5
clopedia della musica edita da Garzanti, secondo il quale ormai i
cantastorie «sopravvivono sporadicamente»
1
.
L’etnomusicologia ha definito il cantastorie in base alla fun-
zione svolta all’interno di quell’immenso contenitore, dai confini
peraltro incerti, che si è soliti indicare come «cultura popolare».
Lo ha definito come il «mediatore professionale» impegnato a
scambiare materiale fra livelli culturali differenti. Come osserva
giustamente Bruno Pianta
2
, il cantastorie rappresenta, all’interno
delle categorie di esecutori della musica popolare, l’unico livello
totalmente professionistico (intendendo con professionismo il ri-
cavare sostentamento da quella professione), e quindi il più inno-
vativo; il cantastorie, annota Roberto Leydi partendo dalla consi-
derazione appena esposta
3
, è l’unico che, a differenza degli altri
esecutori popolari, operi consciamente delle varianti macroscopi-
che al materiale raccolto, prima di ritrasmetterlo, perché, a diffe-
renza degli altri, l’etica di un mestiere e le leggi di un mercato gli
impongono di proporre a un pubblico elementi di novità.
Indubbiamente l’alfabetizzazione di massa (e quindi l’accesso
di tutti gli strati della popolazione alla lettura di giornali, libri ri-
viste), la radio e la televisione hanno prodotto un calo d’interesse
per lo spettacolo cantastoriale (almeno per quel tipo di esibizione
che i presunti o sedicenti «ultimi veri cantastorie» ci hanno mo-
strato o raccontato fino agli anni Ottanta circa). Progressivamen-
te, è venuta però maturando una coscienza storica del ruolo del
cantastorie, a partire naturalmente dai demologi e dai folkloristi,
e conseguentemente sopraggiunta agli etnomusicologi. È sinto-
matico, a riprova di questo fenomeno, il fatto che lo spettacolo da
cantastorie «tradizionale» (quello che, come si vedrà, comporta
la captazione del pubblico, l’esecuzione e infine la tentata distri-
1
In Alberto Riganti, Giulia Farina (a cura di), La nuova enciclopedia della musica Garzan-
ti, Milano, Garzanti, 1996, p. 133.
2
Bruno Pianta, «Una canzonetta vi voglio cantare...» I cantastorie: la marginalità sociale e
il canto popolare; in Roberto Leydi (a cura di), Le tradizioni popolari in Italia. Canti e mu-
siche popolari, Milano, Electa, 1990, pp. 105-106.
3
Roberto Leydi, L’altra musica, Milano, Ricordi, 1991, p. 149.
6
buzione di oggetti dietro congrua offerta) sia stato sostituito, a
partire dagli anni Sessanta, dall’ingaggio vero e proprio, offerto
all’artista da enti locali, istituti etnografici, promotori di sagre
paesane e – perché no – musei.
Ciò potrebbe creare una contraddizione insanabile tra un’arte
che, proprio per la sua popolarità (sia di creatori/esecutori che di
fruitori), è in continuo movimento e la sua cristallizzazione in
formule codificate dagli studiosi che abbiano la vocazione – e la
pretesa – di salvaguardarne la memoria.
Ripercorrere storicamente e filologicamente un’arte come quel-
la cantastoriale è legittimo, ma si corre il rischio di rendere inat-
tuali gli sforzi di chi ancora opera attivamente nel settore: «farla
rivivere», quest’arte, sarebbe come a dire che è morta, ed esclu-
dere quindi conseguentemente tutti coloro che oggi, in modo ine-
vitabilmente diverso che in passato, la tramandano o sostengono
di tramandarla.
È possibile e plausibile, allora, «fare il cantastorie», oggi?
Il rischio di diventare patetiche figure anacronistiche è ovvia-
mente dietro l’angolo; ciò nonostante, esistono in Italia molti ar-
tisti che così si autodefiniscono e che svolgono ormai altre pro-
fessioni, ma non sono per questo meno «professionisti» dei loro
predecessori, dal momento che ne seguono le orme e propongono
i loro spettacoli in base allo studio di tecniche precise.
Scopo della ricerca che segue è proprio quello di verificare
l’attualità della figura cantastoriale, attraverso il percorso artisti-
co di due rappresentanti contemporanei della categoria: Pietro
Corbari e Licia Castellari.
Nell’approccio al lavoro da intraprendere, si è tenuto conto
dell’evidente difficoltà di analizzare il repertorio cantastoriale
con le prassi consolidate dell’etnomusicologia, essendo l’oggetto
di indagine, come scrive Tullia Magrini, «al di fuori dei sistemi
delineati», eterogeneo rispetto alle tradizioni musicali di trasmis-
sione orale che l’etnomusicologia si trova solitamente ad esami-
nare, per il «carattere professionale della produzione e la destina-
7
zione commerciale del prodotto sonoro»
4
. Una difficoltà peraltro
aumentata dal carattere di revival che, a volte, l’opera di Corbari
e della Castellari assume; intentendo qui per revival la riproposi-
zione, cosciente, di moduli (in questo caso cantastoriali) attuata
dai cantastorie di oggi sull’«opera» dei loro «colleghi» del passa-
to.
In una prima fase, sono state compendiate le caratteristiche sa-
lienti dell’universo cantastoriale, procedendo anche a una disa-
mina più dettagliata delle problematiche appena esposte.
L’utilizzo della saggistica sull’argomento è risultata naturalmente
determinante nello svolgimento di questo primo passo.
Si è poi proceduto, dopo una breve ma necessaria «presenta-
zione» curricolare di Pietro Corbari e Licia Castellari, alla de-
scrizione di due tra i più significativi spettacoli ideati e interpre-
tati dal duo, scelti per i precisi e illuminanti riferimenti cantasto-
riali che li informano. Ime noghe nema dobro è una sorta di viag-
gio teatrale nella memoria che, essendo uno spettacolo sul mondo
dei cantastorie, ne presenta inevitabilmente alcune caratteristiche
portanti. Gira-soli, titolo contenitore di una mutevole sequenza di
brani dalle radici eterogenee, è invece un tipico spettacolo da
cantastorie, con la canonica scansione temporale di imbonimen-
to-treppo-rottura, calato tuttavia nel presente, perfetta dimostra-
zione della plasticità astorica dei materiali utilizzati da questo
particolare mediatore di piazza.
Per la seconda fase, importante è stato l’utilizzo di materiali di
scena, appunti, scritti di vario genere, e più ancora la ricerca sul
campo, attraverso le interviste e la partecipazione agli spettacoli,
nonché la registrazione video e audio degli stessi.
Necessaria anche la verifica sull’attualizzazione di un altro
strumento tipico del cantante girovago, il foglio volante, trasfor-
mato da Pietro Corbari e Licia Castellari in testata giornalistica,
4
Tullia Magrini, Aspetti del canto monodico in Italia; in Roberto Leydi (a cura di), Guida
alla musica popolare in Italia. 1. Forme e strutture, Lucca, Libreria Musicale Italiana,
1995, p. 127.
8
pur nel mantenimento di alcune carattertistiche essenziali dei fo-
gli «storici».
In appendice, la trascrizione di testi e musiche dovrebbe con-
sentire, oltre che il necessario approfondimento di quanto esposto
durante la trattazione, la riprova di come l’antico modus operandi
possa venire abilmente piegato alle moderne esigenze, fermo re-
stando un bisogno universale ed eterno dell’umanità, che il can-
tore ambulante (di ieri e di oggi) contribuisce a soddisfare: quello
di ascoltare, elaborare e trasmettere storie.
10
CAPITOLO PRIMO
Il cantastorie: una difficile definizione
Mio padre ha cominciato a fare il cantastorie per ragioni politi-
che; era stato anche consigliere socialista al Comune di Bagna-
cavallo e durante il fascismo fu massacrato di botte dagli av-
versari politici, tanto che sembrava addirittura che dovesse mo-
rire... In conclusione, per non cedere al fascismo, andò a Faen-
za e si mise a fare il cantastorie perché sapeva cantare
5
.
Io sono nato cantastorie come diventavano “macchine agrico-
le” i bambini che nascevano in campagna. Quando io sono na-
to, invece, ho girato il mondo. Se invece di essere con una
mamma che per vicende sue, per vicende della vita, s’è trovata
ad avere un bambino... Oggi si chiamano “ragazze-madri”, a
quell’epoca questo termine non era ascoltato, perché mia
mamma non è che era andata in giro a fare la ragazza candidata
ad essere madre: si era innamorata di un romagnolo
6
.
A fare il cantastorie ho cominciato, per la verità, a 14 anni, sal-
tuariamente. Veramente io ho sentito cantare questi cantastorie:
un po’ mi ero affezionato a quel mestiere lì, ma più che altro il
fatto di essere nato un po’ sfortunato, cioè con una miopia mol-
to grossa, diciamo così, in modo che non potevo essere al pari
di un altro.
5
Alfredo Silvagni (1889-1967), soprannominato “Caserio”, nei ricordi del figlio Armando;
in Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), Ascoltate in silenzio la storia. Cantasto-
rie e poeti popolari in Romagna dalla seconda metà dell’800 a oggi, Rimini, Maggioli Edi-
tore, 1987, p. 130.
6
Racconto autobiografico di Lorenzo De Antiquis (1909-1999); in Gian Paolo Borghi,
Giorgio Vezzani (a cura di), Ascoltate in silenzio la storia. Cantastorie e poeti popolari in
Romagna dalla seconda metà dell’800 a oggi, Rimini, Maggioli Editore, 1987, p. 178.
11
Io sono stato a servizio dai contadini e, allora non era come a-
desso, l’operaio era rispettato un po’ meno [...]. Insomma io al-
lora ho cominciato un po’ a scantonare: scappavo da questi
contadini, ritornavo a casa. A casa mio padre sgridava perché
anche lui aveva ragione, era una famiglia pesante: io ero il ter-
zo e dovevo darci un aiuto invece non ce lo davo perché scap-
pavo.
E allora una buona volta mi sono detto: adesso prendo due lac-
ci, un po’ di cordicella, delle spille e vado via, vado lontano,
non voglio più fare sapere dove sono
7
.
Da queste testimonianze, peraltro concordanti con altre che è
possibile leggere all’interno della ricca letteratura saggistica
sull’argomento, si evince che è un «caso della vita», non una
scelta deliberata, la causa principale che ha spinto il cantastorie a
divenire tale.
In sostanza, la ricerca sul campo ci conferma che si diventa
cantastorie perché non c’è altra scelta, quasi che la strada fosse
segnata dal destino, più che da un’intenzione deliberata; i prota-
gonisti insistono sul carattere nomade della loro «professione»,
tanto da condurci a credere che il comune denominatore, per la
maggior parte di loro, sia la fuga: una fuga dalle persecuzioni po-
litiche, una fuga dalla miseria, una fuga dalla campagna
nell’epoca dell’inurbamento, una fuga d’amore.
La marginalità sociale, spesso esibita dagli stessi protagonisti,
è una caratteristica costante del loro stato, che condividono con la
totalità degli altri artisti di strada: contastorie, ovvero dicitori-
declamatori di narrazioni; suonatori ambulanti; poeti popolari,
circensi e – perché no – venditori, ciarlatani.
7
Giovanni Parenti (1907-1987) racconta di com’è diventato cantastorie; in Gian Paolo
Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), C’era una volta un «treppo»... Cantastorie e poeti po-
polari in Italia settentrionale dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta, vol. I, Sala Bolo-
gnese, Arnaldo Forni Editore, 1988, p. 96.
12
I cantastorie, intervistati da demologi ed etnomusicologi nel
corso nelle loro ricerche, sembrano comunque essere totalmente
consapevoli di rappresentare i continuatori di un’antica tradizione
artistica.
Chi è allora, il cantastorie?
A conferma di quanto appena detto, e restando alla definizione
che questi artisti forniscono di se stessi, oltre naturalmente a
«cantastorie» (sostantivo senz’altro codificato, anche al loro in-
terno, grazie alla costituzione dell’A.I.CA., Associazione Italiana
Cantastorie), troviamo autodefinizioni che attingono sia al mon-
do popolare coevo («suonatore ambulante», o «poeta contadino»,
secondo la definizione del bolognese Marino Piazza
8
) che a una
tradizione artistica di origine medievale («trovatore»).
È utile soffermarsi su quest’ultimo termine
9
. La letteratura sui
cantastorie, infatti, ha dichiarato più volte la possibilità che lo
spettacolo cantastoriale sia l’erede della teatralità giullaresca
prima e trobadorica poi. Se la terminologia, in proposito, non è
sufficientemente chiara, occorre d’altronde evidenziare come le
stesse denominazioni non aiutino a chiarire precise distinzioni di
ruolo neppure in riferimento alle figure artistiche medievali. Co-
me ci ricorda Luigi Allegri nel suo volume Teatro e spettacolo
nel Medioevo, la comparsa del «trovatore» avviene successiva-
mente a quella del «giullare», e in seguito ad una cosciente vo-
lontà di liberarsi di una professionalità ritenuta inferiore. Sostan-
zialmente, in origine le due figure sono pressoché similari, poi
avviene il distacco, grazie all’apporto di nobili
10
, i quali si avval-
gono tuttavia del substrato giullaresco, diventano poeti e affidano
8
In Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), C’era una volta un «treppo»... Canta-
storie e poeti popolari in Italia settentrionale dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta,
vol. I, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1988, p. 120.
9
Da considerare anche il premio, istituito dall’A.I.CA. nel 1957 e attivo fino al 1975, de-
nominato per l’appunto «Trovatore d’Italia».
10
Guglielmo IX, duca di Aquitania (1071-1126) è il primo dei trovatori conosciuti con que-
sta denominazione.
13
al giullare, ormai accasato a corte, la sola esecuzione delle loro
composizioni
11
.
Il cantastorie è dunque un artista di strada che, come vedremo
definendo le caratteristiche più ricorrenti del suo «spettacolo»,
racconta, canta, suona, recita, commercia.
Una precisa definizione di cantastorie è dunque difficile, forse
inutile. Così almeno la giudicano i diretti interessati. Restando a
Pietro Corbari, la cui opera è oggetto di questa ricerca, così si è
espresso in un’intervista concessa a Romeo Zammarchi:
mi sento un cantastorie, tuttavia non ho bisogno di un’etichetta.
C’era appunto una serie di cantastorie, definiti tali, che copriva
non solamente quel mestiere – mi viene in mente il Bartoli che
faceva anche il canapino
12
– ma, nello stesso tempo, non viene
riconosciuta come cantastorie tanta gente che ha vissuto una vi-
ta nella piazza; quindi è difficile poter dare una definizione
13
.
Corbari ha insistito sul concetto a più riprese: si legga, ad e-
sempio, quella parte dell’intervista a Simone Petricci nella quale
dichiara:
qual è il «vero» cantastorie? Qual è il «falso»? Forse è scom-
parso il professionista che campava con il solo mestiere della
piazza; ci sono tuttavia molti esempi di cantastorie, ritenuti e
accettati come tali, che facevano altri mestieri; forse poi quello
11
Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 72-79.
Sul rapporto tra giullare e cantastorie, è utile leggere Simone Petricci, Il cantastorie con-
temporaneo, ultimo erede del giullare-cantore ambulante medievale, tesi di laurea, Univer-
sità degli Studi di Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore Lia Lapini, a.a. 1992-1993.
Roberto Leydi definisce a sua volta i cantastorie come gli «eredi dei grandi cronisti cantori
dell’età medievale», in Roberto Leydi (a cura di), La piazza, Milano, Edizioni Avanti,
1959, p. 280.
12
Corbari si riferisce a Massimo Bartoli (1876-1943), poeta popolare romagnolo.
13
In Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), Ascoltate in silenzio la sto-
ria.Cantastorie e poeti popolari in Romagna dalla seconda metà dell’800 a oggi, Rimini,
Maggioli Editore, 1987, pp. 209-210.
14
del cantastorie non è neppure un lavoro. Non credo esista il
«vero» cantastorie, in senso assoluto. Per me porre la questione
in questi termini e volere essere seri è solo ridicolo
14
...
«Volere essere seri è solo ridicolo»: così Corbari si prende gio-
co, nei suoi spettacoli, di chi vorrebbe ridurre il suo «fare» a una
definizione accademica; un suo testo recita infatti
divulgatore di storie in versi
talvolta scritte da lui stesso.
Erede dell’arte degli antichi
menestrelli medievali.
Il cantastorie,
animatore di fiere e feste popolari,
è divenuto nel nostro secolo
una figura piuttosto rara.
In Italia i cantastorie
sopravvivono sporadicamente
15
.
In questo testo alberga, evidente e astuta, l’ironia di chi si sente
studiato da demologi e antropologi come un essere in via di e-
stinzione. L’arguzia della consapevolezza, esibita dal protagoni-
sta, avrà sicuramente stampato sorrisi sui volti degli spettatori.
14
Simone Petricci, Il cantastorie contemporaneo, ultimo erede del giullare-cantore ambu-
lante medievale, tesi di laurea, Università degli Studi di Siena, Facoltà di Lettere e Filoso-
fia, relatore Lia Lapini, a.a. 1992-1993, p. 157.
15
Pietro Corbari, Io sono un cantastorie (definizione dal vocabolario); in Blu blu blu blu
blu. Monologhi, canzoni e storie elaborate da Pietro Corbari, Castelfiorentino, Terzostu-
dio. Il testo è in realtà un collage di alcune espressioni tratte dalla voce «Cantastorie» pub-
blicata all’interno della Nuova enciclopedia della musica Garzanti (edizione 1996, cit.).
15
CAPITOLO SECONDO
Le fasi dello spettacolo
Gli storiografi del mondo cantastoriale, spesso osservatori sul
campo, sono concordi nel riconoscere alcune fasi tipiche dello
spettacolo di questi artisti: la creazione del treppo, il treppo,
l’imbonimento, la rottura.
Il cantastorie, che esercita di norma il suo mestiere di mercato
in mercato e di fiera in fiera, deve innanzi tutto trovare il modo di
procurarsi un pubblico (nel gergo, «fare treppo»).
Le azioni per raggiungere lo scopo possono essere molteplici: a
volte basta piazzare lo strumento, e attendere che la gente, incu-
riosita, vi si fermi attorno; altre volte il cantastorie inizia a rac-
contare, o, ancor meglio, a suonare, magari vestito di un abbi-
gliamento originale.
Sentiamo Lorenzo De Antiquis:
ogni cantastorie ha il suo modo di fare il treppo. Io, per esem-
pio, sapendo scrivere diverse cose in versi avevo un vantaggio,
di andare in un posto e raccontare quello che era successo. In-
vece Callegari Agostino metteva la fisarmonica in terra, nel
posto tradizionale dove andava [...].
Lui arrivava là a orario di mercato o prima, metteva l’armonica
in piazza e la valigia, quando andava in piazza aveva la gente
già pronta attorno
16
.
Armando Silvagni, figlio di Alfredo detto «Caserio», così rac-
conta invece la metodologia messa in opera dal padre:
16
Da una conversazione con Lorenzo De Antiquis; registrazione al magnetofono di Gian
Paolo Borghi e Giorgio Vezzani, Forlì, 6 ottobre 1979, pubblicata sulla rivista «Il cantasto-
rie», nuova serie, n. 30, 1980, pp. 3-4.
16
per «fare il treppo», cioè per chiamare la gente, aveva tanti si-
stemi: a volte suonava, a volte anche senza musica, cioè con le
parole. Quando non si avvicinava proprio nessuno, chiamava
una persona vicino a lui e gli parlava sottovoce, come per fargli
una confidenza. La curiosità degli altri scattava: veniva uno, e
poi un altro... e così via, finché riusciva a radunare diversa gen-
te
17
.
Anche Lorenzo De Antiquis ha raccontato di come Caserio riu-
scisse a fare treppo:
Silvagni delle volte aveva un mazzo di carte, che c’era un dia-
voletto con le corna, uno senza le corna... e allora se questi
clienti non avevano tanta voglia di fermarsi Silvagni, che par-
lava romagnolo: «Cosa dite, che le corna ci sono o non ci sono?
Le ha o non le ha?». E con questo discorso, cominciando a ma-
nipolare un po’ le mani, sembrava quasi che fosse scoppiato un
diverbio fra lui e l’altro. A quel punto la gente quando vede
due che litigano corre subito... e allora si formava il cerchio
18
.
Qualsiasi metodo dettato dalla fantasia è dunque ortodosso,
compreso quello, elementare, di esternare a voce spiegata l’invito:
signore e signori oggi il cantastorie ha molte cose da dirvi
19
.
17
In Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), Ascoltate in silenzio la storia. Canta-
storie e poeti popolari in Romagna dalla seconda metà dell’800 a oggi, Rimini, Maggioli
Editore, 1987, p. 131.
18
In Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), Ascoltate in silenzio la storia. Canta-
storie e poeti popolari in Romagna dalla seconda metà dell’800 a oggi, Rimini, Maggioli
Editore, 1987, p. 137.
19
Giovanni Parenti. Trascrizione di un treppo tenuto a Reggio Emilia nel 1964. In Gian Pa-
olo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), C’era una volta un «treppo»... Cantastorie e poeti
popolari in Italia settentrionale dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta, vol. I, Sala Bo-
lognese, Arnaldo Forni Editore, 1988, p. 145.
17
Una volta radunata la gente, comincia lo spettacolo vero e pro-
prio
20
, che si costituisce di narrazione e canto
21
.
Più avanti, esporrò un compendio tematico dei principali ar-
gomenti trattati dalle composizioni cantastoriali.
Per il momento, giova concentrare l’attenzione sull’esigenza,
sempre presente, di tenere il treppo, cioè di fare in modo che la
gente che segue lo spettacolo si trattenga finché questo non sia
terminato. Spesso l’esecuzione di una canzone viene dunque pro-
crastinata, poi magari non viene eseguita affatto... Usuale è anche
interrompere il canto per commentare, facendo pure intervenire il
pubblico.
Come osserva Tullia Magrini, il repertorio cantastoriale è così
diverso dagli altri repertori riscontrati nel canto monodico
d’interesse etnomusicologico, e in particolare dalla ballata di for-
te connotazione femminile, proprio perché nasce e si sviluppa per
motivi «professionali», essendo
l’unico esempio (e un prototipo) della musica di consumo nel
mondo popolare
22
.
La narrazione stessa del cantastorie assume inevitabilmente un
carattere «soggettivo ed enfatico», indispensabile al «coinvolgi-
mento emotivo degli spettatori»
23
, alla tenuta del treppo e quindi
alla vendita di prodotti.
20
Occorre precisare che, nel gergo dei cantastorie, «treppo» indica sia lo spettacolo che la
gente disposta in cerchio attorno all’artista.
21
Lo strumento musicale più ricorrente è la fisarmonica, ma non ci sono limitazioni in que-
sto senso; l’organologia cantastoriale comprende perciò moltissimi altri strumenti. È facile,
anche scorrendo l’iconografia fotografica degli ultimi sessanta-settant’anni, individuare chi-
tarra, clarinetti, mandolini, megafoni, batterie, violini, sassofoni, percussioni, nonché stru-
menti di nuova invenzione.
22
Tullia Magrini, Aspetti del canto monodico in Italia; in Roberto Leydi (a cura di), Guida
alla musica popolare in Italia. 1. Forme e strutture, Lucca, Libreria Musicale Italiana,
1995, p. 127.
23
Tullia Magrini, Aspetti del canto monodico in Italia; in Roberto Leydi (a cura di), Guida
alla musica popolare in Italia. 1. Forme e strutture, Lucca, Libreria Musicale Italiana,
18
Per questo l’imbonimento riveste un’importanza strategica
fondamentale all’interno dello spettacolo. L’imbonimento è l’arte
di sedurre gli spettatori attraverso tecniche accorte (anche se im-
parate dalla pratica vita di strada e non da una scuola teatrale or-
ganizzata) per indurli ad ascoltare e ad acquistare.
In questo senso, il cantastorie imbonisce il suo pubblico di po-
tenziali clienti durante tutto lo spettacolo. I perentori inviti
all’acquisto della merce (foglio volante, spesso illustrato, con i
testi delle canzoni e delle «storie»; lamette da barba; ocarine;
penne biro; e, in tempi più recenti, dischi e musicassette) possono
giungere all’uditorio addirittura ad inizio treppo:
pronto, signori, pronto pronto... venite un po’ avanti ragazzi,
venite un po’ avanti che passa le macchine, venite pure avanti.
Pronto, signori iniziamo con un valzerino, fisarmonica e clari-
no, dopo faremo sentire anche l’ocarina, ci siamo tanti articoli
belli, sapete che per la fiera ci vuol sempre qualche cosa, la fie-
ra è bella quando si porta a casa un ricordo, si porta a casa un
regalino, per i bambini, per la casa
24
.
Il carattere essenziale che il cantastorie dà alla vendita è quello
dell’offerta: l’acquirente non deve pensare di comprare, ma di
compiere un gesto di solidarietà.
Il vanto della merce può avvenire in perfetta simbiosi con
l’autocertificazione della propria autenticità artistica, e poco im-
porta che si tratti di menzogne in entrambi i casi.
I treppi di Adriano Callegari ci forniscono un esempio lampan-
te di come la credibilità degli oggetti da vendere e la propria si
1995, p. 128. Sullo stesso argomento, consultare anche Tullia Magrini, Universi sonori. In-
troduzione all’etnomusicologia, Torino, Einaudi, 2002, pp. 134, 135, 219.
24
Marino Piazza (1909-1993). Trascrizione del treppo alla fiera di Sassuolo, 13 ottobre
1968. In Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), C’era una volta un «treppo»...
Cantastorie e poeti popolari in Italia settentrionale dalla fine dell’Ottocento agli anni Ot-
tanta, vol. I, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1988, p. 147.
19
fondano in un unico tentativo di convincere il pubblico, soste-
nendosi le argomentazioni l’una con l’altra.
Nell’imbonimento del «cofano di Papa Giovanni», la merce,
addirittura miracolosa, consiste in una scatoletta in plastica con-
tenente, ben visibile grazie al coperchio trasparente, una riprodu-
zione a stampa del ritratto di Giovanni XXIII e, adagiato su un
pezzetto di cotone imbevuto dall’acqua santa di Lourdes, il «col-
lier» della madonna (una catenina con medaglietta).
La presentazione di una fotografia (forse vera, forse un foto-
montaggio) che lo ritrae con Luciano Tajoli, cantante di fama, te-
stimonia, a un tempo, la sua levatura artistica e la sua onestà
d’uomo; la quadratura del cerchio è ottenuta vantando la compo-
sizione di una «preghiera religiosa», scritta dallo stesso Callegari
e cantata da Tajoli a Lourdes
25
.
Il momento clou dello spettacolo è la rottura, quando, verso la
fine dell’esibizione, il cerchio di spettatori è invitato a stringersi,
grazie a nuovi stratagemmi di piazza elaborati dal cantastorie
26
: è
il momento della questua finale, o della vendita, e del congedo.
25
Adriano Callegari (1921-1992) fa parte della compagnia dei cantastorie pavesi.
L’imbonimento del cofano di Papa Giovanni è leggibile, trascritto, in almeno due versioni:
la prima si trova in Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), C’era una volta un
«treppo»... Cantastorie e poeti popolari in Italia settentrionale dalla fine dell’Ottocento a-
gli anni Ottanta, vol. II, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1988, pp. 178-182, ed è
stata eseguita alla fiera di San Geminiano di Modena nel 1967; la seconda, invece, è conte-
nuta nel saggio di Riccardo Grazioli dal titolo Uno spettacolo dei «Cantastorie di Pavia»,
in Roberto Leydi, Bruno Pianta, Angelo Stella (a cura di), Pavia e il suo territorio, Milano,
Silvana Editoriale, 1990, pp. 704-728, e riguarda un treppo che il gruppo pavese effettuò il
21 luglio 1974 a Milano. Può essere utile precisare che il pontificato di Giovanni XXIII co-
pre l’arco temporale che va dal 1958 al 1963 e Luciano Tajoli (1920-1996) era stato colpito
da poliomielite all’età di un anno, sfortunato evento che Callegari sa sfruttare abilmente nel
suo «discorso» modenese: «io non so se voi lo sapete, ma il cantante Luciano Tajoli cam-
mina con due bastoni. [...] Paralisi infantile a un anno. Tajoli è uno dei più grandi ammira-
tori di questo Santuario» (in Gian Paolo Borghi, Giorgio Vezzani (a cura di), C’era una
volta un «treppo»... Cantastorie e poeti popolari in Italia settentrionale dalla fine
dell’Ottocento agli anni Ottanta, vol. II, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1988, pp.
179-180).
26
Callegari posa a terra una scatola dicendo che vuole mostrare dei topolini ammaestrati,
che in realtà non ci sono; così facendo, costringe le persone in prima fila ad avvicinarsi per
vedere meglio, anche in virtù degli spettatori che, dietro, li spingono per avanzare in modo
da poter assistere anche loro all’«esibizione».