4
Mita-Iotti e quella più recente presieduta da D’Alema; e senza
tralasciare i tentativi presidenzialisti dei presidenti della Repubblica
Gronchi e Cossiga. Tra questi eventi, un intervallo tra i più negativi
che la vita politica abbia mai conosciuto: le inchieste giudiziarie di
“Tangentopoli” e l’incremento del fenomeno mafioso che rivolge il
suo feroce attacco verso esponenti delle istituzioni.
Dopo queste tristi parentesi è cominciata la vera fase di
“transizione” italiana, che mira a modificare dal profondo l’impianto
istituzionale del Paese, a partire dal Parlamento delegittimato dalle
inchieste giudiziarie, e dalle leggi elettorali che diano più stabilità ed
equilibrio ai governi. Negli anni Novanta l’impulso riformista offre i
suoi migliori frutti, quantomeno da un punto di vista quantitativo, dato
che la qualità degli interventi è piuttosto dubbia. Le leggi più
importanti che qui analizziamo nella seconda parte sono: la l. 59/1997,
la l. 1/1999 e la l. 3/2001. Soprattutto quest’ultima interviene in
maniera decisa sull’organizzazione degli enti locali e dei loro rapporti
con lo Stato. Questi interventi cercano di indirizzare le riforme sulla
strada del federalismo, ma l’obiettivo sembra ancora molto lontano
dall’essere raggiunto.
Uno sguardo particolare viene rivolto poi alle iniziative
referendarie degli anni ’90, che portano a una modifica sostanziale
della legge elettorale; questo, però, continua a non raggiungere
l’obiettivo decennale della stabilità governativa.
La seconda parte del lavoro focalizza la sua attenzione sul tentativo
di riforma costituzionale più importante e recente: la l. cost. 18 ottobre
2001 n. 3. Si cerca soprattutto di analizzare in maniera sintetica quelli
5
che sono i tratti essenziali di questa importante riforma, a partire dai
suoi principi di base e finendo con tutte le mutate funzioni degli enti
locali. Infine, si cerca di capire quello che è stato il suo apporto alla
causa federalista e quale sia la strada da seguire per trasformare il
nostro ordinamento in questo senso.
Il lavoro si chiude con delle considerazioni conclusive prettamente
personali sul percorso di ricerca effettuato attraverso la lettura di
numerosi testi di insigni personalità del diritto e della politica.
6
CAPITOLO I – LA NASCITA DELLA COSTITUZIONE
I.1 - 2 Giugno 1946: l’Italia volta pagina
Dopo la Seconda Guerra Mondiale e soprattutto dopo un
ventennio di regime fascista, l’Italia doveva decidere del proprio
futuro istituzionale. Il referendum del 2 giugno 1946 aveva sancito
uno storico cambiamento: la forma di governo repubblicana aveva
scalzato quella monarchica. In quello stesso giorno il popolo
italiano aveva anche eletto l’Assemblea costituente, incaricata di
redigere una nuova Costituzione e di dare un assetto istituzionale in
linea con la volontà repubblicana del popolo italiano. Queste
elezioni hanno sancito la prevalenza dei partiti popolari, che ben
presto hanno evidenziato una grande difficoltà nel tenere il rapporto
con le proprie basi popolari, diffidenze reciproche, sfiducia
reciproca sul rispetto delle regole democratiche. A questi problemi
di stampo prettamente politico se ne affiancavano altri a
connotazione differente come condizionamenti internazionali e
difficoltà nel curare l’ordine pubblico. Tutto questo portava a quel
compromesso che proiettava verso il futuro una radicale riforma,
ma intanto segnava un sostanziale ritorno al sistema politico
prefascista.
Ma i risultati del 2 giugno (sia quelli del referendum che quelli
dell’elezione della Costituente) mettono in luce un aspetto molto
rilevante: l’esistenza di un equilibrio sostanziale tra i due maggiori
7
schieramenti in campo (l’uno progressista, rappresentato dal Pci e
dal Psi che uniti raccoglievano il 39% dei voti, l’altro moderato,
costituito dalla Dc che otteneva il 35% dei consensi) e la forte
frammentazione delle forze minori. La Costituzione veniva, cioè ,
ad insediarsi sopra un tessuto politico e sociale profondamente
lacerato dalle vicende della guerra e del dopoguerra, dove il
sommarsi di contrapposizioni storiche diverse (fascismo-
antifascismo, monarchia-repubblica, cattolicesimo-marxismo-
liberalismo) veniva a rivelare un tasso di disomogeneità nel nostro
sistema molto superiore alle soglie normali di rischio proprie dei
sistemi democratici.
1
Nell’immediato dopoguerra si era aperto un dibattito sulla nuova
organizzazione da dare al Paese. Alcuni partiti erano schierati a
favore dell’ipotesi cosiddetta “elitaria”. Tra questi, il partito liberale
sosteneva la possibilità di ricostruire lo stato prefascista; mentre il
partito d’azione reclamava una diffusa democrazia di base
equilibrata, al vertice, da una forte struttura istituzionale secondo il
modello del presidenzialismo americano. Di altro avviso era la Dc
di De Gasperi che reclamava una democrazia basata sui grandi
partiti e sulla loro capacità di raccogliere e orientare il consenso
popolare. La posizione del leader democristiano non era stata facile
alla vigilia del referendum: il mondo cattolico e i vertici vaticani,
che avevano una certa influenza sul suo partito, erano piuttosto
restii ad accettare una soluzione repubblicana, per il timore che una
sua affermazione comportasse una parallela affermazione dei partiti
1
Cheli E., La riforma mancata. Tradizione e innovazione nella Costituzione italiana, il Mulino,
Bologna, 2000.
8
della sinistra. La Dc, sulla base di un referendum al suo interno, si
pronunciò, a grande maggioranza dei suoi iscritti per la Repubblica,
ma poté, grazie al fatto che la scelta decisiva era stata affidata
direttamente ai cittadini, lasciar liberi i suoi elettori di votare in un
senso o nell’altro. Certo è che l’apporto decisivo alla vittoria della
Repubblica è stato dato proprio dall’elettorato cattolico; nelle file
della nascente Dc vi era stata, infatti, una “svolta” in senso
repubblicano: l’Azione cattolica e la gerarchia ecclesiastica furono
traversate da profonde tensioni; in più, la linea ufficiale di neutralità
del Vaticano non escluse in molti casi, specie nel Sud, un forte
impegno filo-monarchico che generò forti contrasti con il partito.
Nella scelta tra la monarchia e la repubblica, il problema
fondamentale era riuscire a non intaccare quel fragile e incerto
tessuto d’identità collettiva che il popolo italiano era riuscito
faticosamente a creare e rendere accettabile alla Chiesa nel suo
insieme la scelta repubblicana. La tenace volontà di De Gasperi di
affidare la scelta istituzionale ad un referendum popolare piuttosto
che alla Assemblea costituente ha indebolito l’immagine del suo
partito, ma ha consentito di inserire a pieno titolo tutte le energie
morali espresse dal mondo cattolico nel nuovo ordinamento
democratico e repubblicano. Quella funzione svolta dalla Chiesa nei
venti mesi della occupazione militare alla base del Paese, che aveva
contribuito a un recupero di identità collettiva, non poteva essere
veicolata verso la politica, la democrazia e la Repubblica, se non
sulla base di una libera e diretta scelta del popolo che solo il
referendum rendeva possibile; le resistenze e i sospetti verso la
9
forma repubblicana diffusi fra i vescovi, specie nel Mezzogiorno,
solo con una pronuncia diretta del popolo italiano potevano essere
superati. La scelta della via referendaria di fatto spinse anche i
vescovi favorevoli alla monarchia a trincerarsi nei documenti
ufficiali dietro un richiamo ai principi sulla indifferenza della
Chiesa per le forme di governo purché rivolte al bene comune,
riconoscendo la libertà di scelta dei cattolici. Dopo il verdetto
popolare è significativo che anche vescovi che più si erano espressi
per la monarchia, avvertano l’esigenza di invitare alla pacificazione
e alla concordia.
2
I.2 - I “compromessi costituzionali”
La strada verso la nuova Costituzione è stata segnata da grandi
compromessi. Prima di analizzarli più da vicino, però, è opportuno
sottolineare un dato fondamentale: la Costituzione rappresenta la
risposta più alta a quella crisi epocale che nel dramma della guerra
si era consumata. Lo ha intuito uno dei padri della Costituzione,
Giuseppe Dossetti,
3
il quale in una conferenza del 1994 affermava:
“La Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata – come e più
d’altre pochissime costituzioni – da un grande fatto globale, cioè
dai sei anni della seconda guerra mondiale”. Gli articoli della
prima parte della nostra Costituzione, infatti, acquistano tutto il loro
2
Scoppola P., La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), il
Mulino, Bologna, 2006.
3
Giuseppe Dossetti (1913-1996), uomo politico e sacerdote cattolico italiano; vicesegretario della Dc,
fu membro della commissione incaricata dall’Assemblea costituente di redigere la Costituzione.
10
profondo significato e tutto il loro spessore sullo sfondo degli
scenari drammatici della seconda guerra mondiale. È proprio
rispetto a questi che si coglie il senso pieno delle affermazioni sui
diritti inviolabili dell’uomo, sui doveri di solidarietà politica,
economica, sociale, sulla pari dignità senza distinzioni di sesso, di
razza, di lingua, di religione, sul ripudio della guerra come mezzo di
soluzione delle controversie internazionali. Il fondamento vero della
Costituzione è proprio in questo suo stretto legame con la vicenda
epocale della seconda guerra mondiale.
Veniva così a maturare quello che può considerarsi il nucleo
forte delle scelte costituenti: l’elaborazione di un modello di
democrazia imperniato sul riconoscimento del valore preminente
della persona umana e su un sistema di libertà, individuali e di
gruppo, ordinate secondo un criterio di “socialità progressiva”. Un
modello molto articolato sul piano territoriale, con al centro un
sistema di poteri ricco di bilanciamenti e contrappesi.
4
Ma vediamo ora quelli che sono stati i veri e propri
“compromessi costituzionali” che hanno portato al nuovo assetto
del Paese. Innanzitutto bisogna dire che già la scelta del referendum
rappresentava un primo compromesso tra i partiti e, soprattutto, tra
le due Italia, quella repubblicana e quella monarchica. Altro
compromesso fondamentale è quello tra una rivoluzione promessa
per il futuro nel senso della democrazia sostanziale e la mancata
innovazione delle strutture dello Stato. A questo si giunse attraverso
4
Rebuffa G., La Costituzione impossibile. Cultura politica e sistema parlamentare in Italia, il
Mulino, Bologna, 1995.
11
un lungo processo sintetizzabile in tre tappe principali, antecedenti
l’avvio dei lavori della Costituente:
ξ 25 luglio 1943 – luglio 1944: i partiti popolari
interpretano il forte sentimento antistatale della loro base
legato alla stessa esperienza della guerra;
ξ fino alla liberazione del Nord, si sviluppa il dibattito
ideologico sul nuovo Stato che prende l’avvio dalla nota
lettera del Partito d’Azione sul ruolo del Cln;
ξ si pongono, infine, le premesse del compromesso che si
raggiungerà nella Costituzione.
5
Nelle prime scelte relative alla organizzazione interna
dell’Assemblea emersero il peso preminente della politica e il ruolo
dei partiti rispetto ad ogni considerazione di competenza tecnica. Le
tre sottocommissioni nelle quali si articolò la Commissione dei 75
non furono formate con criteri di competenza “professionale”, ma
assunsero natura di organismi politici. Né il governo né i partiti
presentarono progetti organici di Costituzione; una commissione
riunita per iniziativa del Ministero della Costituente e presieduta dal
Forti aveva svolto un lavoro preparatorio che ebbe limitata
influenza; furono i rappresentanti dei partiti presenti nella
Commissione dei 75 e nelle singole sottocommissioni che
formularono il testo della Costituzione. In questo modo venne
valorizzato al massimo il ruolo dei partiti e l’Assemblea poté
5
Scoppola P., La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), il
Mulino, Bologna, 2006.
12
approvare senza grandi innovazioni lo schema predisposto dalla
Commissione dei 75. Tutto ciò contribuì anche a quel compromesso
fondamentale per cui, concentrate nella prima parte della
Costituzione le premesse sulla “rivoluzione futura”, fu sacrificata
nella seconda parte l’esigenza di una seria riforma del sistema
parlamentare ereditato dal prefascismo.
Con riferimento alla seconda parte della Costituzione,
riguardante la forma di governo del Paese, la seconda
sottocommissione si pronunciò per l’adozione del sistema
parlamentare, non ritenendo adeguati né il presidenzialismo
americano né il governo direttoriale svizzero. Tale sistema, però,
doveva essere disciplinato con dispositivi costituzionali idonei a
tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le
degenerazioni del parlamentarismo.
6
L’auspicio di un
coordinamento fra il principio nuovo del rilievo riconosciuto ai
partiti e l’esigenza di razionalizzare il sistema parlamentare non
ebbe alcun seguito: il primo principio ebbe piena affermazione e
sviluppo; il secondo non fu soddisfatto, a causa della forte
opposizione esercitata in questo senso dai comunisti e dai socialisti.
In questi due partiti prevaleva una concezione “giacobina” della
democrazia, fondata sull’idea di riconoscere pieni poteri ad una
Assemblea espressiva della sovranità popolare, che fosse allo stesso
tempo legislativa ed esecutiva, che elaborasse la legge e ne
controllasse l’esecuzione. È chiaro però che si trattava di un
6
Scoppola P., op. cit.
13
modello costituzionale estraneo al principio base della democrazia
quale è quello della separazione e limitazione dei poteri.
Alla fine, comunque, la sinistra rinunciò alla sua concezione
“giacobina” e accettò il bicameralismo, le autonomie locali e il
controllo di legittimità costituzionale delle leggi da parte della
Corte Costituzionale (definita da Togliatti “una bizzarria, un organo
che non si sa che cosa sia e grazie al quale illustri cittadini vengono
collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema della
democrazia”),
7
in cambio della rinuncia ad ogni tentativo di
razionalizzazione del sistema parlamentare da parte delle altre
componenti dell’Assemblea.
Dunque, se fu relativamente facile l’intesa sulla promessa della
rivoluzione futura, di uno Stato cioè che assumeva fra i suoi compiti
quello di rimuovere le cause delle disuguaglianze sociali, e fu facile
anche il riconoscimento comune del ruolo costituzionale dei partiti,
fu impossibile il rinnovamento del sistema parlamentare ereditato
dal prefascismo. Nell’accordo raggiunto alla Costituente furono
salvati gli istituti di garanzia e di autonomia, ma furono sacrificate
le esigenze di stabilità dell’esecutivo e di chiara distinzione nei
ruoli della maggioranza e della opposizione. I partiti più forti come
la Dc e il Pci evitarono di porre nella Costituzione il problema di un
governo forte. L’essenziale era che tutti i partiti esistenti nel paese
fossero rappresentati nel Parlamento, avessero gli stessi diritti e
doveri e che il Parlamento rispecchiasse fedelmente il Paese.
8
7
Petta P., Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1971), Savelli, Roma, 1975.
8
Spadolini G., Rognoni V., Beretta S., Lucani M., Muselli L., Bettinelli E., Valiani L., La
Costituzione italiana quarant’anni dopo, Giuffrè ed., Milano, 1989.
14
Lo schema di forma di governo che viene a emergere dal lavoro
della Costituente è, alla fine, quello di un governo parlamentare
razionalizzato e corretto. Razionalizzato in quanto diretto ad
introdurre alcuni elementi di stabilizzazione a favore dell’esecutivo:
questi elementi si incentrano, in particolare, nei limiti introdotti alla
sfiducia dall’art. 94 Cost. e nei poteri di direzione e coordinamento
affidati al Presidente del Consiglio dall’art. 95 Cost., ma passano
anche attraverso il riconoscimento di ampi poteri del Governo nella
normazione primaria e la disciplina dei raccordi tra Governo e
pubblica amministrazione. In più il modello è corretto dalla
presenza di forti limiti al potere della maggioranza.
9
La scelta della forma di governo parlamentare fu determinata
dalla consapevolezza dei caratteri propri del tessuto politico italiano
riemerso dalle vicende del fascismo e della guerra: un tessuto
segnato dalla complessità del suo impianto e dalla forte
contrapposizione ideologica delle sue componenti. La percezione di
questa realtà conduceva ad abbandonare in quanto utopistici quei
modelli che avevano dato buona prova in sistemi caratterizzati
dall’omogeneità, culturale e politica, della loro base sociale e dal
numero limitato dei partiti in gara. La strada che apparve fin
dall’inizio quasi obbligata fu, dunque, quella di un parlamentarismo
molto mediato, in grado cioè di garantire tutte le forze, ma anche
per quanto possibile, combinato con la presenza di governi
efficienti.
9
Cheli E., La riforma mancata. Tradizione e innovazione nella Costituzione italiana, il Mulino,
Bologna, 2000.