9
a zero, in un'economia moderna il tasso d'interesse nominale è vincolato dallo zero
bound.
Gli interrogativi riguardanti il ruolo dello zero bound sul tasso
d’interesse nominale quale possibile ostacolo all’efficacia della politica monetaria
non sono nuovi. Le origini possono rintracciarsi nei dibattiti sulla trappola della
liquidità, che sono stati suscitati dai lavori di Keynes
3
(1930, 1936). A questi primi
lavori ha fatto seguito un’amplissima letteratura, specialmente negli anni cinquanta
e sessanta. Quindi vi è stato un periodo di relativo silenzio, dovuto al fatto che negli
anni della grande inflazione l’eventualità di una trappola della liquidità appariva
alquanto remota. La recente riconquista della stabilità dei prezzi nei principali paesi
industrializzati e, soprattutto, l’attuale situazione giapponese hanno fornito, però,
nuovi elementi ad un dibattito che è strettamente correlato a quello meno recente.
In seguito a questi sviluppi ci si è chiesti quali siano i rischi connessi al
nuovo contesto di stabilità dei prezzi. In particolare, il presente lavoro si concentra
sull'analisi delle implicazioni di politica monetaria derivanti dal limite di non
negatività per il tasso d'interesse nominale (zero bound). Il limite, notoriamente,
interviene perché i partecipanti al mercato possono evitare i tassi d’interesse
negativi detenendo moneta, anziché titoli. Dato che in contesti di bassa inflazione il
livello d'equilibrio dei tassi d'interesse si sposta verso il basso, può accadere che, in
caso di shocks negativi, la politica monetaria si trovi nell'impossibilità di ridurre
ulteriormente i tassi d'interesse per stimolare l'economia, avendo questi già
raggiunto la soglia dello zero percentuale. Con un tasso d'interesse nominale pari a
3
Keynes, John M., (1930), Treatise on Money, Volume 2. London: MacMillan.
Keynes, John M., (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money. London:
MacMillan.
10
zero, se anche il tasso d’inflazione attesa è zero, diventa impossibile ottenere un
tasso d'interesse reale di breve periodo negativo. Una simile misura potrebbe essere
necessaria in caso di una recessione, per evitare che l'economia entri in una spirale
deflazionistica.
Nel primo capitolo si analizza il comportamento delle banche centrali.
L'obiettivo dichiarato della maggior parte di tali istituzioni è la stabilità dei prezzi
nel lungo periodo. Un tale mandato è giustificato dai costi che si accompagnano a
tassi d'inflazione elevati e dalla convinzione, ormai generale, che, né tra inflazione e
occupazione, né tra inflazione e crescita, esista alcun trade off di lungo periodo. È
diffusa la tesi secondo cui il tasso ottimale d'inflazione non sia pari a zero, ma
corrisponda ad un valore basso e positivo. Ciò si giustifica, essenzialmente, con la
presenza di rigidità nominali verso il basso di prezzi e salari, le quali, in assenza di
inflazione, renderebbero difficile l'aggiustamento reale in seguito ad eventuali
shocks. Inoltre, un target inflazionistico maggiore di zero sarebbe auspicabile per
ridurre il rischio che il tasso d'interesse nominale di breve periodo scenda a zero e
la politica monetaria perda la propria efficacia.
La politica monetaria, perseguendo la stabilità dei prezzi, può essere
volta ad ottenere un tasso d'inflazione giudicato ottimale o un livello dei prezzi
costante. I due tipi di target si riflettono in due strategie di politica monetaria
diverse: l'inflation targeting e il price level targeting. Attualmente le banche centrali
tendono a seguire una strategia di inflation targeting. Ma il regime di inflation
targeting non è quasi mai puro: la politica monetaria, infatti, tende anche a
perseguire l'obiettivo secondario della stabilizzazione dell'output. L'attenzione verso
la stabilità dell'output si concretizza, generalmente, in una strategia più gradualista
11
nel perseguimento dell'obiettivo principale, nota col nome di flexible inflation
targeting. Regole di politica monetaria come quella di Taylor si prestano
particolarmente a descrivere il comportamento attuale delle banche centrali: tali
regole riflettono un'attenzione sia verso la stabilizzazione dell'inflazione, sia verso la
stabilizzazione dell'output; inoltre, rendono giustizia del fatto che il principale
strumento di politica monetaria è, oggi, il tasso d'interesse nominale di breve
periodo.
L'evidenza storica è povera di episodi con tassi d'interesse bloccati a
zero. Tra i pochi casi osservabili è compresa la grande depressione degli anni
trenta, ma anche episodi in cui a tassi d'interesse vicini allo zero si è associata una
buona performance economica. Lo scarso numero degli esempi e le differenze
strutturali dei quadri economici fanno sì che tali episodi non possano gettare molta
luce sui rischi concreti derivanti dallo zero bound. La stessa crisi dell'economia
giapponese negli anni novanta, con tassi d'interesse vicini a zero e pressioni
deflazionistiche rappresenta un caso interessante, ma comunque isolato.
Nel secondo capitolo vengono esposti alcuni impianti teorici utili alla
comprensione delle complicazioni derivanti dal limite di non negatività per il tasso
d'interesse nominale. La situazione di inefficacia della politica monetaria in
presenza di tassi d'interesse nominale pari a zero è nota col nome di trappola della
liquidità. Tale inefficacia di politica monetaria interviene con modelli del
meccanismo di trasmissione di tipo keynesiano, ma non monetarista. Secondo il
modello keynesiano i titoli di breve periodo sono sostituti perfetti di tutte le altre
attività e, quando i titoli di breve periodo e la moneta divengono sostituti perfetti in
virtù di un identico rendimento nullo, ogni incremento dell'offerta di moneta lascia il
12
pubblico indifferente. Il settore privato si limita semplicemente a detenere le
maggiori scorte monetarie senza spenderle. Krugman, con una progressione di
modelli, dimostra che il risultato della trappola della liquidità può intervenire anche
lasciando cadere, una ad una, le ipotesi più restrittive del modello IS-LM,
tradizionalmente utilizzato per dimostrare l'inefficacia della politica monetaria a
tassi d'interesse molto bassi.
Il terzo capitolo contiene una esposizione di studi econometrici volti a
misurare gli effetti dello zero bound sulla performance economica. Tali studi, vista
la scarsità di dati empirici, applicano degli shocks simulati stocasticamente a
modelli macroeconometrici allo scopo di ottenere serie storiche artificiali. I risultati
si sono dimostrati sensibili alle ipotesi dei modelli. Generalmente si è trovato che un
target inflazionistico anche di poco superiore allo zero è efficace nel ridurre rischi
derivanti dallo zero bound. Inoltre, particolari strategie di politica monetaria
possono ridurre ulteriormente l'incidenza del vincolo sulla performance economica.
Se particolari regole di politica monetaria studiate ad hoc per evitare
che l'economia entri in una trappola della liquidità dovessero fallire e la banca
centrale si trovasse nella condizione di non poter più influenzare l'economia
attraverso le tradizionali operazioni di mercato aperto, allora si renderebbero
opportune delle misure alternative. Il quarto capitolo ne raccoglie alcune, partendo
dalla politica fiscale. La politica fiscale è vista come la soluzione classica ai
problemi di trappola della liquidità, ma Krugman dimostra che, principalmente per
problemi legati al vincolo di bilancio pubblico, questa potrebbe non rivelarsi
efficace. A questo punto, alla banca centrale non rimarrebbe che rivolgersi a
politiche monetarie alternative alle tradizionali operazioni di mercato aperto.
13
Alcune di queste politiche possono essere considerate estensionii delle operazioni di
mercato aperto tradizionali (acquistare titoli pubblici a lungo termine, sottoscrivere
opzioni, acquistare valuta estera), mentre altre sono veri e propri percorsi innovativi
che le banche centrali potrebbero tentare di percorrere in caso di necessità
(acquistare passività emesse dal settore privato, concedere prestiti tramite lo
sportello di sconto, stampare moneta per indurre effetti ricchezza).
14
Capitolo primo
La politica monetaria in un contesto di bassa
inflazione
1.1 Perché le banche centrali perseguono la stabilità dei prezzi nel
lungo periodo
1.1.1 I costi dell’inflazione
Il motivo fondamentale per cui le banche centrali perseguono la stabilità dei prezzi
nel lungo periodo è che l’inflazione è economicamente e socialmente costosa.
Circa l’aspetto economico dei costi da inflazione (che comprendono
distorsioni distributive; menu costs; costi di detenzione del circolante, slot machine
costs, shoe leather costs, eccetera…) molto è stato scritto
4
. Molti di questi costi
derivano dalla maggiore incertezza che si accompagna ad elevati livelli
inflazionistici.
5
E’ stata, inoltre, evidenziata la corrispondenza tra entità del costo
associato ad ogni singolo tasso d’inflazione e l’adattamento all’inflazione delle
strutture istituzionali dell’economia: soprattutto del sistema fiscale e della tassazione
del capitale.
I costi sociali non sono stati individuati e catalogati altrettanto
precisamente, ma pure questi contribuiscono al malcontento dell’opinione pubblica
4
Fischer, S. and Franco Modigliani, (1978), “Towards an Understanding of the Real Effects and Costs
of Inflation,” Wel twirt schaftl iches Archiv, 114pp. 810-32,
Fischer, Stanley, (1981) “Towards an Understanding of the Costs of Inflation: II ,” in Karl Brunner
and Allan H. Meltzer, eds., The Costs and Consequences of Inflation, Carnegie-Rochester Conference
Series on Public Policy, Vol. 15. North-Holland, pp. 5-42,
Fischer S. (1994) “Modern Central Banking,” in Forrest Capie and others, eds., The Future of
Central Banking. Cambridge: Cambridge Universit y Press.
5
Fischer, S. (1996), “Why Are Central Banks Pursuing Long-Run Price Stability?”, in Achieving Price
Stability, Federal Reserve Bank of Kansas City, 1996.
15
per l’elevata inflazione. La storia in generale ci insegna che ad elevati tassi
d’inflazione sono spesso associate situazioni d’instabilità sociale e politica.
La maggior parte delle tradizionali misurazioni dei costi economici da
inflazione pone attenzione soprattutto sull’aspetto allocativo. Ad esempio, Feldstein
(1996)
6
, nel misurare i costi economici prodotti dall’interazione dell’inflazione con il
vigente sistema di tassazione dei guadagni da capitale negli Stati Uniti, trova che il
costo di un tasso inflazionistico del 2% è sorprendentemente alto, corrisponde all'1%
del Pil. Gran parte del costo deriva dalla distorsione nell’allocazione intertemporale
del consumo, che è provocata dalla riduzione del tasso di rendimento reale sul
risparmio. Il risultato dipende dalla non indicizzazione della tassazione sui redditi da
capitale. Feldstein, inoltre, afferma che, qualora esista un trade off di breve periodo
tra inflazione e output, nella decisione sull’opportunità di ridurre o meno l’inflazione
bisogna confrontare una perdita una tantum (una flessione temporanea nell’output)
con la attualizzazione di un guadagno permanente.
1.1.2 La curva di Phillips: approccio critico
I costi allocativi dell’inflazione sono importanti, essi potrebbero concretarsi in minori
livelli di consumo, reddito e crescita. Ma potrebbero essere più che controbilanciati
da una relazione tra inflazione e disoccupazione, come evidenziato dalla curva di
Phillips. Tuttavia, è ampiamente, anche se non universalmente, accettato che non
esiste un trade off di lungo periodo tra inflazione e disoccupazione.
7
L’affermazione
necessita, però, di essere puntualizzata riguardo a tre questioni: l’esistenza del trade
6
Feldstein, Martin. (1996) “The Costs and Benefits of Going from Low Inflation to Price Stability,”
National Bureau of Economic Research.
7
Fair, Ray. (April 1996) “Testing the Standard View of the Long-Run Unemployment-Inflation
Relation-ship,” Cowles Foundation Discussion Paper 1121, Yale University.
16
off nel breve periodo; possibilità ed implicazioni di isteresi; la natura del tadeoff a
bassi livelli inflazionistici.
Per quel che riguarda la prima precisazione: l'esistenza di un trade off di
breve periodo tra inflazione e disoccupazione è comprovata dagli studi econometrici
e dal comportamento delle maggiori banche centrali, che, nelle loro decisioni, ne
tengono conto. Infatti, generalmente, con bassa disoccupazione ed elevata
utilizzazione delle risorse la politica monetaria è restrittiva per prevenire l’inflazione;
mentre durante le recessioni la politica monetaria è espansiva, perché si vuole
stimolare la produzione e non ci si attendono impennate inflazionistiche.
8
Il secondo aspetto critico riguardo alla curva di Phillips concerne
l'eventualità di isteresi per la disoccupazione. Blanchard e Summers (1986)
9
hanno
affermato che in Europa la disoccupazione seguiva un random walk per la presenza
di insiders nella determinazione dei salari. Più in generale, il tasso naturale di
disoccupazione potrebbe essere influenzato dal tasso attuale. In Europa e negli Stati
Uniti le stime degli economisti si rifanno a questa impostazione. La seguente thumb
rule (regola del pollice)
10
elaborata da Fischer, che prende in considerazione un tasso
naturale di disoccupazione del 5%, è una descrizione grossolana di tali stime:
u*t = 5.0 + 0.3 (ut-1 - 5.0);
dove u*t è il tasso naturale di disoccupazione del periodo t, ut-1 il tasso effettivo del
periodo precedente. L’equazione potrebbe ben descrivere il comportamento del tasso
naturale di disoccupazione, ma, alternativamente, potrebbe essere coerente con un
8
Romer, Christina D.and David Romer. (1994), “What Ends Recessions?” NBER Macroeconomics
Annual, 9, pp. 13-57.
9
Blanchard, Olivier J., and Lawrence Summers. (1986) “Hysteresis and the European Unemployment
Problem.” NBER Macroeconomics Annual, 1, pp. 15-77.
10
Fischer (1996).
17
effettivo tasso naturale del 5%. In questo secondo caso l’equazione potrebbe derivare
dalla innata cautela degli economisti, poco desiderosi di pubblicare un margine
troppo alto di capacità inutilizzata in tempi di elevata disoccupazione. Se così fosse,
nel caso in cui il policy maker volesse attuare politiche espansive finchè il tasso di
disoccupazione non raggiunge quello naturale, una tale stima favorirebbe un eccesso
di cautela in tempi di elevata disoccupazione, e un eccesso di ottimismo in tempi di
bassa disoccupazione.
La terza precisazione attiene alla natura della curva di Phillips a tassi
d’inflazione molto bassi. La questione è cruciale per il dibattito circa il target
inflazionistico ottimale. E’ stato detto che “una lieve inflazione ingrassa le ruote del
mercato del lavoro”
11
e, più in generale, che una lieve inflazione facilita il necessario
aggiustamento dei prezzi relativi. L’argomentazione presuppone un certo grado di
vischiosità di prezzi e salari verso il basso. Il risultato di questa connotazione sarebbe
una curva di Phillips di lungo periodo che è verticale a tassi elevati d’inflazione, ma
che rifletterebbe un trade off tra inflazione e disoccupazione appena inizia a farsi
sentire il vincolo sulla riduzione di prezzi e salari.
12
Comunque, l’evidenza empirica
non è così univoca. Riguardo alla rigidità dei salari verso il basso l’indagine mostra
che negli Stati Uniti i tagli salariali sono abbastanza frequenti.
13
11
Card, David, and Dean Hyslop. (April 1996) “Does Inflation ‘Grease the Wheels of the Labor
Market’?” NBER Working Paper 5538.
12
Tobin, James. (March 1972)“Inflation and Unemployment,” American Economic Review, 62, 1, pp.
1-18.
Akerlof, George, William Dickens, and George Perry. (July 1996) “The Macroeconomics of Low
Inflation,” Brookings Papers on Economic Activity, 1, pp. 1-59.
Dreze, Jacques. (1992) “Money and Uncertainty: Inflation, Interest, Indexation”. Banca d’Italia,
Roma: Paoli Baffi Lectures on Money and Finance.
13
Lebow, David, David Stockton, and Wil li am Wascher. (October 1995) “Inflation, Nominal Wage
Rigidity, and the Efficiency of Labor Markets,” Federal Reserve Board, Finance and Economics
Discussion Series, 94-45.
18
Figura 1.1.1: da Fischer, S. (1996), “Why Are Central Banks Pursuing Long-Run Price
Stability?”, in "Achieving Price Stability", Federal Reserve Bank of Kansas City, 1996
Confronto dei tassi medi di disoccupazione nei paesi industrializzati durante
anni con inflazione al disopra e al disotto della media (1975- 1994)
Anni con
inflazione sotto la
media
Anni con
inflazione sopra
la media
19
Chapple (1996)
14
trova un’elevata concentrazione attorno allo zero delle variazioni
salariali in Nuova Zelanda nel periodo di bassa inflazione dal 1988 al 1993. Ma
anche prove meno formali supportano la tesi di una certa difficoltà “politica” nella
riduzione dei salari nominali.
A livello aggregato i dati non sono abbastanza chiari da fornire la precisa
forma della curva di Phillips a tassi inflazionistici molto bassi. Dev’essere detto che
la rigidità verso il basso di salari e prezzi è più una regola convenzionale che non un
aspetto strutturale dell’economia. L’illusione monetaria è dopotutto sempre
un’illusione e può benissimo succedere che, dopo un prolungato periodo di stabilità
dei prezzi e/o elevata disoccupazione, i salari nominali non siano più così rigidi. Si
ritornerebbe, quindi, ad una curva di Phillips verticale. Ma, allo stesso tempo, in
assenza di un trade off di lungo periodo, potrebbe esisterne uno di breve. La prova
di quanto tempo possa impiegare l’economia per adattarsi a tassi d’inflazione molto
bassi, ed aggiustare prezzi e salari con un’inflazione attesa vicina allo zero, è
alquanto confusa. La recente esperienza statunitense ha veduto la più bassa
inflazione degli ultimi 30 anni, ma il livello di disoccupazione estremamente basso,
vicino al 5% o al disotto, non fornisce l’humus idoneo per studiare la possibilità o
meno di tagli ai prezzi e ai salari. Il livello dei prezzi declinò durante la depressione
alla fine del secolo diciannovesimo, creando scontento sociale, ma non una
situazione di protratta disoccupazione o di scarsa crescita economica. La depressione
degli anni 30 è stato, per gli Stati Uniti, un costoso periodo di transizione, durante il
quale prezzi e salari hanno mostrato una qualche flessibilità verso il basso, ma non
sufficiente ad evitare una grave disoccupazione. La recente esperienza europea degli
14
Chapple, Simon. (July 1996) “Sticky Money Wages,” New Zealand Institute of Economic
Research, Working paper 96/13.
20
ultimi anni suggerisce che il periodo di adattamento può protrarsi per lungo tempo.
La figura n.1.1.1 fornisce dati sulla disoccupazione di paesi industrializzati in anni di
inflazione al disotto ed al disopra della media per il periodo dal 1975 al 1994. Con
eccezione di Grecia, Portogallo e Stati Uniti, la disoccupazione era più elevata
quando l’inflazione era bassa.
Una spiegazione per questa corrispondenza può essere che il tasso
naturale di disoccupazione negli anni novanta, anni di bassa inflazione, sia stato
semplicemente maggiore di quello degli anni settanta e ottanta, con tassi
inflazionistici decisamente più elevati. Può anche darsi, però, che gli incrementi
stimati del tasso naturale di disoccupazione siano coerenti con la seconda
spiegazione dell’equazione prima riportata, e che, in molti paesi trascorrerà un lungo
periodo prima che le asimmetrie nell’aggiustamento di salari e prezzi vengano
eliminate.
21
Figura 1.1.2: Fischer (1996). La pendenza della retta di regressione è –1,905%, con una T
statistica di –2,098%.
Crescita e inflazione
(1965-1994)
Crescita percentuale
media
Media del logaritmo naturale di 1+pi/100