2
economica, soprattutto del sud Europa, era disastrosa: i contributi previsti dal
piano Marshall non bastavano a riassestare le economie già impoverite dall’assenza
di uomini e di capitali persi con i conflitti e neanche bastavano a dissuadere
famiglie dal non lasciare la propria terra. Pur di non vivere in condizioni inumane
all’indomani del secondo conflitto, molti preferirono abbandonare “famiglia e
campanile” e partire con i pochi averi alla volta dell’America e dei paesi del Nord
Europa
3
. La storia soprattutto del sud Italia è intrisa di racconti familiari di nonni e
familiari che hanno lasciato il loro piccolo appezzamento di terreno per andare a
trovare la fortuna. Molti decisero di trasferirsi oltreoceano, mentre per tanti altri
connazionali le mete furono Germania, Francia, Olanda, Svizzera…Questo perché,
fin dall’immediato dopoguerra, il Nord Europa ha conosciuto una notevole
espansione economica, con piena occupazione e carenza di manodopera autoctona;
quindi molti governi sono ricorsi al reclutamento di lavoratori dell’area del bacino
del Mediterraneo: italiani, spagnoli, portoghesi e greci partirono quindi alla volta
del nord. Per molti si è trattato solo di pochi anni vissuti lontano dalla propria
famiglia, mentre per altri è cominciato un processo inverso di ricongiungimento
familiare che ha trasformato la migrazione temporanea in vero e proprio
stanziamento. All’inizio degli anni Settanta, a causa della crisi petrolifera, quegli
stessi paesi che avevano aperto le frontiere perché bisognosi di manodopera a
basso costo, hanno adottato una politica che fermava l’ingresso di immigrati. Con
gli anni Ottanta, altri avvenimenti di rilevanza mondiale quali la caduta del muro di
Berlino e le successive trasformazioni dell’Est europeo, la guerra nella ex-
Yugoslavia, la crisi dell’area del Golfo e le guerre civili africane che fin dagli anni
Sessanta hanno causato morti e miseria, hanno provocato lo spostamento di
migliaia e migliaia di persone. Le politiche dei paesi dell’Europa settentrionale sono
diventate sempre più rigide e le migrazioni si sono così rivolte verso quei paesi del
sud Europa che non avevano una così rigida presa di posizione a riguardo. E’ come
se la linea immaginaria che prima era tra Europa del Nord ed Europa del Sud si
fosse abbassata: ora e’ l’Europa del bacino del mediterraneo ad essere “vecchia”
3
REYNERI, E. La catena migratoria, Bologna, Il Mulino, 1983, p.36.
3
con tassi di natalità molto bassi, mentre dall’altra sponda del Mediterraneo si assiste
ad un momento di forte crescita; c’è stato inoltre, negli ultimi decenni, un rilevante
sviluppo economico che ha investito il sud e che lo ha reso agli occhi degli altri
paesi del sud del mondo, ricco e prospero
4
. Paesi della costa nord del mediterraneo
hanno incominciato ad avere bisogno di lavoratori stagionali, di manodopera a
prezzi bassi che fosse mobile e facilmente adattabile alle richieste di mercato più
diversificate. Per questo motivo molte persone hanno incominciato ad affluire al
sud Europa dall’Africa settentrionale, ma ancora dalle Filippine, dal Sud America e
dall’area dell’Est. Il bacino del mediterraneo è così passato dall’essere considerato
area ad alta percentuale di emigrazione a zona di forte immigrazione. Pur
conoscendo uno stop nelle attuali politiche migratorie, i paesi di vecchia
immigrazione sono connotati dalla pluralità di etnie: oggi la Germania accoglie il
40% del totale degli stranieri presenti in Europa (7 000 000), la Francia il 20% (3
500 000) e il Regno Unito il 12% (2 000 000)
5
. Soprattutto in questi ultimi anni
l’Europa sta cercando di affrontare il problema in quanto Comunità, non lasciando
più la questione solo in mano ai singoli governi. Guardando alle previsioni per il
più prossimo futuro, ci si rende conto il continente in cui viviamo ha “bisogno”
dell’immigrazione: il crollo delle nascite da un lato, l’allungamento della vita media
e l’aumento delle popolazioni nei paesi dell’Africa settentrionale dall’altro, rendono
consapevole l’Europa della necessità di nuove leve. Stime dell’Ufficio di Indagini
Statistiche della Comunità Europea (Eurostat) per il 2050 vedono la popolazione
invecchiare sensibilmente, arrivando ad avere un 34%di persone con più di 60 anni,
contro il 21% di quelle che abbiamo oggi riferendoci alla stessa fascia d’età
6
; in
quest’ottica diventa indispensabile una politica di immigrazione capace di ospitare e
accogliere più persone e che, in primo luogo, si renda conto del bisogno di
integrarli nelle nostre società. Importante è quindi superare una visione puramente
assistenziale del fenomeno e dovere dell’Europa è accogliere l’altro considerandolo
una risorsa. Proprio perché l’altro è davanti a noi e bussa sempre più
4
Caritas, Dossier statistico immigrazione 2000, Nuova Anterem, Roma, 2001.
5
Provveditorato agli studi di Verona, Centro Tante Tinte, Culture, scuola e società, Verona, 1998, cit., p.56.
6
www.europa.eu.int/comm/eurostat/
4
insistentemente alle nostre porte va integrato secondo un processo che veda
coinvolti tutti, migranti e autoctoni, Europa e governi locali, istituzioni pubbliche e
private. Il pubblico, negli stati democratici e nelle Repubbliche europee, è chiamato
prima di ogni altro a saper dare delle risposte: per questo le istituzioni diventano
così importanti davanti alle problematiche quale può essere l’immigrazione. Le
agenzie del pubblico devono adottare delle linee guida e saper accogliere e
integrare. Tra queste, un’importante posizione è ricoperta dalla scuola il cui ruolo è
duplice: non solo essa deve sapere accogliere e inserire nella società i bambini che
arrivano da paesi diversi, ma deve saper farli crescere in una prospettiva
interculturale, deve formarli rendendoli cittadini non solo del paese che li accoglie,
non solo europei, ma veri e propri “cittadini del mondo”
7
. Lo stesso discorso vale
per i bambini autoctoni, che devono crescere con l’idea della normalità della
prospettiva interculturale.
Ed è stata proprio la scuola, in passato come del resto accade ancora oggi, a
“fare da cartina tornasole”
8
dell’efficacia dei modelli di integrazione adottati: l’alta
concentrazione in alcune zone-ghetto delle grandi città, le alte percentuali di
abbandoni scolastici tra le fila degli immigrati, la bassa frequenza, hanno fatto in
modo che l’istituzione scuola prima, e la società poi si interrogassero e guardassero
ai limiti delle politiche attuate. Importante è guardare ai modelli del passato e
capirne i limiti, per poter fare in modo di coglierne gli errori e gli aspetti positivi;
per questo nella trattazione l’attenzione va sempre a Francia, Germania e Gran
Bretagna, i paesi (insieme a Olanda, Belgio, Svizzera…) considerati di vecchia
immigrazione, che ancora oggi possono essere considerati pluriculturali e che per
primi hanno adottato dei modelli di integrazione. Inoltre ritengo che da un
confronto con i paesi che non possiamo più considerare solo come vicini, ma che
appartengono, insieme al nostro, ad una più ampia Comunità Europea, possano
nascere buone soluzioni per il fenomeno immigrazione. Per questo nel mio lavoro
si cerca di guardare ai modelli d’integrazione proposti in passato da questi paesi,
passando dalle politiche generali a quelle che riguardano da vicino l’istituzione
7
SANTERINI, M Cittadini del mondo. Educazione alle relazioni interculturali, La Scuola, Brescia, 1994.
8
ZINCONE, G. Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001, cit., p.243.
5
scolastica. Sempre considerando l’importanza, oggi più che mai, di uno studio
comparato a livello europeo, si analizzano le politiche e i modelli di integrazione
adottati in alcuni paesi europei e di questi si approfondisce la riflessione sulle
politiche scolastiche rispetto all’integrazione degli alunni stranieri.
Nel primo capitolo ho ritenuto necessario guardare in primo luogo alle
persone, ai bambini che bussano alle porte d’Europa. Vedremo poi come possono
esistere motivi molto diversi tra loro che spingono le persone a migrare, a lasciare il
proprio paese e la famiglia, nonché casa, abitudini e vita quotidiana;
paradossalmente sembra che queste persone non abbiano nulla in comune tra loro.
Invece credo che, al di là di religione, colore della pelle, paese di provenienza un
comune denominatore ci sia, e si chiami semplicemente, ma mai banalmente,
“cercare di stare meglio”: vorrei che tutta la mia trattazione, che analizzerà studi e
ricerche, progetti e terminologia, fosse letta tenendo presente questo denominatore.
Sempre in linea con il bisogno di guardare chi stia bussando alle nostre porte, ho
cercato di definire chi sia l’alunno straniero: considerare il suo vissuto psicologico,
l’esperienza di viaggio, i motivi della migrazione sono elementi importanti per
poterlo accogliere in maniera adeguata. Ho analizzato di seguito cosa significhi
integrazione oggi, e quali siano stati i fenomeni migratori conosciuti da Germania,
Francia e Gran Bretagna: basilare come punto di partenza è stato guardare a quali
siano stati i modelli d’integrazione adottati durante la seconda metà del secolo
scorso non solo a livello socio-politico ma anche scolastico.
Nel secondo capitolo, quindi, ho ritenuto necessario analizzare la normativa
internazionale e nazionale centrata in particolar modo sulla figura del bambino,
prima analizzandola da un punto di vista generale e in seguito rispetto alla peculiare
condizione del bambino migrante. In questo modo si cerca di dare il quadro di
riferimento entro cui il bambino straniero e la scuola si sono mossi in passato e
continuano a farlo nel presente. Anche in questo caso, mi è sembrato importante
analizzare i sistemi normativi di Francia, Gran Bretagna e Germania, paragonandoli
con quello italiano, per vedere come i vari modelli d’integrazione siano stati letti
dalla normativa e quale sia stato il ruolo della scuola. Particolare attenzione è data
6
alla Comunità europea: la normativa che sta cambiando negli ultimi anni va letta,
infatti, non più solo all’interno di quadri nazionali, ma in base ad una prospettiva
europea. La scolarizzazione dei minori immigrati è stata una problematica recepita
dall’Europa fin dal 1977: considero interessante vedere come la direttiva n°486 di
quell’anno sia stata accolta dai sistemi scolastici nazionali e quali progressi siano stati
fatti dagli singoli paesi e dall’Europa nella normativa di questi trent’anni. Per ciò che
riguarda l’Italia, l’attenzione è posta sulle varie Circolare Ministeriali che si sono
susseguite in particolar modo negli ultimi anni arrivando a delineare uno strumento
importante quale il “protocollo d’accoglienza”, che è nato proprio prendendo
spunto dalla normativa.
Nel terzo capitolo affronto più da vicino i problemi che bambini di diverse
nazionalità incontrano nelle scuole di qualsiasi nazione. L’apprendimento della
lingua del paese d’accoglienza e l’insegnamento parallelo di quella d’origine sono
tematiche che da sempre accompagnano la scolarizzazione dei bambini immigrati:
dibattiti su quanto sia importante imparare la lingua seconda e quale sia il modo più
proficuo per insegnarla, hanno segnato (e continuano a farlo) gli studi in questo
campo. Per questo, nella prima parte del capitolo, analizzo quale sia la terminologia
usata e di seguito, quale sia il dibattito presente nella letteratura scientifica che tratta
dell’insegnamento della lingua seconda. Spostando l’attenzione all’interno della
classe, prendo in considerazione quali siano state le soluzioni adottate dai sistemi
scolastici dei paesi di vecchia immigrazione e dell’Italia, analizzando in seguito due
progetti europei (Children Immigration Project e Socrates Me Too) che hanno al centro dei
loro obiettivi la formazione di persone plurilingue. A conclusione del capitolo cerco
di osservo rapidamente la problematica dell’insegnamento della lingua d’origine
ponendomi da punto di vista “interno”, ovvero guardando all’apprendimento della
lingua seconda vista dagli alunni italiani all’estero (nello specifico in Germania).
Nel quarto capitolo esamino il profilo di una nuova figura che, da alcuni anni,
sta lavorando per l’integrazione degli immigrati nelle società e che sta entrando
sempre con maggior peso nel panorama scolastico: il mediatore culturale.
Guardando alla nascita di quest’ultimo come figura in campo penale e familiare,
7
approfondisco quali siano le sue funzioni nel lavoro con gli immigrati,
soffermandomi su quale ruolo occupi in ambito scolastico. Passando attraverso la
formazione del mediatore in Europa e le esperienze dei paesi di vecchia
immigrazione, allargo lo sguardo a quali siano le politiche di mediazione nel nord e
sud Europa. A conclusione di questa panoramica analizzo un caso - un mediatore
somalo in una scuola finlandese che ho avuto la fortuna di conoscere e vedere in
azione - che considero come rappresentativo di molte situazioni: il mediatore, fino
ad oggi, è nato per necessità e sono stati gli immigrati stessi a porsi come tali, senza
peraltro, che nessuno li chiamasse mediatori o figure ponte. Il passaggio che stiamo
quindi vivendo in questi anni è proprio quello dell’istituzione di questa figura e della
sua comparsa nella normativa italiana ed europea; su questa linea si stanno
muovendo università e associazioni dando il via a corsi di laurea che parlano di
mediazione e preparano i nuovi educatori ad avere a che fare con la mediazione
socio-culturale. Sempre per ciò che riguarda l’area dei progetti, analizzo cosa
significhi oggi “lavoro di rete in prospettiva europea” e soprattutto quali siano i suoi
sviluppi nel sociale e in particolare nella scuola. Tramite l’analisi del progetto
DIECEC come progetto a raggio europeo e dell’approccio integrato multilivello,
chiudo il lavoro.
8
1. Chi bussa alla porta?
Chi bussa oggi alle porte d’Europa? A questa semplice domanda sono sottesi
molti interrogativi non di certo banali: chi è la persona o la famiglia che bussa? Da
dove viene? La persona che si muove oggi è simile o no a quella che emigrava ieri?
In tal caso molti aspetti risulterebbero più semplici, perché si guarderebbe alle
risposte date in passato, semplicemente cercando di non compiere determinati
errori. Perché ancora oggi arrivano tante persone nei paesi dell’Europa occidentale?
Soprattutto, sono gli stati europei, e in particolare l’Italia, pronti ad aprire la porta?
Con quali modalità?
Le persone che bussano alle porte d’Europa sono oggigiorno diverse migliaia:
basti pensare che nel solo 2000, la rete di migrazione ha potuto registrare all’incirca
816 000 persone entrati nella Comunità
1
, andando a consolidare una cifra
abbastanza costante da qualche anno a questa parte. Il numero delle persone che
acquisiscono la cittadinanza europea è in forte crescita arrivando a moltiplicarsi dal
1988 a oggi e contando dal 1994 una cifra minima di 300 000 persone.
Ma un fenomeno che lascia ancora più attoniti riguarda coloro che bussano, e
che bussando, perdono la vita alle porte dell’Europa sono oggi tante: come si può
leggere dal testo della Conferenza sulla Popolazione Europea 2001
2
circa duemila
persone sono morte tra il 1993 e il 2000 cercando di entrare nell’Europa
“fortezza”.
Sempre più spesso si sente parlare di Europa come di una fortezza: questo è
dovuto alle misure adottate dalla Comunità in materia di immigrazione. Si è
salvaguardata infatti la libera circolazione di persone e beni all’interno dei confini
europei cercando di agevolarne la mobilità attraverso l’Accordo di Schengen
3
e il
Trattato di Amsterdam, ma si è cercato sempre più di chiudere i bordi esterni,
annoverando tra le diverse motivazioni cause di tipo economico e sociale.
1
www.europa.eu.int/comm/eurostat/
2
European Population Conference, Helsinki, 7-9 June 2001, The Social and Economic Dimension of Migration in
Europe.
3
Accordo di Schengen, 14 giugno 1985, ratificato in Italia con L. 388 del 30 settembre 1993.
9
1.1 Il volto del migrante: differenze dell’immigrato di oggi con quello di ieri:
Ho usato appositamente nel titolo due termini diversi: migrante ed immigrato,
due espressioni che usiamo sempre più spesso in questi anni in cui assistiamo a
notevoli flussi di persone che si spostano, che lasciano le proprie terre e che
provengono da paesi lontani: una lontananza che non è tale solo per i chilometri
che dividono le terre in cui sono nati da quelle dell’Europa, ma che si percepisce
anche a livello culturale e sociale.
Un primo passo nell’approccio alla problematica immigrazione, consiste nel
fare chiarezza sui termini che denominano l’attore di questi flussi che arriva nei
paesi dell’Europa; spesso questi termini non sono usati casualmente, ma rivelano
politiche statali in materia di immigrazione e integrazione.
La differenza tra emigrato e immigrante è abbastanza chiara, e fa riferimento a
due prospettive diverse rispetto al paese preso in considerazione: l’emigrante è
colui che lascia il proprio paese, mentre l’immigrato colui che giunge in un paese
non suo.
La distinzione invece tra migrante e immigrato non è così immediata come la
precedente perché si rifà a fasi diverse del percorso migratorio: la persona che
migra è in generale quella che si sposta, e che solo quando decide di risiedere
stabilmente in un dato paese diverso da quello di origine diventa immigrato. La
difficoltà che sorge è che molti migranti decidono di diventare immigrati e al
contrario diversi immigrati non riescono a stabilizzarsi malgrado le intenzioni. Ciò
che più è importante a livello terminologico, sottolinea la Campani
4
, è che spesso la
posizione dell’immigrato diventa eterna, e ostacola così un passaggio
importantissimo, che è quello da immigrato a cittadino. Utilizzare sempre la
denominazione immigrato per chi è residente stabile in un certo paese, eternizza un
evento biografico, quello della migrazione che in realtà è avvenuta nell’arco al
massimo di qualche giorno. Questa accezione del termine fa “rimanere” immigrati
anche coloro che risiedono da anni nello stesso paese e hanno ottenuto la
4
CAMPANI, G. Genere, etnia e classe, ed.ETS, Pisa, 2000, cit., p.18.
10
nazionalità e quindi il “diritto” di dirsi italiani piuttosto che svedesi o greci. Perché
immigrato non è più semplicemente la persona che diversi anni fa decise di
spostarsi e abitare in un altro paese, ma diventa una condizione d’essere per
moltissime persone.
Andando a vedere la questione terminologica a livello europeo, possiamo
notare come per esempio in Francia il termine immigrato era usato, fino a ieri, per
indicare una condizione provvisoria, in vista di una completa assimilazione e non
per un passaggio alla condizione di cittadino. In Inghilterra si parla invece più
facilmente di minoranze, mentre in Germania ci si riferisce agli immigrati sempre
con il termine generico di straniero, come se in un certo senso si omettesse la
decisione di abitare sul territorio tedesco. Secondo Annette Goldberg
5
che, nel
libro della Campani, analizza la condizione delle donne immigrate in Francia, il
termine che più sarebbe appropriato è quello di femmes en migrations perché l’idea che
dà il termine “migrare” si rifà a spostamenti più ampi e dinamici, che ben si
sposano con la realtà che l’identità stessa sia migrante tra due o più culture. Inoltre
questo “essere nelle migrazioni” rende bene l’idea di vivere lo spostamento al di là
del fatto che sia la persona stessa a spostarsi e cambiare paese piuttosto che un suo
familiare: quante donne e bambini, per esempio, vivono all’interno di realtà di
migrazioni dei loro mariti e padri, che cambiano la loro vita e che li fanno vivere tra
due culture.
L’Unione Europea è composta da circa 378 milioni di cittadini, e tra questi
possiamo contare 18 milioni di immigrati di cui tre comunitari, solo guardando alle
stime ufficiali legali. Sul territorio europeo sono presenti, inoltre, un’importante
pluralità linguistica e religiosa, che configura l’Europa come mosaico culturale
6
.
Il punto di partenza per poter parlare di qualsiasi tematica correlata
all’immigrazione è l’analisi della figura dell’immigrato di oggi: perché conoscere chi
abbiamo di fronte è essenziale per poterlo accogliere. L’accoglienza dell’altro si
deve basare su chi egli è, su che cosa chiede, sui suoi bisogni. Importante
5
CAMPANI, G. Genere, etnia e classe (2000), cit., p. 22.
6
MUÑOZ SEDANO A. Inmigración y educación en España, in GERVILLA E. (a cura di) Globalización,
inmigración y educación”, Universidad de Granada, 2002.
11
soprattutto per gli operatori è sapere chi è l’altro, di quale identità sia portatore, da
quale cultura provenga, le sue usanze e la sua religione. Nel caso in cui non ci si
ponesse il problema di rispondere a questi interrogativi, si rischierebbe di lasciare
l’altro completante solo, in una situazione che come possiamo umilmente
immaginare è difficile di per sé.
Ci sono diversi motivi per emigrare, e risalendo al perché una persona lascia la
sua terra scopriamo come spesso sia il motivo stesso per cui si migra che crea una
tipologia di immigrato: ci si trova così all’interno di denominazioni che non
possiamo fare a meno di evitare, perché a una certa tipologia di immigrato
corrisponde una data legislazione.
C’è chi lascia il proprio paese perché perseguitato politicamente, o per motivi
religiosi e quindi parliamo di rifugiato
7
politico, o di richiedente asilo se la sua
domanda per essere considerato rifugiato è ancora in iter burocratico. C’è poi chi
emigra perché il suo popolo è in guerra, e anche qui è importante sapere se i paesi
europei in questo caso riconoscono quelle persone come rifugiati di guerra o meno.
Ci sono immigrati che hanno bisogno di una particolare protezione dal punto di
vista legislativo e i paesi altri hanno il dovere di proteggerli.
C’è il clandestino, che passa i confini di uno stato in modo illegale e che per
questo motivo è a rischio di espulsione da un momento all’altro: quella dei
clandestini è una fascia di persone “a rischio” perché non è controllabile, non
rientra sotto la tutela dello stato e difficilmente si rivolge ai servizi, perché possibile
via per essere scoperti e rimandati nel paese di provenienza.
C’è inoltre l’irregolare che è colui che risiede in un paese senza permesso di
soggiorno. Solo apparentemente questa figura è simile a quella del clandestino,
perché l’irregolare può, per esempio, essere rimasto nel paese dopo la scadenza del
visto, e quindi vivere in una situazione di “irregolarità” ma non ha passato
7
«È rifugiato colui che, temendo a ragione d'essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,
appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori del paese di cui è
cittadino e non possa, o non voglia, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo; oppure
colui che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del paese in cui aveva la residenza abituale, non
possa o non voglia tornarvi per il timore di cui sopra» (art. 1, Convenzione di Ginevra, 1951).
12
illegalmente i confini dello stato e quindi la sua posizione è considerata meno
grave.
Tutte queste differenze sono importanti non solo perché pongono gli immigrati
davanti alla legge del paese d’accoglienza in posizioni diverse, ma i vissuti personali
di ciascuna singolo cambiano notevolmente se una persona è obbligata a scappare
in ogni situazione o se può sperare, per esempio, in una sanatoria
8
.
La struttura dell’immigrazione, in Europa, varia da paese a paese e varia,
all’interno di questi, da regione a regione. Vi sono nazioni con percentuali
relativamente basse di immigrazioni, oppure stati che hanno una notevole
concentrazione di immigrati solo in alcune città e altri che hanno un notevole tasso
di presenze anche nei piccoli centri.
Oggigiorno non esiste più una sola tipologia di migrante come era del resto
più facile individuare in passato
9
: oggi le persone che scelgono di trasferirsi si
rifanno a modelli diversi di migranti, soprattutto per quel che riguarda l’afflusso di
persone nei paesi del sud Europa. Tuttavia ci sono degli aspetti comuni riguardanti
i movimenti migratori attuali che li differenziano da quelli di ieri: primo fra tutti è
da sottolineare il declino del ruolo trainante dell’industria quale attore di attivazione
della domanda di lavoro. In passato
10
, negli anni delle migrazioni richiamate dallo
sviluppo industriale, gli immigrati, pur collocandosi nella fascia più bassa della scala
occupazionale, rientravano in gran parte nelle occupazioni della fascia primaria,
cioè dell’industria: ora invece la collocazione nel mercato secondario sembra essere
caratteristica comune, accompagnata generalmente dalle condizioni di lavoro
precarie e instabili che essa comporta..
La migrazione in passato si configurava come prettamente lavorativa, come si
può notare guardando per esempio alla Germania, in cui il termine usato per
indicare gli immigrati del secondo dopoguerra era gastarbeiter, che significa
8
La sanatoria è la rinuncia da parte di un paese a perseguire le situazioni irregolari, dichiarandole legittime.
Nel caso dell’immigrazione la sanatoria consiste nella regolarizzazione della posizione di stranieri presenti
illegalmente in uno stato, prevedendo altresì il diritto di residenza. Importanti sanatorie si sono verificate in
Francia nel 1981in Spagna nel 1985-86 e nel 1991, in Italia nel 1990 (legge Martelli).
9
AA.VV. La inmigración extranjera en España- Los retos educativos, Fundación “la Caixa”, Barcelona, 1999,
cit.,p.11.
10
PUGLIESE E. (a cura di) Rapporto immigrazione. Lavoro, società, sindacato, Ediesse, Roma, 2000.
13
lavoratore ospite. Oggi, malgrado il lavoro sia ancora la “molla” di molte
esperienze di migrazione, vi sono anche diverse ragioni che inducono a lasciare il
proprio paese.
In secondo luogo, dagli odierni dati statistici riguardo al genere della
popolazione immigrata, riferiti a più paesi europei, si può leggere che le donne
stanno superando in unità il numero dei migranti maschi, soprattutto se
provenienti da certe aree come l’Est europeo, le Filippine, l’America del Sud. L’area
del terziario, dei servizi alla persona richiede sempre più lavoratrici, ma non solo
per quello che riguarda i paesi del sud Europa: anche in Germania infatti, i flussi
provenienti dalla Polonia sono fortemente femminilizzati.
Tra i motivi che portano gli individui a spostarsi e a lasciare la propria terra
natia, abbiamo tra i primi posti il ricongiungimento familiare: mentre in passato
l’uomo cercava di non stare lontano dalla propria famiglia per troppo tempo, ed era
lui a tornare dopo qualche anno al paese di provenienza dove la famiglia lo
aspettava, oggi la situazione è fortemente cambiata. Se prima il ricongiungimento
avveniva, era solo in un’ultima fase del progetto migratorio dell’uomo, quando non
vi erano possibilità di ritorno a casa, o comunque si era già deciso di rimanere in
forma stabile nel paese d’accoglienza. I tratti caratteristici dell’emigrazione degli
anni del dopoguerra si possono riassumere in una frase di Reyneri
11
: “Giovani,
maschi, lavoratori, celibi o comunque non accompagnati dal coniuge”. Le donne
solitamente rimanevano a casa con i bambini, occupandosi di forme di agricoltura
di sussistenza
Infine non abbiamo più così frequentemente come in passato una persona che
ci sposta dall’area rurale per andare a raggiungere centri urbani del proprio stato o
di un altro per trovare un lavoro. Basti veder per esempio coloro che arrivano nel
Sud Europa per i lavori stagionali legati all’agricoltura, o coloro che decidono di
stabilirsi in piccoli centri dell’Italia del nord est famosi per le loro concerie.
11
REYNERI, E. La catena migratoria, Il Mulino, Bologna, 1983, cit., p.36.
14
La fase attuale è caratterizzata dall’aumento del numero dei rifugiati e delle
migrazioni clandestine nella globalizzazione dei flussi
12
.Secondo la suddivisione di Hans van Amersfoort
13
,se fino al 1975 le misure
adottate dai singoli paesi in materia di immigrazione erano misure per regolare un
fenomeno temporaneo, si è poi passati ad avere nelle legislazioni un’accoglienza di
immigrati permanenti considerandoli un fenomeno limitato; dal 1990 ad oggi,
invece, la fase che i governi hanno dovuto affrontare è quella della “crisi dei
richiedenti asilo”.
Molte persone sono entrate in Europa dall’Est o dal Terzo Mondo richiedendo
l’asilo per motivi politici o religiosi, anche perché dopo le politiche di stop ai flussi
migratori attuate da parte di molti paesi, il passare come rifugiati è uno dei pochi
mezzi per poter entrare negli stati legalmente. Ci sono comunque (forse oggi più di
ieri) tante persone che emigrano a causa delle guerre, e che provengono dalle fasce
più marginalizzate e povere della società, ma come possiamo leggere in diversi
autori
14
, oggi migrano sempre di più persone con alte qualificazioni professionali,
che parlano più di una lingua, che hanno già nel loro vissuto personale storie di
migrazioni ed adattamenti a diversi contesti sociali. In molti casi il migrante è un
persona con un grado di istruzione medio-alta, appartenente a un ceto
relativamente benestante
15
.
Come sottolinea anche Graziella Favaro
16
gli spostamenti migratori non
riguardano più il singolo lavoratore, ma interi nuclei familiari che hanno intenzione
di risiedere nel paese che scelgono fin dal principio, che hanno un forte bagaglio
culturale, etnico e religioso e che tendono a ricongiungersi con una comunità della
stessa etnia già presente sul territorio.
12
CAMPANI, G. Genere, etnia e classe, cit., p.99.
13
VAN AMERSFOORT H., International Migration and Civil Rights: The Dilemmas of Migration Control
in an Age of Globalisation in GUILD, E. The Legal Framework and Social Consequences of Free Movement of
Persons in the European Union, Kluwer Law International, London, 1999, cit., p.82.
14
AA.VV. “Manuale sulle pratiche di integrazione sociale ed economica degli immigrati in Europa” a cura del CERFE,
Milano, 1998.
15
BALETTI C. “Intercultura” , Biblioteca Multidisciplinare, La Spiga languages, Milano, 2002, cit., p.4.
16
FAVARO, G. (a cura di) “Italiano seconda lingua.Proposte per una formazione linguistica degli immigrati stranieri in Italia.
Metodi e unità didattiche” Milano, Franco Angeli, 1987.
15
E chiaramente non possiamo pensare di accogliere questi nuovi immigrati con
lo stesso spirito assistenzialista con cui lo si faceva nel secolo scorso (o con cui noi
italiani venivamo accolti), perché cambiano il tipo di esigenze e bisogni che si
hanno.
Una classificazione chiara delle diverse tipologie di percorsi migratori è quella
che fa Rita. Bertozzi
17
: è possibile individuare delle migrazioni che l’autrice
definisce al maschile, in cui è il capofamiglia a emigrare da solo per motivi
solitamente lavorativi, e altre denominate al femminile dove per lo più sono
coinvolti paesi in cui storicamente è la donna a spostarsi, come per esempio il
latino America, l’Est e le Filippine. A queste si affiancano altre tipologie che la
Bertozzi chiama simultanea, perché i coniugi emigrano insieme, multipla perché
segnata da lunghi e plurimi spostamenti alla ricerca di un’occupazione, e infine
organizzata, caratterizzata dalla costruzione di una catena migratoria che prevede la
migrazione dal paese di origine direttamente e stabilmente in una determinata città
di arrivo.
Non abbiamo più quindi, come in passato, una migrazione che si rifà solamente
alla tipologia maschile e organizzata, ma un panorama plurimo e differenziato al
suo interno.
Importante è ricordare che, dipendendo dai progetti migratori di ciascun
gruppo, ci possono essere diverse strategie di mantenimento e gestione del
patrimonio culturale e familiare. Chi aspira a rimanere definitivamente a vivere nel
paese che l’accoglie, per esempio, tende a uniformarsi a usi e costumi di quella
società, enfatizzando meno la trasmissione del proprio patrimonio culturale ai figli;
mentre per le famiglie che tendono a vivere l’esperienza migratoria come
temporanea il processo d’integrazione è diverso.
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BERTOZZI, R. Famiglie straniere e scuola italiana, in BASTIANONI, P. (a cura di) Scuola e immigrazione,
Milano, ed. Unicopli, , 2001, cit., p.219.