5
L'Italia e le sue molte (è difficile trattenersi dal definirle troppe) leggi, le quali
non hanno forse il giusto seguito di esecutività, oppure, nel caso specifico
italiano, viene lasciata quella zona d'ombra tra il pensare ed il rendere
operativo.
In questo contesto si calano le politiche del lavoro: il welfare state da ripensare,
l'Europa che pone i suoi vincoli. E' storia recente, quella delle ultimi elezioni per
il rinnovo del Parlamento Europeo (Giugno 1999): l'affermazione dei Popolari a
danno dei Socialisti. Come per magia, ecco che nell'agenda della politica
europea l'Occupazione torna ad essere prepotente, non solo come punto di un
elenco, stancamente ripetuto, seppur vestito a festa, ad ogni scadenza
elettorale.
La creazione di lavoro come necessità, non solo economica, ma anche umana.
Quale welfare senza lavoro, quale futuro? Le eredità ideologiche, forse, hanno
pesato molto di più di quanto non si creda: sia il marxismo sia il liberismo (con
tutti i loro derivati e sottoprodotti), hanno sempre ragionato in termini di
sovrastruttura, un sistema che, vivendo di vita propria, aveva uno scarso spazio
di modificazione, il quale andava, a seconda delle visioni, o abbattuto od
accettato.
Ripensare il welfare, mi si permetta, non può voler solo dire evitare il collasso
finanziario. Vuol dire anche trovare soluzioni, porsi il problema della soluzione.
Riconoscere il problema, anzitutto: il lavoro come identificazione sociale degli
individui stessi, come ruota di un meccanismo al centro dello Stato Sociale
stesso. L'economista Amartya Sen, premio Nobel per l'Economia nel 1998,
chiarisce bene questo concetto: "L'America non potrebbe vivere con una
disoccupazione al 12%, si disintegrerebbe. Voi (L'Europa, N.d.A.) avete migliori
reti di sicurezza, ma non basta. Non è solo una questione di reddito: gente
senza lavoro significa gente che perde il rispetto di se stessa. L'America su
questo è più reattiva, flessibile"
2
.
La centralità del lavoro: la disoccupazione rischia (dove ciò non è ancora
successo) di perforare le maglie di protezione dello Stato Sociale. La stessa
2
"Amartya Sen: ricette della coscienza", Massimo Gaggi, Corriere della Sera, 28 ottobre 1998.
6
definizione welfare state assomiglia ad una etichetta, la quale rimane
immutabile nonostante "il prodotto" sia in continua evoluzione.
Il modello cui assistiamo oggi ha caratteristiche che superano il ruolo dello stato
nella contrattazione, che guidava la domanda globale per evitare le oscillazioni
violente e cicliche dei mercati competitivi.
Ciò che si può dire oggi è la definizione di un qualcosa che viene dopo,
anteponendo un post a ciò che è stato. Parliamo allora di un sistema
internazionale post-bipolare, di un pensiero post-modernista, e di un modello
economico post-fordista.
In campo economico, le nuove esigenze di flessibilità della produzione e la
disoccupazione hanno aumentato la tensione sul fronte delle politiche del
lavoro, le quali dovrebbero flessibilizzarsi per non correre il rischio di spezzarsi.
Le stesse politiche del lavoro possono essere definite (Reyneri, 1990, pag. 237)
come comprendenti cinque gruppi di programmi e decisioni:
1. Le disposizioni regolanti la natura dei rapporti di lavoro e le obbligazioni che
ne derivano per entrambi le parti, oltre che la tutela della salute e dei diritti
civili del lavoratore;
2. Gli interventi diretti a regolare l'incontro tra domanda ed offerta sul mercato
del lavoro, intervenendo sull'accesso, la qualità e la quantità sia della
demanda sia dell'offerta;
3. Le misure di garanzia del reddito, tese a garantire i lavoratori contro i rischi
(disoccupazione, invalidità, malattia, vecchiaia);
4. Le azioni volte a creare un quadro istituzionale alla rappresentanza collettiva
dei lavoratori, nella loro relazione con le imprese, controllando anche la
dinamica retributiva;
5. Gli interventi per aumentare l'occupazione, generale e per categorie,
attraverso anche incentivi economici e modifiche di normative che regolano
il mercato del lavoro stesso ("politiche di flessibilità").
In Italia qualcosa scricchiola: il welfare state, a livello mondiale, è sotto
pressione, "lavorato ai fianchi" da molti elementi, quali la globalizzazione dei
mercati e la mano d'opera (ai quali non bisogna dimenticare di unire la forte
spinta alla crescita economica delle economie da poco liberalizzate), a basso
7
prezzo, dei paesi in via di sviluppo. In Italia l'ingresso in Europa ha dato una
spinta decisiva nell'imboccare la strada del risanamento interno.
Una volta "raggiunto il traguardo", però, la problematica si è dipanata in due
direzioni, interdipendenti e distinte:
1. Le politiche di risanamento devono essere strutturali, non provvedimenti
destinati ad esaurirsi medio-breve termine.
2. La centralità dell'ingresso in Europa ha occupato i pensieri e le parole di
molti in seno alla politica italiana. Esaurita la festa per il "debutto in società"
(gli altri paesi europei hanno definito gli italiani "euroentusiasti"), nell'Agenda
non vi può essere più la spendibilità dell'argomento Europa in funzione dei
possibili sacrifici da sostenere. Il risanamento dovrebbe aver rafforzato la
struttura sulla quale cominciare ad edificare.
I modelli che sinora hanno funzionato (bene o male) sembrano ora
completamente inadeguati: ricette nuove possono essere tentate, senza però
dimenticare che non basta "mascherare" i vecchi rimedi per illuderci che siano
nuovi. Soprattutto, sorge un problema "ingegneristico": il welfare state era stato
progettato per un determinato tipo di società, la cui posizione demografica, la
cui distribuzione per settori lavorativi, non è uguale a quella attuale. In Italia il
modello Neocorporativista non ha più la rappresentanza degli anni addietro: il
rischio forte di una possibile sovrarappresentazione di alcune categorie di
lavoratori, a scapito di altre, sbilancia il sistema, rendendo ulteriormente
zoppicante un sistema che perfetto non lo era già. La partita di giro di un
mantenimento alto dei salari, con conseguente riduzione degli investimenti e
della base imponibile, ha intrappolato il sistema portandolo ad una spinta
eccessiva sotto il profilo del prelievo fiscale. Ciò ha eroso molte delle
potenzialità dinamiche di un sistema, a sua volta colpito anche dal burocratismo
e dalla giuridificazione dei rapporti sociali, tesi alla centralizzazione ed alla
eccessiva espansione di un impero politico a supporto degli interessi in gioco.
Queste sono le premesse che ci portano a dire come vi sia stato un passaggio
(che deve essere riconosciuto anche a livello istituzionale) da un welfare state
di stile keynesiano ad un Workfare state, nel quale la politica sociale dovrebbe
essere subordinata alle esigenze del mercato del lavoro.
8
CAPITOLO UNO
L'IMPORTANZA DEL LAVORO: IL PENSIERO
DELL'ECONOMISTA SEN
1. IL LAVORO COME CARDINE DELLA POLITICA
Il lavoro è importante sotto molti aspetti: non è certo una novità quanta difficoltà
vi sia nel perseguire la propria auto affermazione nella società, spesso ricercata
dalle persone anche attraverso l'attività lavorativa.
I nostri tempi ci consegnano, però, prospettive ancor più tetre: non solo vi è una
labilità endogena in quelle che sono le postazioni raggiunte (non è possibile
"dormire sugli allori" per nessuno, le proprie conquiste vanno anche difese), ma,
a taluni, non è neppure data l'opportunità di cominciare ad esprimere le proprie
potenzialità. Non c'è bisogno di giocare con le parole o citare proverbi:
possiamo affermare che la mancanza di lavoro è un grave problema.
Considerazioni scontate? Non è detto: accettando il postulato, ad esempio, che
un lavoro in condizioni non ottimali (o non rispondenti ai parametri fissati) sia
meglio del non avere lavoro, ecco che vengono innescano dibattiti (troppo
spesso senza volontà di vero confronto) da coloro che ritengono che la
flessibilità porti alla pauperizzazione, e coloro che invece pensano che il
mercato vada sempre assecondato, anche se i suoi riflessi sulla popolazione
sono pesanti.
Muoversi tra queste prospettive è molto difficile, ma è oltremodo interessante:
l'impresa di mantenere un punto di vista il più possibile scevro da
condizionamenti di sorta non è certo facile, ma, nello sforzo, pur con risultati
non perfetti, a questo obiettivo è già possibile individuare alcuni interessanti
elementi. Anzitutto, nessuno dei punti di vista vigenti si preoccupa veramente di
mettere il lavoro al centro di quella che è la direzione della politica. Il problema
dell'occupazione è una voce di registro sempre barrata, mai dimenticata nei
9
discorsi, mai tralasciata nelle dichiarazioni ufficiali: quanto sia veramente messa
al centro non è dato di capirlo chiaramente.
La direzione intrapresa dalla Comunità Europea è quella di costruire e
mantenere un quadro di stabilità, all'interno del quale sia più facile la
programmazione economica, rivolto verso l'esterno con tutta la forza delle
nazioni che la compongono (Onofri 1998). Il rischio, però, è quello di
concentrare l'attenzione troppo sulla cornice, dimenticando o relegando a ruolo
quasi marginale quello che è il contenuto.
Le politiche del lavoro soffrono già questo schiacciamento all'interno di quella
che è la ricerca della stabilità finanziaria: oltre a questo, vi sono le particolari
visioni di queste a non dare univocità alla direzione da intraprendere.
Scegliere per questo lavoro il pensiero dell'economista Sen, significa introdurre
elementi spesso marginali al dibattito politico ed economico. Il suo pensiero non
è fortemente sbilanciato nell’approccio, come succede di solito nell’affrontare
questi problemi, collocati per loro stessa natura al confine tra economia e
società. Anzitutto, egli è un economista, ed introduce l'etica nell'economia non
come magico ingrediente umanistico in una scienza "fredda", bensì
recuperandola dell'economia stessa. Usa strumenti economici per muoversi
nella direzione di dimostrare quanto sia importante il lavoro per le persone, e
per la società stessa. Tutto questo senza scivolare nel continuo ricorso a
categorie analitiche troppo lontane dal funzionamento economico della società:
anzi, utilizza gli stessi strumenti di chi giunge a conclusioni opposte,
dimostrando quanto contino i punti di vista dai quali si parte e quanto possa
essere intellettualmente "comodo" far passare per immutabili cose che non lo
sono, arrendendosi ad un determinismo che non esiste.
La disoccupazione è un nodo sociale stringente quando si guarda ai problemi di
chi il lavoro non ce l'ha (Carboni 1998). L'equilibrio che dimostra Sen (forse
frutto dell'alchemica unione delle sue radici, essendo egli anglo-indiano)
nell'affrontare il problema del lavoro dovrebbe essere una direttrice da
intraprendere. Egli denuncia le gravi ripercussioni sociali alle quali va incontro il
disoccupato, caratteristica questa propria forse di un approccio sociologico. Allo
stesso tempo, egli rimarca i significati economici di determinati approcci,
10
addirittura creando categorie analitiche proprie, ad esempio, dei paesi
sottosviluppati. Riesce ad unire, insomma, queste due visioni che, all'apparenza
e per quello che è dato di leggere ai giorni nostri, sembrano soffrire di reciproca
incompatibilità. Tutto questo rimarcando quanto il lavoro necessita d'essere
"riportato al centro" della politica, vero motore di una società che, avendo come
caratteristica la propria autoconservazione, non può prescindere dalla stabilità
economica e sociale, necessariamente mancante con una forte
disoccupazione.
2. RIPENSARE L'ECONOMIA
No è facile cercare di introdurre qualcosa di nuovo in una materia che sembra
accettata ed addirittura interiorizzata come l'economia. E' questo ciò che
significa ripensare l'economia: non un progetto dai toni d'irrinunciabile utopismo,
bensì il recupero di qualcosa che sembra essersi smarrito, inglobato da un
pensiero omogeneizzante. Amartya Sen, al quale bisogna riconoscere
un'acutezza intellettuale dalle sfumature penetranti, premio Nobel per
l'economia del 1998, recupera elementi fondanti dell'economia stessa, talvolta
dimenticati, più spesso marginalizzati, in una scienza che si regge su molteplici
postulati.
I tempi nei quali viviamo ci consegnano e rafforzano l'economia come fosse
staccata dal contesto nella quale è prodotta: non ci si ricorda come la teoria sia
figlia di un determinato punto di vista. Questo è l'elemento fondante della teoria
stessa (tratto tipico ed essenziale di qualsiasi scienza sociale), ma spesso non
viene riconosciuto come tale, dimenticando soprattutto il fatto che questo è
"collocato" (come ogni punto di vista), producendo in tal senso una visione del
mondo unidirezionale, incapace di riconoscere il punto dal quale parte. La
sconfitta, per implosione ed oggettiva inadeguatezza, del modello alternativo a
quello di sviluppo capitalistico, ha consegnato agli strumenti tipici dell'economia
occidentale la possibilità di un monopolio mondiale di validità e riconoscibilità.
Sen lavora e dimostra quanto non sia possibile applicare universalmente questi
strumenti, quanto il postulato "REDDITO = BENESSERE" sia in realtà una
11
visione distorcente, troppo legata alla possibilità (quasi esclusivamente
Occidentale, non dimentichiamolo) di poter tradurre l'interno di una società in
termini monetari.
Per capire la portata "rivoluzionaria" del pensiero di Sen, ci si può accostare a
paragoni importanti, ma non per questo infondati. La doppia cattedra di
economia e filosofia morale tenuta a Harvard crea una spontanea associazione
con la figura di Adam Smith, e, in effetti, si può affermare che Sen condivida
con Smith la capacità di immaginare percorsi totalmente nuovi per un
ragionamento economico che si fa astratto quanto basta per indagare la realtà
in maggiore profondità e non esita a confrontarsi con tutti quegli aspetti della
complessità dei comportamenti sociali che, tradizionalmente esclusi dal novero
delle competenze degli economisti, si rivelano tuttavia indispensabili alla
comprensione dei fenomeni.
Si entra in contatto con la centralità di un pensiero che recupera l'etica (Sen
1988), che pone l'uguaglianza come principio dal quale non è possibile
prescindere, dalla quale non ci si deve allontanare non per un vago sentimento
di giustizia, bensì perché l'economia stessa affonda le proprie radici nella
ricerca di un'allocazione "soddisfacente". Sen muove i suoi studi nella
"…profonda convinzione che l'analisi economica possa offrire un contributo
all'etica che sta a fondamento del mondo in cui viviamo." (Sen 1997a, pag. 5).
Le considerazioni di natura etica possono suggerire la massimizzazione di
qualche altro obiettivo diverso dal benessere della persona, conducendo a
percorsi dove il benessere personale si possa basare su un fondamento più
ampio del consumo personale.
Corre una differenza sostanziale tra chi non mangia perché vuole digiunare e
chi non è in grado di potersi sfamare: per l'economia tra questi due soggetti non
vi è alcuna differenza, in quanto entrambi non consumano. Non è solo il
discorso sulle "bugie" della statistica
3
: in Sen queste "distorsioni", date dalla
natura dei numeri in una loro lettura acritica, sono legate al richiamo etico che
3
"Quante bugie nei numeri", Luca Einaudi, "Il Mondo", 27 marzo 1998; nell'articolo, tra l'altro, viene
citata una lancinante riflessione di Winston Churchill, il quale sosteneva che esistevano tre tipi di
menzogne: le menzogne semplici, le maledette menzogne e le statistiche.
12
dovrebbe sorgere spontaneo davanti alle iniquità. In questo punto si incrocia
pienamente un pensiero forte ma non retorico, penetrante ma non ingombrate.
Non vi è bisogno di calarsi in panni moralmente (per qualcuno) troppo elevati: la
differenza non è solo di carattere etico, bensì più stringentemente economica.
Rilevare che in questo v'è qualcosa di sbagliato conduce a visioni e policy
(…nel migliore dei casi) che possono anche, nonostante le "buone intenzioni",
non riuscire a raggiungere gli scopi che si erano prefissati. L'utilizzo di
strumenti, ritenuti universali, nell'ambito di economie non sviluppate porta a
risultati perversi: misurare il risanamento economico solo tramite una frazione,
nel caso dei paesi in via di sviluppo, conduce addirittura a frenare il possibile
avanzamento. Tutto questo nonostante l'economia classica stessa insegni
come le economie di scala siano un traguardo, non un'imposizione.
Il lavoro di Sen profuma di fine intellettualismo, un punto di vista cristallino,
caratteristica, questa, attribuibile ai grandi pensatori: egli analizza l'economia
del benessere, scevro ai concetti tipici di chi vuole guidare il pensiero ad una
determinata conclusione, forzando le strade sulle quali si sviluppano le
riflessioni, ricavandone una critica, ben strutturata e stringente, ma non una
demolizione in toto di un apparato, non un'etichetta di sbaglio assoluto (Sen
1992).
Non è facile accostarsi ad un tipo di pensiero simile: la facilità con la quale si
entra in sintonia è pari alle riflessioni che mette in moto il suo approccio, così
lucido nel recupero di elementi etici, propri, non dimentichiamolo, dell'economia
stessa, ma allo stesso tempo con un sapore di novità rispetto ad un
determinismo economico assunto a dogma intoccabile.
All'atto della consegna del nobel nel 1998 ad Amartya Sen, analizzando la
stampa italiana
4
, si evince il fascino intellettuale che l'economista anglo-indiano
suscita in coloro che, in teoria, sono i più attrezzati per capire sino in fondo il
suo pensiero.
4
Tra i tanti, citiamo i seguenti articoli: "Amartya Sen: ricette della coscienza", Massimo Gaggi, Corriere
della Sera, 28 ottobre 1998; "La lezione etica di un economista", Riccardo Chiaberge, Corriere della
Sera, 16 ottobre 1998; "L'India come severa fucina di idee", Pier Luigi Sacco, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre
1998; "Il Nobel per l'economia 1998", Sebastiano Maffettone, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 1998; "Armartya
Sen: il filosofo dell'eguaglianza", Furio Colombo, La Repubblica, 25 ottobre 1998.
13
Solo Sergio Ricossa
5
è una voce critica in questo coro: la domanda che sorge
spontanea è quella se questo tono celebrativo non sia eccessivo, o forse troppo
empatico da parte di una certa stampa.
Basta leggere ciò che Sen scrive per accorgersi di quanto non vi sia nel suo
pensiero la presenza di ricorsi ad argomenti "facili", come ad esempio si
potrebbe pensare leggendo le sommarie presentazioni all'assegnazione del suo
Nobel, quali, ad esempio, "…teorico del welfare…" od "…economista sociale".
La sue critiche sia all'economia del benessere (Sen 1988), sia a quella dello
sviluppo (Sen 1992), non ritengono soddisfacenti le ricette di queste, ma
nemmeno le tacciano di completa scomunica. La critica all'economia del
benessere parte dall'analisi del suo "teorema fondamentale", il quale collega i
risultati dell'equilibrio di mercato in regime di concorrenza perfetta all'ottimalità
paretiana. Il criterio paretiano dell'ottimalità, però, si dimostra limitato nel
valutare i risultati sociali: vi è un'oggettiva difficoltà si applicazione all'ambito
pubblico, in quanto le informazioni richieste per calcolare la distribuzione iniziale
sono impegnative da ottenere, ed i singoli possono percepire di non avere alcun
incentivo nel rivelarle. Il mercato competitivo in se stesso assicura un'economia
dell'informazione quando vi sono in gioco decisioni di agenti individuali, ma un
meccanismo così può non funzionare per le decisioni pubbliche.
Queste critiche pregnanti dimostrano e rendono evidente quanto sia profonda la
sua conoscenza del pensiero economico in tutto il suo tortuoso svilupparsi,
senza tralasciarne nessun aspetto. Stupisce molto la sua competenza, che va
dall'aspetto puramente matematico della materia (addirittura Romano Prodi ha
dichiarato che Sen "…avrebbe potuto ottenere il Nobel anche con un solo
articolo di matematica pura"
6
), all'etica presente in questa scienza, recuperata
ed addirittura resa fondante di molte spiegazioni.
5
"Un Nobel molto sociale", Sergio Ricossa, "Il Giornale", 15 ottobre 1998.
6
"Amartya Sen: ricette della coscienza", Massimo Gaggi, Corriere della Sera, 28 ottobre 1998.
14
3. RICCHEZZA E CAPACITÀ
Pensare in termini assoluti che l'attuale situazione internazionale (il dominio
statunitense dopo la caduta dell'Unione Sovietica) sancisca anche la vittoria di
un modello economico, quello americano, portatore di sviluppo, ma al contempo
sordo ad alcune situazioni di povertà ed emarginazione, significa arrendersi ad
un determinismo economico.
La ricchezza è un valore? Quasi un mezzo sorriso potrebbe far nascere una
domanda del genere: una frase scontata, da dire però in mezzo ai denti,
facendo finta di non accorgersi di una palese realtà contrassegnata da un forte
riconoscimento sociale della ricchezza stessa.
La massimizzazione della ricchezza, però, è differente dall'efficienza paretiana:
nell'analisi economica la massimizzazione avviene quando i beni, ed altre
risorse, sono a disposizione di coloro che li apprezzano di più. Un individuo,
invece, massimizza la ricchezza quando aumenta il valore delle risorse che
possiede.
Un società massimizza la ricchezza quando le risorse sono distribuite in modo
che la somma dei valori individuali sia la più alta possibile. Questo punto di vista
è molto criticabile: una volta che la ricchezza sociale viene separata dall'utilità,
perde ogni plausibilità come componente del reddito (Dworkin, 1990).
Sen difende la democrazia come supremo piedistallo sul quale fondare una
società che tenda all'eguaglianza: per lui la democrazia è un valore in sé, il
mercato solo uno strumento (Sen 1994). Nel ricordare Sen viene spesso citato
l'episodio, da lui riportato in più pubblicazioni, nel quale fa riferimento alla sua
infanzia, quando a nove anni nel villaggio del Bengala dove era nato scoppiò
una carestia. Egli era figlio di una famiglia benestante, ma, nonostante questo,
non poté rimanere insensibile davanti a quelle scene di persone ridotte pelle e
ossa, con in braccio i loro bambini malnutriti, nel tentativo estremo di
sopravvivere chiedendo la carità. Queste persone vagavano in cerca di carità
presso le famiglie più ricche, in quanto la carestia non era "totale", bensì colpiva
solo alcune specifiche categorie professionali. Le autorità dell'India britannica
non riuscirono ad impostare un piano pubblico di assistenza su vasta scala, se
15
non dopo sei mesi dall'inizio della carestia. Studi successivi, di Sen stesso,
dimostrarono come la disponibilità di cibo non fosse particolarmente bassa
durante quel periodo, ma a coloro che morivano mancavano piuttosto i mezzi
per procurarsi il cibo.
Il valore di una società sta anche in questa possibilità reale di accesso alle
risorse: domande di fondo come queste vengono a volte tralasciate in contesto
economico. L'importanza dei network di accesso alle risorse non viene
riconosciuta nella sua priorità, dimenticando quanto sia importante il "collante",
l'elemento che rende possibile che gli ingredienti possano unirsi tra loro, non
rimanendo entità isolate ed inutili.
Alcune volte è addirittura macchinoso e dispendioso, sotto molti profili, riuscire
a far interagire gli elementi prescelti, non per i vizio di questi, ma per difficoltà
legate al "processo di interazione". Dahrendorf afferma che "…la
Socialdemocrazia è bella, ma è anche soffocante" (Dahrendorf 1989, pag. 196).
Vi è l'altra faccia di questa a renderla soffocante, quell'incubo weberiano che è
la burocrazia. Questa si manifesta e si nasconde dietro molteplici maschere,
quali il corporativismo ed il welfare state.
La cappa della burocrazia rende i percorsi farraginosi e rende assai complicati
non solo i trasferimenti di risorse da un soggetto A ad un soggetto B, ma anche
la redistribuzione che trasferisce risorse da A ad A stesso.
La disoccupazione è data dalla scarsità sempre crescente del lavoro e dalla
permanenza del lavoro come chiave per l'accesso al reddito, all'autostima ed
all'organizzazione della vita. La piena occupazione è un obiettivo auspicabile,
ma il mercato del lavoro può raggiungerlo ad un solo prezzo: quello americano
della povertà (Dahrendorf 1989). Altri paesi che non vogliono scendere lungo
questa strada devono trovare altri modi per la redistribuzione del lavoro (le
strade possibili sono tante: la riduzione dell'orario del lavoro, la
flessibilizzazione delle condizioni di lavoro, la diversificazioni delle forme di
contratto, le riduzioni degli straordinari).
Riconoscere il potere dell'istruzione, del bagaglio di conoscenze e
dell'informazione: forse questa è una delle chiavi di volta nel combattere la
disoccupazione, per spezzare il cerchio della povertà. Il welfare state crea delle
16
distorsioni burocratiche, nonostante le "buone intenzioni" di partenza,
producendo, in virtù dell'accesso negato ad alcuni, poveri "meritevoli" ed
"immeritevoli", le cosiddette "trappole della povertà"
7
. Una delle ricette sarebbe
quella di superare questa distinzione rifondando lo stato sociale e basandolo su
diritti di cittadinanza comuni per tutti.
4. CRITICA DEL WELFARISMO
Una delle critiche che muove Sen è rivolta a determinati "modi di intendere" la
realtà sociale come il welfarismo, concetto legato ad una particolare visione
dell'utilitarismo, può essere definito come la "valutazione del benessere in base
all'utilità" (Sen 1988, pag. 52). Questo esige che la bontà di una situazione sia
funzione solo dell'informazione per la valutazione dell'utilità relativamente a
quella situazione.
Le fondamenta stesse del welfarismo pongono da subito delle riflessioni:
l'utilità, infatti, è, nel migliore dei casi, un riflesso del benessere di una persona.
Quest'ultimo, però, non può essere l'unico metro per la valutazione dello status
della persona stessa: la facoltà di agire di una persona può benissimo essere
indirizzata a considerazioni non completamente riguardanti il suo benessere.
Limitazione ulteriore di questo approccio è il fatto di giudicare, in maniera
abbastanza limitativa, il benessere di una persona sulla base dell'appagamento
dei desideri. Questo, però, non tiene conto del fatto che le persone deprivate e
senza speranza non hanno il neppure coraggio di "desiderare molto" (un tunnel
buio nel quale non si riesce a scorgere alcuna luce), offuscate dai loro stenti,
tanto da rischiare di trasmettere le loro aspettative più debolmente, le quali
giungono di riflesso più flebili nell'ipotetica scala sociale dell'appagamento dei
desideri.
7
Alcune persone, in situazione di povertà o disoccupate, accettando un lavoro a basso salario,
perderebbero le prestazioni sociali di sostegno al loro reddito, finendo per trovarsi in condizioni solo
marginalmente migliori di prima. A livello familiare, la nuova occupazione di un componente del nucleo
potrebbe alzare il reddito totale, rischiando però di far perdere il diritto a sussidi e trasferimenti. Alcuni
istituti di welfare state, nella loro eccessiva burocratizzazione, posso "intrappolare" i loro beneficiari
attorno alla soglia di povertà, e addirittura, in un effetto perverso, incentivare la disoccupazione.
17
Costoro non hanno la forza di desiderare il necessario quanto avrebbe
qualcuno di ambire al superfluo. L'identificazione dell'utilità con il benessere può
essere quindi criticata in quanto:
1. Il benessere non è l'unica cosa che può avere valore;
2. L'utilità non rappresenta adeguatamente il benessere (Sen 1988, pag. 60).
Ne nasce che il modo migliore di vedere il reale vantaggio di una persona è
attraverso la sua libertà, i suoi diritti, le opportunità reali che essa ha a
disposizione. Il rifiuto di assegnare importanza a questo da parte del welfarismo
deriva, più in generale, dalla mancanza di interesse che ha l'economia del
benessere per qualsiasi teoria di etica complessa, preferendo concentrarsi, alla
stregua di molti altri approcci, sull'aspetto cosiddetto "ingegneristico"
dell'economia, tralasciando l'aspetto "predittivo".
Respingendo il welfarismo, il "teorema fondamentale dell'economia del
benessere" non riesce più a garantire quella interdipendenza tra il
comportamento effettivo e l'economia del benessere stessa. Scegliendo un
concetto di benessere che differisca dall'utilità, il teorema non è più adatto a
spiegarlo, in quanto difficilmente adattabile. Infatti, l'inadeguatezza del
comportamento mosso dall'interesse personale può diventare grave in quegli
approcci etici che pongono l'accento sui diritti e le libertà. L'accettazione morale
dei diritti può richiedere un sistematico allontanamento dal comportamento
mosso dall'interesse personale.
Se la violazione dei diritti è trattata come cosa negativa ed il rispetto dei diritti,
invece, come cosa positiva, il welfarismo risulta inevitabilmente compromesso,
fondandosi sul postulato che sia solo l'utilità ad avere un valore intrinseco.
5. LIBERTÀ POSITIVA E NEGATIVA
Si è sostenuto che il modo migliore di vedere il vantaggio di una persona è
attraverso, tra le altre cose, la sua libertà. Parlare di libertà, senza le dovute
specificazioni, però, come in tutte le cose che in un certo senso hanno un
valore universale e plurimo, vuol dire anche cadere in possibili tranelli dettati
dall'ambiguità.
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Anzitutto, possiamo distinguere tra libertà positiva, ciò che una persona (tenuto
conto di tutto) può o meno perseguire, e libertà negativa, l'assenza di una serie
di limitazioni che una persona può imporre ad un'altra (o che le istituzioni
possono imporre agli individui). La violazione della libertà negativa implica, di
riflesso, la violazione di quella positiva, ma non è vero il contrario (Sen 1997a).
Questa distinzione conduce a percorsi che aprono prospettive nuove, forgianti
pensieri ed approcci: infatti, la povertà non è in sé una violazione della libertà
negativa, in quanto, è vero che una persona povera non è libera di fare molte
cose, ma la conseguente mancanza di libertà positiva non è dovuta ad
un'ingerenza da parte di altri. Una società, fondata solo su canoni di mero
rispetto della libertà negativa, porta a questi effetti controproducenti:
concentrarsi solo su un aspetto della libertà non è solo incompleto dal punto di
vista etico, ma può risultare incoerente dal punto di vista sociale.
L'impegno sociale nei confronti della libertà individuale deve riguardare
entrambe le libertà e le loro relazioni reciproche. Questo punto di vista va contro
tutto il paradigma teorico che regge il punto di vista utilitarista nell'economia.
Nel fare questo bisogna distinguere tra i due aspetti del benessere e della
facoltà di agire di una persona: il primo riguarda i risultati e le opportunità
riguardo al proprio vantaggio personale, la seconda considera risultati ed
opportunità nei termini anche di altri obiettivi e valori, andando oltre il benessere
personale. L'aspetto del benessere risulta importante nelle valutazioni di
giustizia distributiva, mentre la facoltà di agire tiene conto delle cose che la
persona vorrebbe e delle capacità per realizzare (aspetto quanto mai
trascurato, ma di fondamentale importanza in quanto la percezione ha un
grande spazio di variazione secondo le condizioni iniziali di partenza) e
perseguire questi obiettivi.
Persone diverse, a prescindere dalle loro posizioni, non è detto che valutino allo
stesso modo una medesima situazione. Quando si passa dai risultati e dalla
libertà di una persona a quelli di molte persone, la natura della pluralità risulta
ancora più complessa. E' necessario distinguere tra le esigenze delle politiche
istituzionali da un lato, e quelle delle decisioni personali dall'altro.