Introduzione
Il tema della liberalizzazione dei mercati del settore culturale è stato uno degli aspetti più
dibattuti nell’Uruguay Round e probabilmente lo sarà anche nel corso del Doha Round.
Anche se questa problematica è diventata oggetto di dibattito dei negoziati a livello
multilaterale solo di recente, il conflitto tra la possibilità di liberalizzare i mercati culturali
e la tutela della diversità culturale risale già agli anni venti del ventesimo secolo.
In questo periodo un discreto numero di paesi europei introdusse delle quote, al fine di
proteggere le loro nascenti industrie cinematografiche da un improvviso afflusso di film
dagli Stati Uniti d’America. Nonostante la sua natura di lunga data, il dilemma tra libero
commercio e diversità culturale non è affatto risolto. Al contrario, in un contesto globale
caratterizzato da una maggiore standardizzazione ed omogeneizzazione del consumo di
massa dei prodotti culturali, i paesi in tutto il mondo hanno manifestato un crescente
desiderio di proteggere le loro identità nazionali, i loro valori e le loro credenze attraverso
una serie di politiche sulla cultura.
Non sorprende che, data l’elevata negoziabilità di molti prodotti culturali, sia beni che
servizi, negli ultimi anni si è assistito ad un’escalation di attrito tra le nazioni su questa
problematica. Tali attriti hanno portato alla ribalta le carenze del quadro istituzionale
esistente, non essendoci delle normative che permettano un corretto bilanciamento tra il
commercio e gli obiettivi culturali.
Il dibattito tra libero commercio e diversità culturale porta di fatto a scegliere tra la
possibilità di dare al pubblico di tutto il mondo i prodotti culturali che desidera e la tutela
delle specificità culturali delle varie nazioni.
Gli Stati Uniti sono stati e sono tutt’ora i maggiori sostenitori di un commercio
internazionale di beni e servizi culturali retto da principi di libero scambio. La loro
determinazione a sancire questa posizione a livello multilaterale ha quasi pregiudicato la
fase conclusiva dell’Uruguay Round. Al contrario, la maggior parte dei paesi ritiene
preferibile astenersi dal prendere obblighi giuridicamente vincolanti nel perseguire le
politiche culturali.
Anche se gli Stati Uniti sono praticamente gli unici tra le maggiori nazioni commerciali
con una posizione di questo tipo sul commercio internazionale dei prodotti culturali, è
evidente come la posizione statunitense abbia un notevole peso.
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L’importanza pratica di questa problematica è immensa, infatti, le persone in molti paesi
considerano la capacità di proteggere le proprie industrie culturali come vitale per lo
sviluppo culturale e democratico e perfino per la sopravvivenza della nazione, inoltre,
sono coinvolti enormi interessi economici.
Il lavoro di tesi si concentrerà soprattutto sul lato economico del dibattito, ma sarà
fondamentale innanzitutto definire la “cultura”. Facendo proprio un approccio culturale
piuttosto che un altro si può arrivare a delle conclusioni diverse anche sulla politica
commerciale. Per fare ciò, nel Capitolo 1, si partirà dall’esposizione del contributo di
Baker (2000), che espone due diverse concezioni della cultura, una definita
“contenutistica”, l’altra chiamata “dialogica”, con la prima che mette al centro il
contenuto della cultura e la seconda, invece, i membri della comunità nazionale. Si vedrà
che utilizzando la concezione dialogica si arriva a degli orientamenti nella politica
commerciale completamente diversi rispetto a ciò a cui porta l’altra concezione.
Il dibattito sull’opportunità o meno di prevedere delle eccezioni al libero commercio per i
prodotti culturali è molto ampio e ci si soffermerà anche su diversi contributi che
criticano questa impostazione. Su questo versante è molto importante analizzare il
contributo di Cowen (2002), il quale considera il commercio internazionale di prodotti
culturali un processo di distruzione creativa, che stimolerebbe le culture al
raggiungimento di livelli di eccellenza mai raggiunti in precedenza. Soprattutto per questo
motivo, egli ritiene che sia un danno porre delle limitazioni al commercio per i prodotti
culturali.
Successivamente, sempre nel Capitolo 1, saranno descritte le varie specificità dei prodotti
culturali, che sembrano portare a mercati che non riescono a fornire ai consumatori una
produzione ed una distribuzione adeguata dei prodotti culturali. Per descrivere queste
specificità ci si servirà soprattutto del contributo di Sauvé e Steinfatt (2000).
Il problema maggiore che emerge è la presenza di fallimenti del mercato, dovuti a più
fattori: - la non rivalità nel consumo di molti prodotti culturali; - economie di scala
interne ed esterne; - la presenza di grandi esternalità. Inoltre, in aggiunta ai fallimenti del
mercato, si pongono anche problemi di azione collettiva. Poiché, anche se una società nel
suo complesso considerasse una tipologia di prodotti culturali nazionali una
manifestazione essenziale della sua cultura, gli individui non sarebbero incentivati ad
agire nell’interesse della comunità rinunciando al consumo dei prodotti culturali esteri.
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Nel Capitolo 2 si amplierà il lavoro di tesi, passando ad analizzare il lato più formale del
dibattito tra libero commercio e diversità culturale. In particolare, sarà discussa una breve
rassegna di vari modelli che possono aiutare a spiegare il ruolo della cultura in un
contesto di commercio internazionale. Si descriveranno contributi appartenenti a due
filoni: nel primo i comportamenti del proprio gruppo sociale influenzano le scelte di
consumo e questa modellistica può risultare applicabile al contesto del commercio
internazionale per il settore culturale; il secondo è, invece, specificatamente costruito per
il settore culturale. Sarà interessante studiare soprattutto i contributi di Janeba (2004) e
Rauch e Trindade (2006), che considerano l’identità culturale come un’esternalità di
consumo.
Questa ipotesi è alla base anche del modello di Olivier, Thoenig e Verdier (2008), che
sarà descritto con dettaglio nel Capitolo 3. In questo paper il consumo di un bene o di un
servizio culturale produce un valore aggiuntivo rispetto al valore intrinseco del consumo,
prevedendo degli individui con un senso di appartenenza ad una particolare comunità di
persone, che condividono le stesse specificità. Inoltre, l’identità culturale è il risultato di
un processo dinamico di trasmissione delle preferenze micro-fondato. Nel corso del
Capitolo 3, si descriverà l’applicazione di questo modello sia in autarchia, che con
l’integrazione commerciale.
Dalla discussione dei risultati del modello e dagli effetti delle specificità dei prodotti
culturali, sopra descritti, si evidenzia la presenza di tensioni con l’apertura commerciale,
dovuta alla perdita di alcune produzioni specifiche. Date queste problematiche e con
l’obiettivo di tutelare un contesto di formazione culturale, necessario con l’uso della
concezione “dialogica”, nel Capitolo 4 verranno presentate varie tipologie di protezione e
si discuterà sulla loro efficacia.
Nella seconda parte del capitolo, si passerà ad analizzare il problema dal punto di vista
internazionale, soffermandosi in particolare sull’evoluzione dei negoziati multilaterali.
Una parte fondamentale del lavoro descriverà le possibili opzioni di uscita dal conflitto
libero commercio/diversità culturale, come presentate da Formentini e Iapadre (2009).
L’ultima domanda a cui si cercherà di rispondere è se l’attuale impostazione della WTO
per i prodotti culturali debba essere rivista prevedendo, per esempio, un’architettura di
leggi specifiche, che permettano finalmente di conciliare le esigenze del libero
commercio con la tutela dei prodotti culturali nazionali.
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Capitolo 1 La cultura e le sue specificità
Introduzione
Il dibattito sul ruolo della politica commerciale nel settore culturale è influenzato sia da
motivazioni culturali che da esigenze di efficienza economica. Questo lavoro, come già
anticipato, si concentra soprattutto sul lato economico del dibattito. Tuttavia, alcune
considerazioni devono essere fatte su che cosa è in gioco sotto il nome “cultura”, perché
in base a come si definisce la cultura si può arrivare anche a conclusioni molto diverse per
la politica commerciale.
Un contributo interessante da cui partire è quello di Baker (2000), che evidenzia la
presenza di due concezioni della cultura: “contenutistica” e “dialogica”. Quando si parla
di cultura contenutistica si intende una concezione che mette al centro della cultura e della
sua tutela il contenuto, in particolare quello tradizionale. Basandosi su questa
impostazione è legittimo domandarsi se il valore della cultura giustifichi o meno
restrizioni commerciali. Oltre a questi ci sono anche degli argomenti non economici che
spingono verso un certo scetticismo nei confronti di forme di protezione. Tra gli
argomenti non economici, per esempio, va inserito il rischio che delle élite manipolino i
contenuti culturali tradizionali per giustificare forme di dominazione e per soffocare
cambiamenti in senso libertario.
Indubbiamente, però, i contenuti della cultura tradizionale meritano rispetto, avendo
comunque un valore rilevante e molto probabilmente il libero commercio può minacciare
il mantenimento di questi contenuti, perché influenze esterne potrebbero compromettere
la specificità di alcuni contenuti. La domanda che si pongono i sostenitori del libero
commercio è quale sia il costo che una comunità può permettersi nell’obiettivo di tutelare
la propria cultura, cioè quante limitazioni possono essere giustificate in suo nome. Il
problema è anche che spesso sono le élite i beneficiari maggiori delle politiche di
protezione a svantaggio della maggioranza dei membri della collettività, a cui viene
limitato il consumo di beni importati.
Una diversa concezione è quella “dialogica” per la quale, piuttosto che preservare il
contenuto del passato, l’obiettivo rilevante è assicurare un adeguato contesto per la
partecipazione dei membri alla comunità culturale, fornendo loro le risorse necessarie. La
protezione della cultura in questo contesto significa garantire che i membri della comunità
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