6
L’Unione Europea ha tutelato ed incentivato la nascita dei Parchi Scientifici e
Tecnologici, nello specifico delle zone svantaggiate, identificando in essi, uno
degli strumenti per il superamento di parte degli ostacoli alla realizzazione ed al
mantenimento di vantaggi competitivi, che le imprese, di dimensioni minori,
avrebbero dovuto fronteggiare nel mercato globale.
Con questo lavoro si è inteso approfondire come le piccole imprese possano
conseguire un vantaggio competitivo, grazie al supporto dei Parchi Scientifici e
Tecnologici; le tecnopoli possono imprimere spinte decisive nella direzione
dell’implementazione della qualità e dell’innovatività della produzione. Possono
rivelarsi particolarmente efficaci nel sopperire ad alcuni dei deficit che le piccole
imprese denunciano, relativi a quei fattori sui quali grava il
sottodimensionamento.
L’esempio degli Stati Uniti, del Giappone, del Regno Unito, della Germania,
della Francia e degli altri Paesi, che sono stati i pionieri nella realizzazione delle
tecnopoli, ha favorito la condivisione, da parte del governo italiano, degli
indirizzi comunitari. L’Intesa di Programma 7/12/1990, “Promozione e sviluppo
di Parchi scientifici e tecnologici nelle aree meridionali”, definita dal Ministero
per gli Interventi nel Mezzogiorno, Ministero del Bilancio e della
Programmazione Economica e Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, ha, infatti, delineato le caratteristiche del Parco
Scientifico e Tecnologico, definendolo come un sistema organizzato sul
territorio, di strutture, risorse, competenze ed attività, impegnato, tra l’altro, sui
seguenti obiettivi: promuovere la valorizzazione ed il trasferimento delle
conoscenze e delle tecnologie nel sistema economico-sociale meridionale, in
particolare nel sistema delle piccole e medie imprese, anche mediante lo
sviluppo di attività congiunte con grandi aziende; realizzare programmi
cooperativi…di ricerca precompetitiva, orientata ed industriale a sostegno dello
sviluppo, della progettazione … sviluppare e realizzare servizi avanzati per
7
stimolare e sostenere la crescita locale e la creazione di imprese basate sulle
nuove conoscenze; promuovere e realizzare programmi cooperativi … finalizzati
… ad accelerare le applicazioni produttive e l’immissione sul mercato di nuove
tecnologie diffusive; promuovere e sostenere lo sviluppo locale di qualificati
servizi, in particolare per le piccole e medie imprese, in materia di finanziamenti,
di commercializzazione, di tecnologia, nonché di servizi tecnici; organizzare
ambienti, servizi comuni, supporti manageriali, servizi di assistenza per
sostenere lo sviluppo e la gestione di piccole imprese di nuova creazione.
L’attenzione è stata focalizzata sul Parco Scientifico e Tecnologico
Moliseinnovazione in quanto, oltre ad essere la tecnopoli che serve le piccole
imprese locali (ed è ben inserita nel circuito dei PST italiani, con all’attivo
numerosi rapporti di collaborazione e di scambio), è uno dei pochi che lo stesso
Ministero dell’Università e della Ricerca ha definito di eccellenza poiché sta
realizzando, nel rispetto più che accettabile dei tempi previsti, i progetti che si era
preposto, ed ha in corso numerose attività e progetti al di fuori di quelli finanziati
dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica.
E’ stata svolta, presso le imprese e gli enti che hanno sottoscritto le quote del
Consorzio Moliseinnovazione, un’indagine, attraverso la predisposizione di un
questionario, per verificare i motivi di adesione, le attese, le opinioni, le eventuali
partecipazioni attive allo svolgimento dei progetti. Particolare attenzione è stata,
infine, dedicata allo stato dell’arte dei progetti; per riscontrarne la situazione, non
essendo ancora disponibile alcun materiale cartaceo, sono state effettuate diverse
visite alla struttura del Parco molisano e due colloqui con il direttore tecnico
della tecnopoli; una visita al Parco Scientifico e Tecnologico abruzzese, una
visita all’Istituto “Mario Negri Sud” di S.Maria Imbaro (Ch), e numerose visite
alle aziende consorziate hanno reso possibile l’esame delle attività svolte
all’interno delle differenti strutture.
8
Per la cortese collaborazione, per aver consentito le visite aziendali, per aver
messo a disposizione il materiale interno ed i progetti, per aver risposto ai quesiti
proposti, si ringraziano:
- Prof. Cannata (Università degli Studi del Molise)
- Ing. L. Carlone (Industrie Alimentari “La Molisana”)
- Dott. E. Colavita (CCIAA CB, Oleifici Colavita, Moliseconserve)
- Dott.ssa De Gennaro (Banca di Roma)
- Dott. G. Ferro (Fratelli Ferro Semolerie Molisane S.r.l.)
- Dott. G. Fiorilli (M.M.1 S.p.A.)
- Sig.ra Gentili (Samic S.p.A.)
- Dott. Lauriola (PST Moliseinnovazione)
- Dott. Marinelli (Halley Sud Est)
- Dott. Masoni (Istituto Mario Negri Sud)
- Dott. Molino (PST Moliseinnovazione)
- Sig. L. Perrella (Caseificio “Barone”)
- Rag. Roccia (Centro per lo Sviluppo e la Diffusione della Cultura
d'Impresa Srl)
- Dott.ssa Schiavone (PST Moliseinnovazione)
- Ing. Toffi (ex-coordinatore progetto PST molisano; ex Presidente C.d.A.
M.M.1 S.p.A.)
- Sig. Vallillo (Cosmo Servizi)
- Dott. Vicoli (Coop. Nuova Europa 2000).
9
CAPITOLO I
PROBLEMATICA DEFINITORIA
DELLE PICCOLE IMPRESE
I.1-Approccio quantitativo alla PI
1
Il problema definitorio della piccola impresa può trovare numerose
argomentazioni, ognuna delle quali con la propria caratteristica validità, in
relazione all’aspetto dell’impresa la cui analisi è maggiormente approfondita: si
può dunque parlare di approccio quantitativo, di approccio qualitativo, di
approccio economico-aziendale alla formulazione di piccola impresa.
Ai fini di una precisa classificazione della piccola impresa, gli aspetti
quantitativi, univocamente misurabili, e gli aspetti qualitativi, connessi al diverso
modo e grado di interazione tra l’azienda e le molteplici realtà ambientali,
andrebbero considerati simultaneamente; ciò darebbe luogo all’impossibilità di
effettuare una qualunque ripartizione, data l’infinita combinazione che i caratteri
assumono nella realtà delle PI.
Ogni classificazione effettuata, per ragioni di ordine diverso, ha dunque i suoi
limiti e va, pertanto, valutata per le finalità che intende raggiungere.
Per quel che concerne la definizione giuridica di piccola impresa, l’art. 2083 del
Codice Civile definisce piccoli imprenditori “i coltivatori diretti del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale
organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della
famiglia”.
1
Da ora leggasi: piccola impresa.
10
Quest’ultima definizione non rappresenta opportunamente la piccola impresa, i
cui contorni sono estesi ben oltre quelli che il Codice ha tracciato per il piccolo
imprenditore.
La figura dell’imprenditore resta comunque l’elemento qualificante sostanziale, il
punto di partenza dal quale nessuna PI può prescindere, nonostante l’evolversi
della situazione economica abbia richiesto delle variazioni di fondamentale
importanza nel problema definitorio.
Cogliere gli aspetti basilari che permettano la demarcazione della PI è un
problema che molti studiosi hanno cercato di risolvere e che altri ancora hanno
accantonato.
Il nostro legislatore, per motivi legati alla specificità di alcuni provvedimenti
diretti alle imprese alle quali è rivolta l’attenzione in questo lavoro, si è trovato
nella condizione di delimitarne con esattezza alcuni aspetti quantitativi.
Un metodo di classificazione, in aggiunta a quello civilistico, è stato costruito sul
capitale investito; detta catalogazione ha trovato la sua ragion d’essere
nell’individuazione dei soggetti beneficiari di provvedimenti finanziari; la legge
del 12 Agosto 1977 n.675 (Fondo per la ristrutturazione e la riconversione
industriale) aveva istituito il C.I.P.I. demandandogli il compito di stabilire i limiti
quantitativi alla definizione di piccole e medie imprese.
Il C.I.P.I. aveva così circoscritto le PMI a quelle con capitale investito
(immobilizzazioni tecniche, al netto dei relativi ammortamenti e delle
rivalutazioni monetarie) non maggiore ai sei miliardi di lire, e con meno di 300
dipendenti (erano escluse da questa classificazione le società appartenenti ad un
gruppo imprenditoriale).
Il Decreto Ministeriale del 18 Settembre 1997 uniformò tali limiti a quelli
stabiliti dalla Commissione CEE nella Raccomandazione del 3 Aprile 1996.
L’Unione Europea ha risolto il problema dell’identificazione in termini
quantitativi delle PI e PMI: senza creare ulteriori dibattiti interpretativi, la
11
Commissione CEE, con la Raccomandazione del 3 Aprile 1996, ha adottato i
parametri che seguiranno per circoscrivere le aziende in questione.
Dal punto di vista teorico, l’utilità di questa definizione trova certamente diversi
inconvenienti: la finalità di tale classificazione, infatti, è meramente economica
poiché crea i presupposti per l’accesso alle agevolazioni comunitarie e risponde
all’esigenza di effettuare un’appropriata valutazione delle conseguenze che gli
aiuti dello Stato alle imprese producono sulla concorrenza; minore è la
dimensione dell’impresa beneficiaria degli aiuti, minori saranno gli effetti
distortivi sulla concorrenza; e poiché questa classificazione è stata recepita dagli
Stati Membri ha valore anche per le agevolazioni statali.
Non vi è dubbio che, almeno nella rappresentazione economica di PI, l’UE abbia
dato dei confini precisi sebbene questi massimali, in conformità a quanto stabilito
dalla Commissione stessa, siano suscettibili di revisione quadriennale.
Sono definite PMI quelle che:
1. hanno meno di 250 addetti
2
(95 per le aziende del terziario);
2. hanno fatturato annuo minore di 40 milioni di Euro (15 per il terziario) o
hanno un totale dell’Attivo di bilancio con valore non maggiore di 27
milioni di Euro (10,125 per il terziario);
3. rispettano il criterio di indipendenza.
Sempre in base alle raccomandazioni della Commissione CEE è definita PI
quella che:
1. ha meno di 50 addetti e/o fatturato minore di 7 milioni di Euro (20
addetti e 2.66 milioni di Euro per le aziende del terziario) o ha totale
dell’Attivo di bilancio con valore non maggiore di 5 milioni di Euro
(1,875 milioni di Euro per le aziende di servizi);
2. rispetta il criterio di indipendenza.
2
Tale limite è da riferirsi al numero di unità di lavoro annue -ULA- cioè al numero di salariati impiegati a
tempo pieno nell’anno; i lavoratori a tempo parziale o stagionali costituiscono frazione dell’ULA.
12
I primi due requisiti quantitativi, per quanto riguarda le PMI, devono essere
rispettati contemporaneamente
3
.
Il criterio di indipendenza rappresenta il limite alla partecipazione di una o più
grandi imprese in una PMI o in una piccola impresa (partecipazione ritenuta “di
controllo” pari o superiore al 25% del Capitale Sociale per le PMI e pari ad un
terzo per le PI) oltre la quale la PMI e la piccola impresa perdono ex-lege
quest’identità.
Infine l’UE, sempre nella medesima Raccomandazione, distingue la
microimpresa come quella che occupa meno di dieci addetti.
Coloro i quali effettuano raccolte di dati ed indagini campionarie organizzano la
documentazione da attribuire alla classe “piccola impresa” riferendosi a quelle
con un numero di addetti compreso tra 1 e 99 (racchiudendovi dunque anche la
microimpresa con un solo addetto, rappresentato dal titolare stesso, che dal punto
di vista di questo studio ha un’incidenza trascurabile poiché meno suscettibile di
fenomeni evolutivi) o con pochissimi collaboratori.
Le imprese comprese in questa fascia, con addetti inferiori alle 100 unità,
rappresentano nel nostro paese quasi il 98% del totale; la stessa realtà è peraltro
riscontrabile in tutti i sistemi economici, occidentali e non.
3
Le grandezze quantitative cui l’UE fa riferimento possono essere così approfondite.
a) Il capitale investito è una misura utilizzata frequentemente in Italia ed in altri numerosi Paesi per
ottenere benefici fiscali e contributivi; dipende dalla lavorazione effettuata dalle imprese che può essere
di tipo labour-intensive (prevalenza della forza lavoro sul capitale) ovvero capital intensive (prevalenza
del capitale sulla forza lavoro); tale misura non è comprensiva del valore dei beni in locazione per cui,
due aziende, sebbene dimensionalmente uguali in termini di impianti, potranno risultare differenti, poiché
l’una è proprietaria dei beni, l’altra ne usufruisce a mezzo di contratti di locazione.
b) Il numero di addetti è il parametro più utilizzato in quanto molto semplice da rilevare; ha la sua
validità se associato al capitale investito.
c) Il fatturato è l’indice più immediato ma anche il meno corretto per la valutazione delle dimensioni
aziendali; la sua opinabilità dipende, non tanto da fattori inflazionistici, quanto dai differenti gradi di
integrazione verticale: due aziende collocate nello stesso mercato di sbocco, simili per quantità vendute,
possono, in realtà essere differenti in quanto l’una integrata verticalmente (e quindi sottostimata), e l’altra
poco o per niente integrata (e quindi sovrastimata).
d) Il parametro teoricamente più attendibile è il valore attuale ma sorgono difficoltà per la metodologia
di calcolo; esso può essere determinato in via sintetica (variabili output al netto delle variabili input-
acquisti dall’esterno), ovvero in via analitica (come insieme delle remunerazioni dei fattori produttivi
lavoro- dipendente ed attività imprenditoriale- e capitale- di rischio e di credito).
13
Questa prassi, peraltro adottata anche dall’ISTAT, non ha un fondamento teorico
consolidato tant’è che recentemente la statistica ha adottato nuovi criteri di
classificazione tra i quali il più interessante sembra essere quello della media
entropica
4
che produce risultati piuttosto vicini alla classificazione precedente:
- imprese intrinsecamente piccole: fino a 47 addetti
- imprese intrinsecamente medie: da 48 a 347 addetti
- imprese intrinsecamente grandi: oltre 348 addetti.
Questo tipo di media crea una classificazione in relazione al gruppo preso come
grandezza da disaggregare.
Per ogni insieme di riferimento c’è un diverso risultato (occorre specificare, in
questo caso, che i dati in base ai quali è stata calcolata la media entropica sono
riferiti all’industria italiana dei primi anni ‘90).
Questo tipo di classificazione pertanto produce risultati validi non “in assoluto”
bensì in relazione alla famiglia di imprese prese a confronto.
In ogni modo la classificazione in base al numero di addetti è un criterio piuttosto
grossolano in quanto non considera opportunamente il rapporto capitale-addetti e
l’intensità tecnologica aziendale.
La media entropica non tiene conto, dunque, degli indicatori di dimensione;
questi possono essere suddivisi in: a) indicatori di struttura (numero addetti,
capitale investito, capitale per la produzione); b) indicatori di risultato (fatturato,
valore aggiunto, valore della produzione).
Ben differenti sono questi rapporti nelle aziende manifatturiere ed in quelle ad
alta tecnologia, dove la presenza del capitale umano è eterogenea e dove il
4
µ = ( ( π
k
i=1
Χ
i
χ i
) * 1 \ χ
La Χ indica la grandezza da disaggregare in classi i che vanno da 1 a k.
χ i rappresentano le classi tali che risulti essere Σ
k
i=1
χ i=Χ .
Lipparini A.- Lorenzoni G., Imprenditori e imprese- Idee, piani, processi, Il Mulino, 2000.
14
calcolo della dimensione, in base alla numerosità degli addetti, darebbe
certamente conclusioni fuorvianti dalla realtà.
I.2-Approccio qualitativo alla PI
La percezione della PI, dal profilo qualitativo, sembrerebbe più agevole.
La varietà dimensionale delle imprese presenti sul territorio nazionale
rappresenta un’inconfutabile risposta all’eterogeneo grado di
manifestazione/interrelazione di fattori giuridici, organizzativi, finanziari ed
economico-produttivi. La piccola impresa è condizionata, in particolare, da una
serie di relazioni.
• La relazione soggetto-sistema che determina forme diverse di imprese in
relazione al potere decisionale ed al tipo di razionalità in esse prevalente.
• La relazione impresa-ambiente che tiene conto del collocamento in uno
specifico ambito competitivo e contesto socio-culturale
5
.
L’aspetto che accomuna le PI operanti in Italia è la persistenza, nella maggior
parte di esse, della prevalenza della figura dell’imprenditore tout-court: il piccolo
imprenditore accentra in sé la figura del finanziatore, del manager e raramente
viene affiancato da un team organizzato in forma di staff, preferendo la desueta
struttura piramidale, molto spesso composta solo da vertice e base.
L’ambiente socio-culturale, si riferisce ai fenomeni con cui l’impresa si confronta
quando si va oltre le relazioni competitive e/o cooperative con altre imprese.
Fenomeni dunque attinenti alla:
5
Entrambi gli aspetti hanno determinato nella struttura produttiva italiana il proliferare delle PI in luogo di
quelle di dimensioni maggiori: esse rappresentano la base su cui poggia il sistema industriale italiano
coprendo oltre il 90% del totale della struttura del sistema economico sia in termini di PIL che di
occupazione.
15
• cultura intesa come valori e tradizioni che influenzano il comportamento
manageriale. Le regole interne e le relazioni che l’impresa stabilisce con
l’esterno sono, in realtà, solo la punta dell’iceberg di un insieme sommerso, e di
dimensioni rilevanti, di relazioni culturali e sociali che disciplinano le condotte
individuali delle organizzazioni;
• organizzazioni della società civile che comunque condizionano il
comportamento. Si pensi al sistema bancario, alle organizzazioni sindacali, ai
media ed a vari gruppi di interesse;
• istituzioni e norme giuridiche che definiscono tutto il sistema dal punto di
vista di vincoli ed opportunità specifici per le decisioni di impresa.
Negli ultimi anni è cresciuta la tendenza alla de-regulation attraverso i fenomeni
di contrazione dell’intervento pubblico e della pressione fiscale, dell’ampliarsi
degli atti di privatizzazione, della riduzione dei fenomeni di intermediazione
sindacale e bancaria.
Dall’analisi della realtà italiana per quanto attiene al rapporto impresa-ambiente
è facile identificarne il carattere di specificità e diversità rispetto agli altri paesi
europei: lo Stato appare debole nella sua veste di produttore di “ambiente
industriale” e viene sostituito dalla “società civile”; lo Stato si mostra generoso
solo in termini di mezzi a sostegno dell’industria.
Il sorgere di PI, qualora esse siano governate in modo da conseguire vantaggi
competitivi, e posto che da questi venga opportunamente tratto profitto, non
sconvolge l’ambiente anzi, genera ricchezza con effetti di indubbio benessere per
tutti i membri della comunità locale; ma da quanto affermato sinora non è facile
definire con precisione una PI; né tantomeno delineare i caratteri qualitativi e
quantitativi che la identificano. Tant’è che la teoria contrappone orientamenti
differenti dal punto di vista della sua classificazione.
Da una parte prevale una linea di pensiero che tende a lasciare ampi margini di
incertezza nella definizione di PI, stabilendone solo i confini superiori nella
16
media impresa e nelle istituzioni manageriali
6
(oltre alla circostanza
rappresentata dalla generale confusione che si compie nell’utilizzare
indistintamente i termini di impresa minore, PI e PMI); dall’altra si risponde alla
specifica esigenza normativa di identificarla con precisione, per definire i
parametri che consentano la fruizione di agevolazioni, programmi comunitari di
R&S
7
, condizioni di accesso agli appalti etc., come già, in precedenza, illustrato.
In questo caso si fa riferimento ad una serie di parametri quantitativi precisi, che
circoscrivono l’impresa di minore dimensione: capitale investito, numero degli
addetti, fatturato, dei quali si è già parlato.
C’è un ampio margine d’elasticità, determinata dalle scelte di alcuni parametri e
non di altri, anche in questo tentativo di demarcazione. La tassonomia
qualitativa, presenta ulteriori divergenze espositive.
Uno studioso
8
ne elenca schematicamente i fattori identificativi distinguendoli in:
• fattori relazionali
• fattori imprenditoriali
• fattori organizzativi
Ai primi si è già accennato parlando di impresa e ambiente, ma vale la pena
sottolineare che l’importanza del quadro ambientale è tale da poter addirittura
determinare la stessa esistenza dell’impresa.
I secondi (fattori imprenditoriali) sono certamente quelli che consentono una
classificazione della PI relativamente più semplice.
1. Integrazione tra proprietà e potere decisionale: nella grande impresa il
capitale è frazionato tra numerosi azionisti che controllano la gestione più
formalmente che sostanzialmente; al contrario la PI, vede coincidere le figure
decisionali (spesso rappresentate da una sola persona) con la proprietà; ciò
significa che gli obiettivi imprenditoriali coincidono con quelli del centro
6
Golinelli G., L’impresa minore tra forme artigiane ed istituzioni manageriali, Giuffrè, 1974.
7
Da ora leggasi Ricerca e Sviluppo.
8
Marino V., Le condizioni di sopravvivenza dell’impresa minore, Cedam, 1999.
17
direzionale. La teoria sottolinea il fatto che le grandi imprese siano gestite dai
managers e che il loro obiettivo sia riassumibile nella massimizzazione dei
ricavi e delle vendite, dato un livello minimo di profitto che viene imposto loro
dagli azionisti (teoria del Baumol). E’ evidente che questa definizione si basa
su un modello statico che ha come orizzonte temporale un esercizio. Il Marris
sviluppò in senso dinamico la teoria del Baumol giungendo ad affermare come
l’obiettivo base del manager sia la massimizzazione della crescita delle
vendite che permetta la conservazione del valore reale delle azioni e renda
l’impresa invulnerabile rispetto a potenziali acquirenti.
2. Partecipazione diretta della proprietà alla gestione dell’impresa:
l’identificazione del manager con il proprietario dell’impresa arriva ad un
livello tale da precludere qualsiasi forma di delega, anche in riferimento alle
operazioni di importanza strategica limitata. Berle e Means
9
nel 1929
definirono l’impresa controllata dal proprietario come quella in cui un
individuo, una famiglia o un gruppo di uomini d’affari - tra di loro associati -
detengono almeno il 20% del capitale azionario.
3. Orizzonte di sviluppo dell’impresa condizionato dalla capacità di
controllo dei membri della famiglia: l’accentrarsi delle funzioni in un solo
individuo genera problemi riguardo alla successione; spesso le capacità
limitate dei membri della famiglia, portati necessariamente ad affiancare
l’imprenditore, mettono a serio rischio la sopravvivenza dell’impresa.
4. Alta propensione al rischio della piccola impresa: la natura stessa
dell’impresa minore ne delinea i caratteri di maggiore propensione al rischio,
implicando che il soggetto economico abbia capacità decisionali ed operative
9
Berle e Means distinguono quattro tipi di controllo di un’impresa o gruppo; 1) controllo assoluto
allorché non esistono minoranze in grado di esercitare il diritto di veto; 2) controllo maggioritario; 3)
controllo minoritario; 4) controllo manageriale allorché nessun azionista detiene una quota rilevante del
capitale ed il consiglio di amministrazione si controlla da sé, gestendo autonomamente la società: in
questo caso si ha un’effettiva separazione tra capitale e potere di governo dell’impresa. Berle A.A.-Means
G.C., Società per Azioni e proprietà privata, Einaudi, 1966.
18
certamente più flessibili, perché accentrate, ma che lo espongono a maggiori
rischi in quanto lo stesso processo di formulazione e di esplicitazione delle
decisioni appare estremamente semplificato. Di contro la grande impresa
interiorizza la conflittualità proprio in virtù della burocratizzazione interna che
definisce precise regole e modalità decisionali.
I fattori organizzativi fanno riferimento (soprattutto dopo l’orientamento di
mercato degli ultimi decenni) alla capacità di generare nuove risorse e di
adattarsi, preferibilmente anticipandoli, ai mutamenti ambientali dei quali si
riescono a percepire i segnali. Si vengono così ad identificare dei meccanismi di
apprendimento tanto più forti, quanto più vicini ci si trova al mercato, cioè
quanto minore è l’intermediazione tra impresa e mercato. Nelle PI appare
evidente come i meccanismi di apprendimento siano ricollegabili alla capacità
che ha il soggetto imprenditore di cogliere i segnali provenienti dall’ambiente.
Queste percezioni, spesso, pervengono attraverso contatti contingenti e non
pianificati, quindi, non da attività metodiche di apprendimento.
Bisogna, per di più, sottolineare, come talora il patrimonio cognitivo sia
custodito gelosamente dall’imprenditore e dal ristretto gruppo che lo affianca, in
quanto percepito come risorsa da proteggere dalla possibile diffusione al di fuori
dell’impresa.
Nella grande impresa l’apprendimento è una delle componenti del processo
strategico; è una risorsa che viene trasferita dall’esterno, decentrata verso i vari
segmenti dell’impresa, ossia, smistata verso le sedi più opportune, elaborata ed
applicata, certamente con tempi più lunghi rispetto all’impresa di dimensioni
minori dove il processo cognitivo, per causale o volontario che sia, passa
direttamente dalla fonte al centro di assorbimento.
Nella grande impresa, nondimeno, è riscontrabile un effetto distortivo dovuto
all’eccessiva numerosità dei livelli gerarchici verticali: il processo di
19
trasmissione delle informazioni, che avvenga dai vertici alla base o viceversa,
può subire delle modifiche nei vari passaggi e quindi perdere l’originale
efficacia.
Per questo, il processo cognitivo, che è in grado di creare i presupposti per
accrescere la capacità di controllo sulle variabili esterne, e di dare origine al
processo di creazione dei vantaggi competitivi e, successivamente, di difesa degli
stessi, diventa, esso stesso, un vantaggio per le PI nei termini in cui venga
opportunamente messo a profitto.
Nella teoria aziendale, i fattori organizzativi vengono suddivisi in base alle
mansioni cui attengono; si parla dunque di organi di proprietà, organi di
amministrazione e organi di direzione; di organi operativi (ovvero di staff),
intendendo con questi gli strumenti organizzativi
10
; ma si parla soprattutto di
organizzazione formale e aformale, sottolineando il fatto che
l’istituzionalizzazione di un ruolo può non coincidere con il suo esercizio
effettivo. Spesso (e comunemente nelle rare PI con un’organizzazione
formalizzata), ad uno schema codificato si affianca uno schema spontaneo
fondato sui rapporti personali fra gli individui che operano nell’azienda e che
tende a prevaricare il primo.
Del resto, quanto più si accresce il grado di formalizzazione dell’organizzazione,
tanto più diminuiscono la sua elasticità (adattabilità a situazioni diverse), la sua
economicità (incremento dei costi fissi di struttura) e la sua integrazione
(capacità di coprire autonomamente nuove esigenze). In poche parole, tanto
maggiore è la complessità dell’organizzazione, tanto più ci si discosta dalle
caratteristiche teoricamente connaturate alle PI che ne rappresentano i maggiori
punti di forza.
10
Di Vittorio A., Evoluzione e funzione dell’impresa familiare. La qualità totale come strategia
competitiva, Giappichelli Editore, 2000.