede come mai, nonostante l'omogeneità linguistica, in America Latina si siano formati differenti
stati nazionali invece di un unico grande stato latinoamericano. La sua risposta parte dall'assunto
che i funzionari statali creoli (ovvero l'élite mobile dei singoli vicereami), non potessero fare
carriera al di fuori delle unità amministrative nelle quali lavoravano. Un funzionario di Lima non
avrebbe mai potuto sperare di fare carriera a Madrid, ma neppure a Città del Messico, al contrario
del suo collega madrileño, che aveva la possibilità di prestare servizio a Cartagena o Buenos Aires e
poi tornare nella capitale. La madrepatria spagnola fu sempre ben attenta a evitare la formazione di
un’élite di funzionari abituata a muoversi solo nella colonia americana.
Nell'Europa odierna, invece, esiste una consistente élite di giovani istruiti che si muove da
Barcellona a Praga, da Berlino ad Atene, senza alcun riguardo per i confini nazionali. Questa
mobilità è probabilmente il seme della “dimensione europea”, dell'europeità che vive
quotidianamente la generazione di chi sta scrivendo questa tesi.
Per molti Unione Europea significa soprattutto mercato unico, ma istituzioni come la Commissione
Europea e il Consiglio d'Europa (che pur non facendo parte dell'UE ne costituisce comunque un
propulsore politico) sono da tempo coscienti che per il passaggio da “unione economica” a
“comunità politica” è necessario sviluppare, tra i cittadini dei singoli stati, un senso di appartenenza
all'Europa. Da una parte un coinvolgimento emotivo, ideale, che consolidi l'Europa come “comunità
immaginata”, concetto che Anderson (1983) applicava ai singoli stati nazionali, ma che è possibile
riprendere in riferimento all'Europa in divenire. Dall'altra una partecipazione attiva dei cittadini alla
vita politica dell'Unione, dal livello locale fino a quello sovranazionale. Il concetto di “cittadinanza
attiva” ha assunto negli ultimi dieci anni sempre più importanza nell'agenda politica europea, o
quantomeno nella sua propaganda.
VI
I destinatari di queste politiche sono e debbono essere i giovani, attraverso i quali l'Europa
scommette su se stessa e sul proprio futuro.
Il primo programma comunitario in favore della gioventù fu lanciato già nel 1989: si chiamava
“Gioventù per l'Europa”. Tuttavia, fu solo con il Trattato di Maastricht del 1993 che la gioventù
entrò ufficialmente a far parte dei settori di competenza dell'Unione. Il programma “Gioventù per
l'Europa” fu successivamente ampliato e rinnovato, diventando nel 2000 “Gioventù” e nel 2007
“Gioventù in azione”. Snodo fondamentale per queste evoluzioni fu probabilmente nel 2001
l'emanazione del “Libro Bianco – Un nuovo impulso per la Gioventù europea” integrato nel 2003 e
seguito dai risultati del “follow-up” presentati a Creta nel 2004. Questo documento fu il primo
tentativo volto a far sì che le politiche giovanili degli stati dell'Unione avessero obiettivi condivisi e
rispondessero a standard di approccio comuni. Le tematiche e le raccomandazioni introdotte dal
Libro Bianco sono diventate un punto di riferimento per le politiche comunitarie volte a favorire la
partecipazione giovanile. Concetti come la “cittadinanza attiva” dei giovani furono quindi introdotti
nel programma attualmente in vigore, il già citato programma “Gioventù in azione”, che ha tra i
suoi obiettivi principali quello “di infondere nei giovani europei un senso di cittadinanza attiva, di
solidarietà e di tolleranza, coinvolgendoli nella costruzione del futuro dell’Unione" (Guida al
Programma Gioventù in Azione 2011, p. 4).
Sulla scorta dei programmi che l'hanno preceduto, il programma Gioventù in Azione è innovativo
dal punto di vista metodologico, poiché mira a sviluppare attività da svolgersi in un contesto
extrascolastico e basate sul metodo dell'educazione non formale (o non-formal education).
Le sue due prime priorità permanenti sono la “cittadinanza europea” e “la partecipazione dei
giovani” (Guida al Programma Gioventù in Azione 2011, p. 4).
Attraverso l'espressione “dimensione europea”, il programma stimola un coinvolgimento emotivo
dei giovani nella “comunità immaginata” dell'Unione. Ogni progetto Gioventù in Azione, infatti,
dovrebbe avere una dimensione europea, ovvero offrire ai giovani partecipanti l'opportunità di
identificarsi con giovani provenienti da paesi diversi, sulla base di valori comuni e nonostante le
proprie differenze culturali, puntando a dar loro consapevolezza del ruolo determinante che hanno
nella costruzione dell'Europa presente e futura. Allo stesso tempo, Gioventù in Azione mira a
stimolare la partecipazione politica dei giovani, attraverso il sostegno a progetti mirati a supportare
il coinvolgimento dei giovani nella vita democratica locale o nazionale, a favorire la collaborazione
tra associazioni giovanili, a rinforzare e condividere le competenze degli operatori del settore.
Un'innovazione importante del programma è la sua gestione in maniera decentrata attraverso
organismi creati appositamente dai singoli stati europei, le cosiddette “Agenzie nazionali”, che
operano a stretto contatto con il Direttorato generale per l'istruzione e la cultura della Commissione
VII
europea.
Il percorso di sviluppo dei programmi come Gioventù in Azione e quelli racchiusi in Lifelong
Learning (Comenius, Erasmus e Leonardo in particolare), è stato parallelo alla più ampia storia
recente dell'Europa, passata attraverso la fine della Guerra Fredda, il Trattato di Maastricht e le
sfide dell'apertura a Est e della globalizzazione.
A più di vent'anni dal lancio dei primi programmi dedicati a istruzione, formazione professionale e
gioventù, possiamo affermare che, nonostante concetti come “politiche giovanili” (youth policy) e
“gioventù” vengano ancora definiti e approcciati in maniera differente nei diversi Stati membri
europei, da circa vent'anni vi è stato un encomiabile sforzo verso la definizione di un'agenda
comune.
Il presente lavoro si propone di contribuire al dibattito sulle politiche giovanili a livello europeo.
Nello specifico, il primo capitolo sarà dedicato alla controversa definizione di concetti base come
“gioventù” e “politiche giovanili” nei differenti paesi europei. Il secondo capitolo, invece,
analizzerà l'emergere di una politica giovanile comune a livello europeo, cercando di definirne
ambiti e contesto istituzionale. Nel terzo capitolo verrà preso in esame il programma “Gioventù in
azione”, creato con il fine di “attivare” i giovani europei e valorizzarne le competenze non formali.
Il quarto capitolo, infine, ha lo scopo di analizzare il corrente dibattito sul futuro dei programmi
europei dedicati a istruzione, formazione professionale e gioventù. L'analisi si avvarrà sia degli
studi sull'impatto del programma, sia della mia esperienza professionale presso la Fundació
Catalunya Voluntària di Barcellona e presso l'associazione Scambieuropei di Montegranaro
(Fermo), per le quali ho lavorato negli ultimi due anni.
VIII
PREMESSA TEORICA
Il più importante studio sulla gioventù europea, Study on the state of youth people and youth policy
in Europe, elaborato dall’istituto IARD di Milano più di dieci anni fa, identificava tre grandi
categorie di analisi sulla condizione giovanile:
• i giovani come sottoclasse
• l’individualizzazione del corso della vita e la limitata visibilità sociale dei giovani
• un nuovo stadio della vita: la Post-adolescenza
Secondo la terza categoria nell’Europa contemporanea la durata della transizione all’età adulta è
maggiore rispetto al passato, ed è causata sostanzialmente - come vedremo più avanti – da una
scolarizzazione più ampia e più estesa nel tempo, da una crisi dei sistemi di welfare e dall’aumento
della disoccupazione e del precariato. Questa transizione “lenta” ha generato un nuovo stadio della
vita: la post-adolescenza.
L’allungamento della scolarizzazione, ovvero l’aumento di laureati, ha innalzato le aspettative
lavorative dei giovani. I giovani studiano sempre di più, ma il titolo ottenuto spesso non basta a
trovare un'occupazione all'altezza delle competenze maturate. Questo porta a lunghi periodi di
attesa, caratterizzati da una semi dipendenza dalla famiglia d’origine, che si traduce in una pluralità
di lavori (precari), in alloggi temporanei, in relazioni di coppia instabili e così via. Tale "transizione
lunga" ha dunque finali plurimi e certamente meno definiti di quanto accadesse in passato.
I sociologi che sostengono questa teoria, come Alessandro Cavalli e Olivier Galland (1996) basano
le loro teorie anche su quel senso di incertezza tipico della post-modernità di cui parla Zygmunt
Bauman (1996), in cui
tutto sembra congiurare contro i vincoli permanenti, i progetti che durano una vita intera,
obbligando gli attori sociali a scelte e revisioni continue in una successione di situazioni
sempre diverse. (Crespi, 2005, p. 10)
Riassumendo, condizioni strutturali come l’allungamento della scolarizzazione e la precarizzazione
del lavoro (soprattutto per i nuovi entrati nel mercato del lavoro, ovvero i giovani), assieme a un
cambiamento di valori e alla liquidità
1
(un altro concetto di Bauman) della società contemporanea,
hanno dato vita a una nuova fase della vita durante la quale i giovani sperimentano esperienze
1
In Modernità Liquida (Laterza, 2004) Bauman usa il concetto di liquidità per descrivere la società contemporanea:
il passaggio dalla “vecchia” modernità solida all’attuale modernità liquida, fluida, indica come tutte le certezze su
cui negli ultimi due secoli si è costruita la modernizzazione stanno venendo meno, sostituite da una fase di sfrenata
deregolamentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali
IX
tipiche della vita adulta, senza però essere pienamente indipendenti da un punto di vista economico
dai propri genitori: la post-adolescenza, per l’appunto.
Le critiche all’uso di un approccio di analisi basato sulla teoria della post-adolescenza, nello studio
delle politiche giovanili europee, sono sostanzialmente due: i limiti della post-adolescenza e le
differenze tra i paesi europei. Nel primo caso, per quanto riguarda l’età, la post-adolescenza include
teoricamente i giovani di età compresa fra i 20 e i 29 anni, ma in termini sociali comprende tutti
quegli individui che non sono più completamente dipendenti dalle famiglie di origine ma non hanno
ancora dato inizio ad una propria famiglia. Questa imprecisione potrebbe inficiare qualsivoglia
ricerca sociale. La seconda critica riguarda le differenze tra i paesi europei: la post-adolescenza
varia a seconda del paese: l’età media nella quale i giovani vanno a coabitare col proprio partner o
si sposano è più bassa nei paesi nordici come la Svezia (ma anche nel Regno Unito) rispetto ai paesi
mediterranei come la Spagna o a quelli dell’est Europa come la Romania. Per esempio è necessario
tenere conto del fatto che il sostentamento economico dei giovani è affidato principalmente alle
famiglie nei paesi mediterranei, mentre nei paesi nell’Europa continentale e del nord compete
maggiormente allo Stato e al Mercato.
Nonostante la post-adolescenza presenti delle difficoltà di definizione, l'approccio fin qui illustrato
mi è sembrato il più valido per analizzare lo stato attuale delle politiche giovanili europee, in
particolare del programma Gioventù in Azione, il cui raggio d’azione infatti comprende, nella
maggior parte dei casi, i giovani dai 18 ai 30 anni.
1
1. Le politiche giovanili: i giovani come categoria ampia
di intervento
1.1 Essere giovani: ieri
Noi siamo i giovani, l’esercito del SER.T!
(Gruppo su Facebook)
Malgrado tutti gli studi e le conferenze sui giovani fatte in Europa negli ultimi anni, l'affermazione
del sociologo francese Pierre Bourdieu, in una famosa intervista degli anni settanta, è sempre
valida: la jeunesse n'est qu'un mot. La gioventù non è che una parola.
Una parola di origini antiche: già i romani e prima di loro i greci avevano un termine che indicava
una precisa fascia d'età. Ma lo “iuventa” romano aveva tra i trenta e i quarantacinque anni, mentre il
“νεανίας” (neāníās) greco ne aveva tra i diciassette e i trenta. Come a dire: la fascia d'età
considerata “giovane” è cambiata nel corso dei secoli.
Secondo Patrizia Dogliani (2003) la definizione di “gioventù” rimase fluida fino alla fine del
diciannovesimo secolo, quando sorsero le prime organizzazioni giovanili nazionali e internazionali
rivolte esclusivamente ai giovani. Contemporaneamente, in Europa e negli Stati Uniti vennero
sviluppate teorie psicologiche riguardanti lo sviluppo della personalità (la più famosa è
probabilmente quella di Freud) e teorie filosofiche sull'educazione dei giovani. Queste teorie furono
le basi per le prime grandi inchieste sociali sulla gioventù, che stabilirono i primi criteri per
identificare la gioventù all’interno delle masse popolari. Criteri di cui lo Stato centralizzato di fine
Ottocento aveva bisogno per i suoi interventi legislativi. La gioventù venne inquadrata grossomodo
nella fascia d’età 14-25 anni, e lo Stato fissò di conseguenza l’età per acquisire la responsabilità
civile e giuridica, per la scolarizzazione minima, per l’entrata nel mondo del lavoro e per compiere
il servizio militare.
La strage di giovani causata dalla prima guerra mondiale portò a una reazione “tutelare” da parte dei
governi europei. Come spiega Dogliani (2003) all'esaltazione della generazione che nel 1914
partiva volontaria per la guerra fece seguito un controllo attento, negli Venti e Trenta, a tutto ciò
che autonomamente proveniva dai giovani. L'antropologia criminale, fondata da Cesare Lombroso
alla fine dell'Ottocento e molto in voga a cavallo tra le due guerre mondiali, vedeva nel giovane
tratti naturalmente ribelli e potenzialmente criminali, che lo Stato doveva farsi carico di reprimere e
correggere con la creazione di apposite strutture controllate.