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possibile senza lo studio parallelo del pianoforte? Non è mia intenzione aprire
un dibattito sulla correttezza di quest’ultimo metodo, ma è comunque un dato
significativo ai fini di una comprensione delle doti del pianoforte.
Il pianoforte è il re, il numero uno: dà vita alla musica, la dirige, la
rappresenta in tutti i suoi toni, in qualsiasi sound, in qualunque genere. E’ la
melodia e l’armonia, solista e accompagnatore, è il ritmo e il groove, il piano
e il forte. Solo uno strumento con queste potenzialità tecniche è in grado
specchiare tutti i vari aspetti dell’anima di ogni pianista: la tristezza, la gioia,
la malinconia, l’entusiasmo, l’esaltazione, la spensieratezza, la depressione, la
solitudine, la malattia, la follia, l’amore, il desiderio, la fantasia, l’aspirazione,
la grandezza.
Sedersi al pianoforte per un pianista è come stare disteso su un lettino di
uno psicologo: riesce a comunicare se stesso e con se stesso, nella più
completa libertà di espressione, a confessare i desideri, le paure, le aspettative.
E’ proprio questa la vera virtù del pianoforte: la comunicazione di emozioni
dal pianista verso qualunque ascoltatore e dal pianista verso se stesso. Sarà
mio compito in questa tesi di laurea farvi conoscere il più a fondo possibile
questo strumento incantevole che oggi ha più di trecento anni e non li
dimostra; vi parlerò della sua storia, di come è nato, di come è cresciuto, di
come è stato accolto dai musicisti di quel tempo, di come è fatto, di come si è
evoluto, dei diversi modi in cui è stato suonato, del ruolo che ha avuto la
tecnologia nello suo sviluppo fisico e didattico.
Faremo un bel viaggio nel tempo: dal 1700 al 2000, percorreremo 300 anni
di musica, quella musica che ha sempre visto il pianoforte protagonista.
Rivisiteremo gli stili dei grandi pianisti della storia, le loro tecniche, il modo
in cui il pianoforte si è adattato all’evoluzione della musica, alle nuove
tendenze, alla nascita di nuovi generi musicali: dal periodo classico del ‘700
al romantico dell’800, passando per i jazzisti del novecento fino ad arrivare ad
oggi. Altri capitoli saranno poi dedicati al pianoforte come comunicatore di
emozioni, attraverso studi scientifici e approcci psicologici e attraverso degli
esempi di analisi di alcuni brani dal punto di vista della comunicazione
emozionale
Mozart, Beethoven, Chopin, Litsz, Debussy, Joplin, Powell, Monk, Evans,
Jarret, Korea, Petrucciani, Hencock, ognuno di loro ha portato una
trasformazione al pianoforte, ognuno col proprio stile, con la propria tecnica,
con il proprio sound, con la propria anima.
Cercherò anche di approfondire l’impiego odierno e moderno del
pianoforte e di immaginarne e prospettarne un futuro.
Aldilà di ogni discorso prettamente musicale, a trecento anni dalla sua
nascita il pianoforte è ancora capace di emozionare chi lo suona e chi lo
ascolta, di comunicare delle sensazioni, di mettere in contatto il pianista con
se stesso e col suo pubblico; ogni volta che le corde di un pianoforte vengono
fatte vibrare, contemporaneamente vibrano le corde della nostra anima e
quando succede questo, quando ogni tasto pigiato provoca un tumulto nel
cuore, quando il corpo si eccita e le dita non hanno paura di correre sulla
tastiera, quando senti che non vorresti essere altrove che su quello sgabello,
solo quando succede tutto ciò potremo dire di essere dei veri pianisti, anche
scarsi forse, ma con un anima!
L’anima del pianoforte è qualcosa che è difficile da spiegare a parole,
proverò a farmi aiutare dalla musica.
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1. LA STORIA DEL PIANOFORTE
1.1 COSA C’ERA PRIMA DEL PIANOFORTE
Mi è capitato spesso di leggere, in alcuni libri di storia della musica, specie
quelli utilizzati dalle scuole dell’obbligo, che il pianoforte sia l’evoluzione del
clavicembalo, il suo successore, lo stesso strumento progredito, sviluppato e
migliorato.
E’ a mio avviso necessario mettere un po’ di ordine e fare un po’ di
chiarezza prima storica, poi tecnologico-musicale. E’ innegabile che la forma
di un pianoforte a coda e quella di un vecchio clavicembalo sia molto simile,
in realtà, il pianoforte non discende direttamente dal clavicembalo, né
quest’ultimo ne è l’unico antenato. Prima dell’invenzione del pianoforte le
tradizionali classificazioni degli strumenti erano ripartite in: strumenti a corde
pizzicate, strumenti a corde percosse e strumenti ad aria.
Il pianoforte, come sappiamo è uno strumento a tastiera e per tastiera
intendiamo un insieme di tasti che vengono premuti in generale dalle dita
delle due mani, e la cui origine può essere fatta risalire addirittura nei grandi
organi del decimo e undicesimo secolo, organi pneumatici come quello della
chiesa di Magdeburgo.
Bene, come strumenti a tastiera, nel ‘600 esistevano già i clavicembali,
cioè una famiglia di strumenti musicali a corde pizzicate, di origine italiana di
cui fanno parte, oltre ai piccoli virginali e spinetta, il clavicembalo “standard”,
cioè un grande strumento con corde lunghe le quali venivano pizzicate da
penne o plettri e che produceva un suono forte, risonante, ma senza variazioni
di volume. I clavicembali sono a loro volta i discendenti di un altro strumento,
chiamato salterio, formato da dieci o più corde tese sopra un tavola armonica
a forma di trapezio, che si suonava pizzicando le corde con le dita armate di
piccoli ditali uncinati e che differiva dall'arpa per la forma della tavola
armonica nonché per la sua posizione orizzontale.
Un altro strumento a tastiera che esisteva già nel ‘600 era il clavicordo,
uno strumento, non a corde pizzicate, come il clavicembalo, ma a corde
soffregate da un piccolo dispositivo metallico in ottone chiamato tangente.
Era melodioso, ma la sua esile voce veniva spesso soffocata dagli altri
strumenti o dai cantanti. Infine, l’altro strumento a tastiera era l’organo,
strumento ad aria.
Se parliamo quindi del pianoforte come strumento a tastiera, allora sia i
clavicembali, che clavicordi e organi si possono definire predecessori del
pianoforte; se, invece, la nostra analisi parte da un punto di vista meccanico-
tecnologico, allora diremo che il pianoforte differisce da tutti e tre gli
strumenti sopra citati per quanto riguarda il funzionamento: il pianoforte è
stato il primo strumento a tastiera con corde percosse.
Uno strumento a corde percosse nel ‘600 esisteva già, si chiamava
timpanon (nome di origine semitica: dagli antichi venne chiamato santir,
psanterion, psalterion, in seguito ebbe il nome di timpanon, dulce melos e
dulcimer per i britannici. Oggi viene chiamato dagli italiani "salterio tedesco"
e dai tedeschi "hackbrett"), ma non aveva una tastiera: la generazione del
suono avveniva attraverso la percussione delle corde tramite due mazzuoli
tenuti in mano dall’esecutore. In altri termini, il pianoforte è un dulcimer
azionato con dei tasti anziché con dei mazzuoli.
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Ora che è stata fatta tale necessaria precisazione storico-musicologica, si
può passare allo studio di come, dove, quando e perché è stato inventato
quello strumento che oggi chiamiamo pianoforte.
1.2. LA NASCITA DEL PIANOFORTE
Quando nasce il pianoforte, altri strumenti erano già divenuti grandi
durante il barocco che da tempo elevava la musica a disciplina eccelsa
ponendola al centro di numerosi studi e trasformazioni che avevano condotto
non solo alla nascita dell'opera, ma anche alle evoluzioni tecniche operate
dalle grandi tradizioni liutistiche di Stradivari, Amati e Guarneri.
In questo clima musicale, il violino, il flauto, l'organo e il clavicembalo,
grazie anche a musicisti come Arcangelo Corelli (ritenuto il grande fondatore
della moderna tecnica violinistica), Giacomo Carissimi (provetto organista
compositore di numerosi oratori) e Antonio Vivaldi (che oltre a perfezionare
la tecnica violinistica, compose più di cinquecento opere strumentali), sono
gli strumenti che dominano la scena musicale nel contesto italiano ed europeo
a partire dal ‘600 fino alla prima metà dell’700. Ad incarnare perfettamente
sia nel carattere che nella produzione, l’ideale barocco erano, però, altri due
grandi della musica: F.Handel e J.S. Bach , quest’ultimo organista e
clavicembalista di raro valore, considerato uno dei più grandi compositori di
tutti i tempi.
Nessuno sa con precisione quando fu realizzato il primo pianoforte, ma una
cosa è certa: quella data è di importanza vitale per la storia della musica
perché la nascita del pianoforte ha rivoluzionato tecnicamente e
concettualmente il pianeta musicale. Nel ‘600 si cercava di perfezionare
sempre di più la conformazione della tastiera, che dipendeva dalla forma della
mano e dall’evoluzione della musica occidentale. Dopo varie modifiche si
arrivò ad una tastiera con tasti bianchi, più lunghi, più larghi e più bassi e tasti
neri più stretti, più corti e più alti; i tasti alti sono più facilmente raggiungibili
dalle dita più lunghe (indice, medio, anulare) con un semplice movimento di
distensione, l’esecutore può quindi compiere una serie di operazioni quasi
pari, per numero e complessità, a quelle di un orchestra.
Alla fine del ‘600 la tecnica della tastiera, cioè l’accumulo di scoperte e
conoscenze di più generazioni di organisti e cembalisti, era già molto
sviluppata, sebbene non ai livelli di Bach, ma in qualche parte del mondo e
più precisamente in Italia, a Firenze, il circolo del serenissimo Gran Principe
Ferdinando de Medici, pensò di dare un taglio a questa concezione
perfezionistica della tastiera: più che fantasticare su ciò che della tastiera
avrebbe potuto escogitare, della tastiera avvertiva i limiti.
La tastiera è un meccanismo che fa da tramite tra la mano e la fonte del
suono, cioè la corda, ma la macchina, lo sappiamo, fa perdere umanità
all’operatore.
Gli intellettuali di Firenze volevano quindi far conciliare due fattori
inconciliabili fino a quel momento: i vantaggi della macchina e il controllo
continuo del suono, impossibile con organi e clavicembali.
A far conciliare le due cose ci provò un cembalaro padovano trasferitosi a
Firenze intorno al 1690 dietro la richiesta del Principe Ferdinando, il suo
nome era Bartolomeo Cristofori al quale venne chiesto di risolvere una volta
e per tutte le magagne del clavicembalo.
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Esistono documenti che fissano a due anni prima del Giubileo del ‘700
(quindi nel 1698) gli inizi degli esperimenti e al 1700 la primissima
descrizione di un “Arpicembalo di Bartolomeo Cristofori che fa il piano e il
forte”.
Insomma intorno al 1700 Cristofori ideò, grazie a dei meccanismi che
vedremo nel paragrafo 3, uno strumento musicale che egli stesso chiamò
“gravecembalo col piano e forte”, descritto come segue nell’inventario del
1700 degli strumenti musicali di proprietà del Gran Principe Ferdinando
De’Medici:
“Un Cimbalo di Bartolomeo Cristofori, levatoro di cassa, a due registri principali
unisoni, con fondo di cipresso senza rosa, con fascie ponti traversa salterelli e scorniciatura
di ebano filettata d’avorio, con tastatura di avorio et ebano senza spezzati che comincia in
gisolreut ottava stesa e finisce in cisolfaut con n. cinquanta tre tasti tra bianchi e neri, lungo
braccia quattro e un quarto, largo nel davanti braccia uno e soldi otto, con suo leggio di
cipresso, sua contro cassa di abeto pura e sua coperta di cuoio rosso foderata di taffettà
verde orlata di nastrino d’oro”.
2
L’invenzione fu appresa dall’Italia con un articolo di Scipione Maffei nel
1711, nel “Giornale de’ Letterati d’Italia” in cui scrive:
“egli è noto a chiunque gode della musica, che uno de’principali fonti, da’ quali traggano
i periti di quest’arte il segreto di singolarmente dilettar chi ascolta, è il piano, e ‘l forte; o sia
nelle proposte, e risposte, o sia quando con artifiziosa degradazione lasciandosi a poco a
poco mancar la voce, si ripiglia poi ad un tratto strepitosamente (…) Ora di questa diversità ,
ed alterazione di voce, nella quale eccellenti sono fra gli altri strumenti ad arco, affatto privo
è il gravecembalo; e sarebbe da chi che sia stata ripetuta una vanissima immaginazione il
proporre di fabbricarlo in modo, che avesse questa dote…”
3
Gravecembalo col piano e forte.
Questo articolo descrive bene lo stupore dei fiorentini nel ‘700.
2
Inventario del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, 1700
3
Piero Rattalino, op. cit., p.17.
8
1.3. COME FUNZIONA?
Abbiamo già detto che il difetto del clavicembalo, ma in generale di tutti
gli strumenti a tastiera dell’epoca, era la non possibilità di regolare l’intensità
del suono, per il fatto che le corde venissero fatte vibrare pizzicandole con dei
dispositivi detti saltarelli e non percorrendole. Solo con la percussione delle
corde, come nel dulcimer coi mazzuoli, si poteva avere un intensità sonora
pari all’intensità con la quale si pigiava il tasto, per cui Cristofori sostituì al
meccanismo dei saltarelli il meccanismo dei martelletti, ma dovette risolvere
un altro problema più difficoltoso: grazie ad un sistema di leve fu facile far
dipendere la velocità del martelletto dalla velocità di abbassamento del tasto,
ma a differenza del dulcimer, in cui l’esecutore ritira il mazzuolo dopo la
percossa perché altrimenti il contatto impedirebbe alla corda di oscillare, con
questo sistema il martelletto rimaneva nella sua posizione impedendo la
vibrazione della corda.
La risoluzione di questo problema fu l’applicazione di un dispositivo
chiamato scappamento. La percussione e la cessazione del suono sono
comandate entrambe dal tasto, quindi Cristofori grazie allo scappamento
tenne disgiunte le ultime due leve, fornendole di due punte contrapposte: la
punta della penultima leva spinge in alto la punta corrispondente dell’ultima
leva. Essendo le due leve imperniate e disposte l’una contro l’altra, e
muovendosi quindi in senso circolare opposto, il contatto cessa dopo la spinta:
la leva che porta il martelletto ricade per forza di inerzia subito dopo l’urto
con la corda e il suono può durare fino a che l’esecutore, lasciando tornare il
tasto in posizione di riposo, spinge contro la corda il tampone feltrato, detto
anche smorzatore, cioè un blocchetto di legno ricoperto di feltro che a riposo,
poggia sopra la corda, impedendole di vibrare, quando il tasto viene abbassato
si solleva ed il martelletto percuote la corda ; lo smorzatore ricade sulla corda,
soffocandone la vibrazione, solo quando il tasto viene rilasciato.
In seguito il cembalaro padovano perfezionò la meccanica con un
congegno detto paramartello, una sorta di "freno" che aveva la funzione di
rallentare la ricaduta del martelletto dopo avere percosso la corda.
Il 27 gennaio del 1732 muore Bartolomeo Cristofori, non più semplicemente
cembalaro, ma “Custode” della grande collezione di strumenti che il suo
padrone aveva raccolto. Fino a quel giorno Cristofori aveva costruito pochi
esemplari di gravecembalo col piano e forte, tre dei quali si sono conservati
fino a oggi: uno del 1720 oggi al Metropolitan Museum of Art di New York,
uno del 1722 oggi al Museo degli strumenti musicali di Roma e uno del 1726
oggi al Musikinstrumentenmuseum der Universität di Lipsia.
Ad ogni modo, al di là di qualche sporadico e bizzarro tentativo a scopo
pressocchè sperimentale da parte di altri costruttori come Giovanni Ferrini
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(allievo di Cristofori), il sacerdote Gagliano nel Mugello e Domenico Del
Mela, in Italia non si aprì un mercato di pianoforti, così Bartolomeo Cristofori
divenne uno dei personaggi più importanti della storia della musica senza
neanche accorgersene.
1.4 LA STORIA CONTINUA
Alcuni anni dopo, altri due costruttori tentarono di costruire nuovi
strumenti con la speranza di ottenere l'appoggio per la fabbricazione. Erano il
francese Jean Marius, che ribattezzò lo strumento con il nome clavecin à
maillets et à sautereaux, e il tedesco Christoph Gottlieb Schröter. Le loro
richieste, però, non ebbero fortuna.
L'appoggio e la fortuna che erano mancati a Cristofori, a Marius e a
Schröter, arrisero invece a un altro tedesco, Gottfried Silbermann (1683-
1753), che nella prima metà del sec. XVIII fu uno dei più apprezzati
costruttori germanici di clavicembali e di organi. Silbermann aveva
conosciuto l'invenzione di Cristofori grazie all'articolo di Maffei e il primo
modello di meccanica da lui progettato era una fusione degli elementi
derivanti dai disegni di Cristofori e Schröter.
Il nuovo strumento non piacque a J.S. Bach che ne rilevò la povertà del
suono nel registro acuto e la pesantezza della meccanica. Negli anni seguenti
Silbermann migliorò la meccanica e la sonorità dei modelli più recenti
piacque finalmente anche a Bach, ma per quest’ultimo il pianoforte
rappresentava comunque un arricchimento, non un perfezionamento e un
superamento del passato. Il pianoforte, infatti, non ebbe immediatamente il
successo sperato: il clavicembalo continuò a catalizzare le attenzioni dei
compositori per le sue qualità sonore che ben si sposavano con il carattere
cristallino delle composizioni barocche.
Fu intorno alla metà del '700, periodo in cui si verificò un mutamento nello
stile compositivo e il gusto per l'ornamento lasciò il posto all'espressione e al
colore sonoro, che il pianoforte diventò uno strumento sempre più usato.
Due allievi di Silbermann, Christian Friederici e Johannes Zumpe diedero
vita a nuove industrie di pianoforte. Zumpe ne fondò una a Londra, nel 1760.
A Londra, nei primi anni ’70 del ’700, operava un certo Americus Backers al
quale si deve l’invenzione del pedale di risonanza: i cembalari di quel tempo
montavano sui grandi modelli almeno due corde all’unisono per tasto, come
aveva fatto anche Cristofori, il quale aveva poi immaginato un effetto
speciale, sfruttando nel modello 1726 la possibilità di spostare leggermente di
lato la tastiera, in modo che il martello colpisse una sola delle due corde. Nel
modello Cristofori il meccanismo dell’una corda era azionato a mano; nel
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modello Backers è azionato a pedale, agevolando notevolmente l’esecutore
permettendogli di ottenere l’effetto senza dover staccare le mani dalla tastiera.
Il modello Backers era, però, fornito di un secondo pedale, molto più
importante: il pedale che comanda il sollevamento simultaneo di tutti gli
smorzatori, il pedale di risonanza. Questo tipo di meccanica, fu chiamata
English grand action o meccanica inglese. Col pedale di risonanza, l’anima
del pianoforte cominciava così a prendere corpo grazie al pedale di risonanza:
abbiamo detto che il tasto, ritornando in posizione di riposo, muove lo
smorzatore e fa cessare il suono; il pedale di risonanza sottrae lo smorzatore al
tasto, dando modo all’esecutore di lasciare il tasto senza che il suono cessi.
Questa possibilità permette di moltiplicare le sovrapposizioni di suoni e
consente anche un uso, tutt’altro che trascurabile, della gestualità.
Friedeciri realizzò un pianoforte rettangolare, che ricorda l'antico clavicordo,
e che ebbe molta fortuna alla fine del 700 e all'inizio dell'800. In Italia veniva
chiamato pianoforte a tavolo. Le corde erano disposte parallelamente alla
tastiera, proprio come nel clavicordo. Il pianoforte a tavolo aveva una
meccanica rudimentale, una sonorità lieve e dimensioni ridotte. Per questo
motivo era utilizzato prevalentemente per scopi domestici, inadatto com'era
alle esecuzioni in concerto. La diffusione del pianoforte a tavolo avvenne
soprattutto in Inghilterra grazie all'opera di Johannes Zumpe e,
successivamente, di John Broadwood, il quale nel 1782 assunse da solo la
ditta fino a quel momento in società prima col suocero di Zumpe e poi col
cognato, e avviò iniziative rivoluzionarie che bene si allineavano con
l’ambizione non nascosta del pianoforte di diventare uno strumento solista,
elevando quindi le sue capacità sonore: perfezionò la meccanica, ridusse il
rumore, aumentò il numero dei tasti, sistemò e brevettò il movimento dei
pedali, irrobustì il telaio per poter aumentare la tensione delle corde, puntò sui
grandi pianoforti a coda e cominciò ad organizzare il lavoro secondo concetti
non più artigianali, ma industriali.
Pianoforte a tavolo
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In Italia Domenico Del Mela creò il pianoforte piramidale, un pianoforte
in cui la cassa armonica del pianoforte a coda era stata montata in verticale.
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Pianoforte piramidale di Frederici Pianoforte piramidale di Del
Mela
Questa forma venne presto abbandonata quando, intorno al 1780, si creò
una struttura diversa, rettangolare, e una intelaiatura più appropriata.
Un allievo del Silbermann, J.Andreas Stein segnò una traccia profonda nella
storia del pianoforte. Egli migliorò la meccanica di Silbermann
aggiungendovi uno scappamento e smorzatori simili a quelli di Cristofori.
Creò ad Augusta la sua fabbrica di pianoforti e i suoi strumenti divennero
famosi per la cosiddetta meccanica tedesca.
Nel 1777, Wolfgang Amadeus Mozart ha occasione di suonare i suoi
pianoforti e, per via epistolare, ne riferisce al padre in termini entusiastici.
Nel 1794 i figli di Stein, Nanette e Matthieu, trasportarono a Vienna la
fabbrica. Nanette sposò il pianista e costruttore Andreas Streicher e dalla
loro fabbrica uscirono pianoforti a coda di alta qualità. La meccanica era la
stessa creata dal padre di lei (Johann Stein), nella quale il tasto agiva
direttamente sul martelletto, senza aggiunta di leve, e prese il nome di
meccanica viennese, che va quindi distinta dalla meccanica inglese di
Broadwood, Zumpe e Backers. I pianoforti costruiti con la meccanica
viennese permettevano di conservare il telaio e le corde utilizzate fino allora,
mentre la meccanica inglese, più sonora ed energica, esigeva una maggiore
resistenza e tensione delle corde, quindi un telaio rinforzato, martelletti più
pesanti ed una escursione più lunga.
Nella meccanica viennese il martelletto è articolato in una specie di forcella
fissata alla parte posteriore del tasto. E' inoltre presente una meccanica a
scappamento perfezionata. Nella meccanica inglese il martelletto è articolato
da una barra fissa e lanciato contro la corda da un pilota rigido o che cade in
avanti dai meccanismi a scappamento, ritto sulla parte posteriore del tasto e
che spinge la noce del martelletto. Poiché tale noce si trova vicino all'asse, la
percussione avviene con uno slancio sensibilmente più grande che nel
meccanismo viennese. Grazie al movimento di rimbalzo verso la parte