2
I. 1 Dal Fordismo al PostFordismo
L’epoca moderna ha conosciuto il suo apogeo con il modello di
organizzazione economico-sociale sviluppatosi negli stabilimenti di Henry
Ford a Detroit, attraverso la razionalizzazione dei principi elaborati
precedentemente alla prima guerra mondiale da F.W. Taylor, riguardanti la
cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro (OSL), volta ad elaborare le
metodologie di lavoro migliori a cui addestrare il lavoratore per ottimizzare
tempi e costi della prestazione. L’impresa in questo caso era considerata
come un’organizzazione superiore alla semplice somma dei fattori (beni e
persone) che ne facevano parte [Bonazzi, 1998].
E’ ben noto quali siano i precetti che caratterizzarono la progressione
del mondo del lavoro nel ‘900 e per i quali è stato coniato il termine
Fordismo
1
, ormai diffusamente riconosciuto ed utilizzato per connotare il
modello organizzativo
2
delineatosi con il passaggio dalla c.d. craft
production alla c.d. mass production. Modello, questo, che ha dato origine
al mercato come lo intendiamo nell’attuale accezione, basato cioè su
economie di scala e di scopo, e che ha caratterizzato l’evoluzione di grandi
organizzazioni d’impresa basate sulla specializzazione funzionale e la
minuta divisione del lavoro, stimolando la produzione di una serie di
politiche pubbliche, istituzioni e meccanismi di governo volti a mitigare i
1
Antonio Gramsci, a cui si deve la prima definizione del Fordismo, lo descrive come il
“passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica” [Gramsci,
1997: 414]
2
Occorre ricordare però come il Fordismo, così si evidenzierà per il post-Fordismo,
rappresenti anche un modo di regolazione sociale.
3
fallimenti del mercato e a migliorare le moderne pratiche industriali
3
.
[Polanyi, 1984]
Ebbene, vissuto il suo periodo aureo questo sistema organizzativo è
entrato una prima volta in crisi a seguito del tracollo del mercato
immobiliare negli anni ’60. Infatti, le imprese diedero impulso ad un’ondata
di ristrutturazioni volte ad aumentare le proprie capacità di reattività e
d’innovazione, caratteristiche necessarie per poter far fronte alle
sopravvenute difficoltà di gestione delle immobilizzazioni economiche a
lungo termine e degli investimenti su larga scala, che presuppongono un
mercato in continua espansione, e per sopperire alle rigidità strutturali del
mercato del lavoro, sia dal punto di vista dell’allocazione della forza lavoro
sia da quello della contrattazione [Hobsbawn, 1995].
Negli ultimi decenni la crisi del sistema organizzativo fordista si è
accentuata e si è dunque avviato un periodo di transizione storica
attualmente ancora in corso, il cui inizio può essere collocato
cronologicamente a ridosso dello shock petrolifero del 1973
4
, che ha
evidenziato un profondo ed irreversibile mutamento della società
occidentale e, in particolare, del mondo del lavoro.
L’economista Pierre Veltz
individua, quali principali fenomeni di
cambiamento dei principi di organizzazione aziendale connotanti questo
3
L’insieme di questi elementi costituisce il cosiddetto modello di welfare fordista-
keynesiano.
4
Con l’aumento del costo del greggio deciso dall’OPEC e il blocco delle esportazioni dei
paesi arabi durante la guerra arabo-israeliana si ha quello che Hobsbawm ne “Il Secolo
Breve” definisce l’inizio della prima recessione postbellica. Periodo che, pur non
registrando il crollo dell’economia mondiale, almeno nei paesi occidentali, segnala il
ritorno di problematiche che, sempre secondo l’Autore, erano state eliminate durante la
cosiddetta età dell’oro (1950/1970): la disoccupazione nelle aree della Comunità Europea
sale dagli anni ’60 agli anni ’70 dal 1,5% al 4,2%; si susseguono periodi di interruzione
della crescita economica (1973/75; 1980/82; fine anni ’80); cresce la disuguaglianza
economica e sociale.
4
periodo di transizione, i seguenti:
Operazione: la suddivisione del lavoro in unità elementari non è più
efficace per le moderne modalità di produzione, siccome queste
necessitano di un grado di elasticità elevato che permetta di svolgere
mansioni sempre più despecializzate e polifunzionali;
Co-operazione e linearità del passaggio tra efficienza locale e globale:
l’efficienza delle singole operazioni appare oggi non necessariamente
collegata all’efficienza del sistema;
Specializzazione temporale ed organizzativa dei modelli di
apprendimento ed organizzazione: l’esigenza di flessibilità e la necessità
di formulare risposte appropriate all’interno del mercato rendono
inevitabilmente più fluido il rapporto tra innovazione ed apprendimento;
Specializzazione per funzione: risulta sempre più complesso definire le
posizioni all’interno di un’impresa e gestire l’impresa stessa attraverso
un’organizzazione strettamente gerarchica, i ruoli risultano, infatti,
decisamente fluidificati, con una gerarchia sempre meno rigida e sempre
più basata sull’interazione del gruppo di lavoro. [Veltz, 1994]
Il modello che più di ogni altro interviene sui precedenti elementi
critici e segna il punto di svolta dal Fordismo al post-Fordismo è il c.d.
toyotismo
5
, elaborato appunto negli stabilimenti Toyota in Giappone, che
individua ed elabora taluni principi profondamente innovativi, veri e propri
cardini connotanti l’organizzazione aziendale post-fordista.
Il post-fordismo si basa, infatti, sul passaggio dalla c.d. mass
production alla c.d. lean production, ovvero produzione snella, in cui
l’impresa deve adeguarsi a rispondere ad esigenze di mercato sempre più
5
Per alcuni autori si tratta però soltanto di una variante del modello fordista [Rullani, 1999]
5
personalizzate e di qualità. Si attua così la seconda trasformazione
dell’organizzazione del lavoro del 1900: la produzione flessibile, che trae
fondamento dallo snellimento delle reti di comunicazione all’interno
dell’azienda, dal lavoro per progetto di gruppi multidipliscinari (teamwork),
dal controllo di qualità di ogni passaggio della produzione (total quality
management), dalla riduzione delle scorte di magazzino in favore di
un’accelerazione della risposta alle richieste del mercato (just in time).
Questo cambiamento riflette la diminuzione dell’importanza delle
economie di scala e di scopo ed è connotato dalla riduzione dei costi delle
comunicazioni, della logistica e dei processi di informazione: fattori che
risultano fondamentali per fronteggiare la competizione crescente
6
.
I nuovi modelli aziendali si sono costituiti, infatti, grazie anche allo
sviluppo della c.d. information technology. In particolare, la telematica -
unitamente all’evoluzione del sistema dei trasporti - può essere considerata
il mezzo che ha cambiato radicalmente il modo di lavorare e di comunicare,
diminuendo i costi del lavoro ed incrementando la velocità di risposta alle
esigenze del mercato
7
, ma anche permettendo all’azienda di spostare la
produzione dove questa risulta maggiormente conveniente attraverso i
processi di esternalizzazione e delocalizzazione. Appare in questo senso
centrale il ruolo del territorio
8
, sul quale sono dispiegati i fattori produttivi,
che viene a rappresentare il luogo dove trovare manodopera e condizioni
ottimali per competere sul mercato. [Bonomi, 1997]
6
Pierre Veltz osserva un mutamento negli stessi processi di competizione, che comporta
una complessiva trasformazione degli obiettivi della produzione: si passa infatti alla
competizione basata sui costi del Fordismo (collegata all’economia di scala e alla
produzione di massa) alla competizione basata sulla differenziazione del post-Fordismo
(collegata ai tempi della produzione).
7
Si parla in questo caso di società basata su un’economia della velocità [Accornero, 1997]
8
Come la fabbrica era l’elemento centrale del Fordismo, il territorio è quello del post-
Fordismo. [Accornero, 1997]
6
L’impresa postmoderna incrementa la dinamicità del contesto
economico locale di riferimento (natalità/mortalità delle imprese) e, al
contempo, richiede una riorganizzazione dell’economia del territorio stesso,
ad esempio attraverso la creazione dei reticoli industriali integrati come
nelle zone industriali del Nord-Est in Italia, del Rhone Alpes in Francia,
della Catalogna in Spagna [Bonomi 1997; Zucchetti, 1996].
In questo contesto anche la grande azienda, che rappresentava il
fulcro del modello fordista, ha iniziato un processo di differenziazione,
articolandosi in strutture maggiormente autonome che permettano elevati
gradi di flessibilità, sotto l’aspetto produttivo, logistico e organizzativo.
Grazie ai mezzi tecnologici ha inoltre l’opportunità di operare in continua
interazione con il mondo esterno, composto non solo da consumatori-clienti
e dalla offerta di forza lavoro, ma anche da tutto l’indotto che costituisce la
c.d. impresa molecolare tipica della società postmoderna. [Bonomi, 1997]
Per poter rispondere alle turbolenze del mercato, però, l’azienda
necessita anche di una crescente flessibilità da parte della forza lavoro, a cui
si devono aggiungere un elevato grado di autogestione e coinvolgimento, sia
da parte dei c.d. knowledge workers, sia da parte dei lavoratori manuali.
Inoltre, emerge ad evidenza come in questo periodo di transizione il mercato
del lavoro richieda competenze sia vecchie che nuove, aumentando la
complessità dell’incontro tra domanda e offerta in situazioni già di per sé di
asimmetria informativa, quali sono la ricerca di lavoro e la selezione di
personale: si pensi a questo proposito al ruolo essenziale espletato dalle reti
informali nei processi di assunzione.
Occorre però aggiungere che con la richiesta di flessibilità da parte
del mercato del lavoro aumentano sia l’autonomia, sia il rischio di
7
discontinuità – volontaria o involontaria - dell’impiego, per cui da un lato il
lavoratore avrà maggiori opportunità di trovare un impiego appagante;
dall’altro lato necessiterà non solo della professionalità richiesta, ma anche
di competenze trasversali (motivazionali, cognitive e socio-relazionali) che
gli permettano di rielaborare i cambiamenti relativi ai contenuti del lavoro e
di costruirsi un’identità sociale attraverso ruoli diversi. L’accentuarsi della
mobilità comporta, infatti, la necessità di un percorso in cui formazione,
esperienza personale e professionale interagiscano per costruire l’identità
lavorativa di persone che cambiano ruolo, mansione e talvolta mestiere più
volte nell’arco della vita lavorativa.
9
In questo contesto di incertezza e contrasto tra le richieste delle
aziende e dei lavoratori è venuto meno il ruolo che il modello fordista aveva
di “mediatore sociale” nel mantenimento del rapporto tra singolo e
organizzazione, senza che nel periodo post-fordista si siano elaborate
risposte efficaci alla problematica della costruzione del rapporto
individuo/struttura.
10
Occorre, infine, aggiungere come il modello post-fordista implichi
un concetto stesso di lavoro diverso dal Fordismo. La società postmoderna,
come quella moderna, si fonda pur sempre sul lavoro - o sui suoi “riti
perpetuati nel tempo”, come sostiene Viviane Forrester [Forrester, 1999:17]
- ma il lavoro va perdendo la sua connotazione di termine astratto non
numerabile, per declinarsi al plurale. Il lavoro di cui si discute oggi è un
termine concreto che definisce forme nuove di lavoro, non del tutto
9
Accornero parla di traccia di cittadinanza: un’anagrafe generale del lavoro che
comprenda questi aspetti, in modo che le competenze acquisite non si perdano da
un’esperienza ad un’altra.
10
In termini di classi, la sociologia politica definiva il Fordismo come “paradigma sociale
generale”, fondato sul patto sociale tra classi in funzione della distribuzione della ricchezza.
[Salvatore, 1996]
8
subordinate né autonome, informali, sommerse, flessibili, interinali, etc..
La società attuale viene definita “società dei lavori” [Accornero,
1997] proprio per indicare il processo di de-standardizzazione e
sburocratizzazione dell’archetipo di lavoro del Fordismo-Taylorismo.
Processo che ha creato “una realtà inafferrabile, magmatica, caotica, che
cambia qualità e connotati ad una velocità impressionante”, in cui
“diversamente dalla società industriale, oggi è tutto più difficilmente
prevedibile”. [Passerini, 1998:9]
I.2 La crisi del Fordismo: l’interpretazione della scuola della
regolazione
La crisi del Fordismo è stata efficacemente analizzata negli studi
sistemici della c.d. “Ecole de la Régolation” francese, che negli anni ’70 del
1900, attraverso i lavori di Michel Aglietta, Benjamin Coriat, Alain Liepietz
ed altri, ha posto l’attenzione su due fattori dinamici del processo attraverso
il quale il capitalismo internazionale supera le crisi interne al suo sistema e
le implicazioni sulle relazioni capitale-lavoro:
Il regime di accumulazione, ovverosia quel particolare ordine di
produzione, tecnologia e consumo che si mantiene stabile per un lungo
periodo, che nel caso del Fordismo è rappresentato dal consumo di
massa;
I modi di regolazione, dunque l’insieme delle regole istituzionali e delle
procedure sociali che governano l’attività economica in una società.
Robert Boyer, uno dei principali rappresentanti della teoria della
regolazione, spiega come l’approccio di questa scuola tragga origine,
9
innanzitutto, dal rifiuto dell’individualismo metodologico proprio della
scuola neo-classica, che spiega i fenomeni sociali interamente in termini di
aspetti individuali (quali razza, classe e genere) che determinano il posto
occupato nelle categorie sociali esistenti. [Boyer, 1990]
Ad esempio, gli economisti neoclassici sostengono che gli individui
si collocano sugli scalini sociali del lavoro secondo fattori quali la personale
scelta di educazione o della professione e la domanda per certi beni prodotti
da altri individui nel mercato. Al contrario, i teorici della regolazione
negano che un soggetto possa propriamente comprendere i fenomeni sociali
semplicemente vedendoli come il risultato del processo decisionale di attori
autonomi e perfettamente razionali. Secondo i fautori delle tesi
regolazioniste le scelte degli individui sono influenzate in larga misura da
schemi di comportamento strutturati socialmente e la miglior struttura
sociale possibile è quella che, nel determinare il processo decisionale degli
individui, favorisce la crescita del capitale produttivo.
La teoria della regolazione descrive dunque un’economia orientata
non verso un equilibrio generale, ma piuttosto verso “fasi di espansione e
moderate fluttuazioni cicliche, seguite da fasi di stagnazione ed
instabilità”[Lipietz, 1978:12-14]. Infatti, l’ipotesi regolazionista si fonda
sull’esistenza di un “modo di regolazione” che mitighi il disordine del
“regime di accumulazione, in quanto l’accumulazione del capitale non è un
processo che si autogoverna senza problemi, ma piuttosto registra crisi
ricorrenti di sovrapproduzione, disoccupazione e tensione sociale. Sono
pertanto la stabilità e la riproduzione del sistema economico e sociale che
richiedono la maggiore esplicazione/spiegazione, piuttosto che le loro crisi
in sé. ” [Boyer, 1990]
10
In particolare, Alain Lipietz precisa che uno specifico “modello di
organizzazione del lavoro” governa gli elementi integranti di uno stabile
“modello di sviluppo”, vale a dire la divisione del lavoro e le strutture di
autorità esistenti tra i soggetti. Un “regime di accumulazione” si può
pertanto esaminare attraverso il livello macroeconomico in cui la
produzione (tecnologia, importanza dei diversi settori economici,
produttività dei lavoratori) e la composizione del prodotto sociale (per
consumo personale, investimento, commercio, etc.) si evolvono e si
supportano reciprocamente.[Lipietz, 1989]
Secondo questa linea di pensiero, la stabilità del sistema si ottiene
attraverso la creazione di “blocchi storici egemonici” che favoriscono la
volontaria accettazione delle sue istituzioni e norme. Il regime adotta
dunque appropriate aspettative individuali riguardanti il lavoro, il consumo,
le scelte di vita, etc., e pone disposizioni che aiutano gli individui ad
inserirsi senza problemi nei ruoli sociali funzionali al proprio mantenimento
[Lipietz, 1989].
Lo Stato incoraggia questo processo di normalizzazione, mettendo il
suo imprimatur legittimo sui compromessi e i costumi che formano il
sistema egemonico. In questo senso lo Stato non può essere visto soltanto
come lo strumento dei gruppi privilegiati, ai quali ogni regime di
accumulazione comunque consente sproporzionati vantaggi, ma anche come
garante dei numerosi compromessi sociali attraverso la mediazione del
conflitto: in questo ruolo protegge i diritti ed i vantaggi materiali ottenuti
attraverso le lotte anche dai gruppi meno privilegiati, all’unico fine di
mantenere in vita il regime di accumulazione nella sua interezza.
Nulla può però garantire il successo nel lungo periodo di questi
11
sforzi, in quanto la regolazione diminuisce le tensioni sociali, ma non può
eliminarle: al meglio, crea armistizi tra le classi.
Data la natura conflittuale dello sviluppo capitalistico, la longevità
del regime dipende dalla stabilità del “modello di regolazione”, in cui il
termine francese “regulation”, diversamente dal corrispettivo inglese che
deve essere inteso come correzione del governo dei fallimenti del mercato e
controllo dei monopoli, designa una varietà di meccanismi sociali che
attenuano i conflitti all’interno delle relazioni sociali esistenti, permettendo
alle stesse relazioni di riprodursi. Pertanto, ogni modello di regolazione
include norme di comportamento (ad esempio, considerare legittime alcune
forme di gerarchia sul posto di lavoro), welfare, contratti sindacali e
controllo dello stato sulla sicurezza delle regolazioni.
Il conflitto è trasformato, sempre temporaneamente, in riproduzione
sociale quando i gruppi in competizione giungono ad una serie di
compromessi riguardanti l’organizzazione della produzione e della
distribuzione dei beni sociali. Nella loro lotta per ottenere il potere, i gruppi
esercitano pressioni gli uni su gli altri per delineare limiti, regole, procedure,
divisione del territorio, diritti e doveri. La mobilizzazione sociale e i
compromessi così negoziati trovano conferma nelle norme sanzionatorie
dello Stato, che aiutano il regime a mantenersi stabile.
Sedando temporaneamente le contraddizioni presenti nel regime di
accumulazione, si attua uno sviluppo deciso dell’accumulazione del
capitale, fino a che nuove crisi impongano successivi aggiustamenti. Il
regime di accumulazione trova, infatti, il suo punto di crisi nell’incapacità
del sistema di esaudire tutte le aspettative create; i cambiamenti nella
tecnologia, nel commercio, o nelle risorse disponibili possono causare non
12
previste frizioni tra parti del sistema egemonico.
La crisi ha luogo allorché il sistema di regolazione palesa la propria
incapacità a stemperare problematiche quali l’aumento delle perdite di
produttività, i deficit del commercio e le tensioni sociopolitiche. Gli attori
sociali cercano allora i termini di un nuovo compromesso, maggiormente
capace rispetto al regime passato di fronteggiare le tensioni accumulate.
La maggior parte dei regolazionisti applica questo schema generale
per comprendere i cambiamenti sociali verificatisi a far data dagli ultimi
anni ’60, con particolare riferimento alle crisi che hanno colpito,
intaccandolo, il compromesso sociale fordista prosperante dalla seconda
guerra mondiale in poi che si basava, come si è visto, su alti livelli di
meccanizzazione e la razionalizzazione taylorista, con l’accordo di
distribuire i frutti della crescita economica nella nazione.
Secondo i regolazionisti il primo elemento di crisi del Fordismo è
dato dalla svalutazione della conoscenza del processo produttivo da parte
dei lavoratori, provocata dalla massiccia utilizzazione della catena di
montaggio, e dalla conseguentemente formazione di lavoratori facilmente
rimpiazzabili, gravemente esposti a fenomeni di riduzione dei salari.
Il secondo elemento essenziale è dato dal declino della produttività.
Quale compensazione della svalutazione della posizione lavorativa, i
lavoratori chiedevano che il capitale ridistribuisse a loro più di quanto
realizzava come profitti e garantisse la piena occupazione come norma della
politica economica nazionale.
La realizzazione di questi obiettivi determinava la posizione di
equilibrio del regime di accumulazione fordista, in cui i salari più alti e la
sicurezza sul lavoro, lontani dal minare la competitività del capitalismo,
13
stabilizzarono il sistema assicurando “diversivi” per i guadagni produttivi
del capitale.
Il sistema si sfaldò perché è insito in un campo di incentivi generare
a lungo termine comportamenti contrari alle sue stesse premesse. Esacerbati
da parte delle aziende i principi tayloristi, attraverso la crescente
meccanizzazione, la produzione computerizzata e fenomeni quali il
subappalto del lavoro manuale nelle aree dove i salari sono più bassi, i
lavoratori, le cui conoscenze e talenti erano già esclusi dai piani
organizzativi delle società dove lavoravano, diventarono meno produttivi.
La diminuzione del profitto comportò la diminuzione degli
investimenti e, conseguentemente, la riduzione delle entrate fiscali del
welfare state e l’aumento della disoccupazione. D’altro canto, la crescita
dell’internazionalizzazione del commercio contribuì pesantemente a
peggiorare la crisi. L’elevata competizione tra U.S.A., Europa e Giappone
svalutò enormemente l’efficacia dei modelli di regolazione a livello
nazionale del sistema di produzione.
Nel mondo occidentale, i salari, che una volta intensificavano la
domanda ed aiutavano la finanza del welfare state, soffrivano la pressione al
ribasso. Nel 1980 gli U.S.A. di R. Reagan e l’Inghilterra di M. Thatcher
cercarono di contenere la caduta economica attraverso la
deregolamentazione sia dei mercati finanziari sia del lavoro. La produzione
sarebbe stata stimolata, credevano, se lo Stato avrebbe permesso maggiore
libertà nella gestione dei rapporti tra capitale e lavoro, tagliato il welfare
state e ridotto i suoi interventi per regolare i rapporti di lavoro.
Queste strategie ebbero successi effimeri, in quanto riducendo
l’intervento dello Stato nell’economia la produzione risultò incrementata
14
attraverso trend che esacerbarono le iniquità sociali e la conflittualità dello
sviluppo capitalistico. Inoltre, per quanto riguarda gli U.S.A., l’utilizzo del
deficit per finanziare l’industria militare solo temporaneamente fu di stimolo
per l’economia: in effetti, il deficit crebbe tanto da scoraggiare gli
investimenti di capitale e diminuì la crescita.
In tutti questi casi – perdita di produttività, mercati globalizzati,
diminuzione dell’intervento dello Stato nel mercato – dimostrano come i
trend economici correnti abbiano minato il modello di regolazione che fece
del Fordismo un regime di accumulazione del lavoro.
I.3 Vie d’uscita dal Fordismo
Il progressivo esaurimento della fase ascendente del Fordismo si è
reso evidente nei primi anni ’80 del 1900, in cui l’organizzazione
economica dei paesi a capitalismo avanzato ha subito significativi
mutamenti che, secondo un’opinione di largo consenso, rappresentano i
segnali inequivoci dell’approssimarsi di una nuova fase epocale del modo di
produzione, contrastante con la logica della produzione fordistica rigida.
In particolare, si è assistito al progressivo diffondersi di innovazioni
nelle tecnologie e nelle strategie organizzative, che nell’orientare il processo
produttivo “da valle a monte” invertono la sequenza del Fordismo classico,
segnano il tramonto del gigantismo strutturale, coinvolgono la forza lavoro
nell’andamento del processo produttivo.
Un interessante approccio all’analisi dei mercati del lavoro è dato
dalla teoria della c.d. “specializzazione flessibile”, che analizza la flessibilità
del lavoro nell’ambito della più articolata lettura economica di impostazione
15
istituzionalista, sviluppatasi nel corso degli anni ’70 e ‘80.
Un altro contributo particolarmente significativo per la
comprensione delle possibili vie di uscita dal postfordismo è dato
dall’analisi del c.d. Toyotismo, ovverosia del nuovo “modo di produzione
snella” messo a punto dall’ingegner Ohno e applicato con successo alla
produzione di automobili Toyota, che segna l’abbandono della produzione
di massa, nel duplice senso che non ha più le grandi dimensioni del passato
e non è standardizzata.
I.3.1 La specializzazione flessibile
All’interno della scuola istituzionalista nel filone della c.d.
“specializzazione flessibile” elaborato da Piore e Sabel [1984] si sviluppa la
prima teoria relativa al passaggio dal modello fordista a quello postfordista
qui presentata . L’analisi storica effettuata dagli Autori si fonda sul concetto
di industrial divide, vale a dire delle svolte industriali che determinano il
passaggio da un modello organizzativo ad un altro.
Il primo industrial divide del XX Secolo ha virtualmente segnato
l’inizio del Fordismo, separando il proto-capitalismo, basato su il lavoro
artigianale e l’organizzazione informale del lavoro, dal capitalismo maturo,
incentrato cioè su la produzione standardizzata, che richiedeva macchine
specializzate e manodopera dequalificata.
Lo sviluppo della produzione di massa, inoltre, risulta essere
storicamente correlato alla preminenza della grande industria statunitense e
della sua capacità di generare mercati di massa per prodotti standardizzati.
E’ noto come questo sistema sia entrato in crisi negli anni ’70, con il
passaggio dal mercato di massa, strettamente correlato alle metodologie di