2
characteristics and motivations. The first part of this work examined the construct of
psychopathy, expecially focused on Hare’s studies on PCL-R. The second one describe
the contruct of sadism, both sadistic personality disorder, with Millon e Davis’s studies,
and sexual sadism with Dietz, Hazelwood and Warren’s works. To attemp the
cormobidity with psychopathy and sadism also a psychodinamic approach is
considered, expecially Kernberg’s and Meloy’s works. The last part deals with
sadomasochistic perversion, trying to identify the causes and the behavioral aspects.
3
INTRODUZIONE
La prima curiosità da cui questa tesi è nata, è maturata in me dall’acuto interesse
stimolato dalle personalità, per semplicità, definite devianti. In realtà questa definizione
è tutt’altro che esaustiva, giacché sono molte le tipologie convogliate in essa, che si
differenziano tra loro per la genesi, le motivazioni e i conseguenti comportamenti. In
particolare, quella che più ha stimolato il mio interesse è una particolare personalità,
poco considerata e il più delle volte all’ombra di altre patologie più note e diffuse: la
personalità sadica. In questa etichetta troviamo e dobbiamo distinguere, in realtà, due
tipi di disturbi: il disturbo sadico di personalità, le cui tracce rimangono solo nella terza
edizione del DSM (Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali) e il sadismo sessuale,
definito come parafilia, in altre parole perversione sessuale, ma che in realtà è ben più
complesso, caratterialmente, della sola perversione. Per comodità espositiva sarà usato
il termine unico di sadismo. In realtà, nella definizione, potremmo includere anche le
dinamiche perverse sadomasochistiche giacché vi è un’interazione tra il sadismo
sessuale e il masochismo sessuale.
Prima di proseguire, però, vorrei fare una precisazione. Nel corso dell’esposizione di
questa tesi farò molte volte cenno al termine “perversione”, sebbene, in questi ultimi
anni, esso sia caduto in disuso, sostituito da quello di parafilia, più neutro e sprovvisto
di connotati morali che ci permettano di formulare giudizi. In realtà, però, il termine
parafilia sembra risultare generico e inappropriato quando si parla di sadomasochismo
giacché “filia” sembra evocare componenti affettivo/amorose, che poco hanno a che
fare con il sadismo. Per questo motivo ho preferito fare riferimento a queste patologie
con il termine di perversione, che meglio le esprime e ne rappresenta la gravità.
4
Purtroppo la letteratura e le ricerche su queste manifestazioni del sadismo sono, in
concreto, inesistenti in Italia, rare e difficilmente reperibili quelle all’estero. Gran parte
del materiale che qui compare in bibliografia è inesistente in Italia, ed è stato recuperato
grazie ai periodici elettronici e, ancor più, grazie alla disponibilità di molti degli autori
citati che, dopo mia richiesta, hanno inviato i loro lavori (tra i quali anche Otto
Kernberg).
Fortunatamente, esaminando i primi documenti da me trovati, ho notato che il
termine sadismo ricorreva frequentemente e in stretta associazione ad un altro costrutto,
di più ampia diffusione e validazione: quello di psicopatia. Qui il recupero del materiale
è stato più agevole, data l’ampia letteratura, sebbene non sia frequentemente usato in
ambito clinico. Ho così ancorato il concetto di sadismo ad uno più solido, quello
appunto della personalità psicopatica, sviluppando l’analisi delle personalità
psicopatico-sadiche.
L’obiettivo dell’elaborato è di individuare, spiegare e capire e perché no, stimolare
ulteriori interessi e ricerche circa l’aggressività e la violenza primitiva manifestate da
queste personalità, troppo spesso trascurate (a livello empirico e di ricerca) ma troppo
spesso (purtroppo) presenti, ma confuse, in ambito clinico e forense.
In particolare, per il costrutto della psicopatia, l’approccio utilizzato è quello più
noto e diffuso di Robet D. Hare, psicologo nord americano che ha costruito l’unico
strumento utile per individuare la psicopatia in ambito clinico: la PCL (Lista di
Controllo della Psicopatia), in una prima versione del 1980 e una versione rivista e
definitiva nel 1991, la PCL-R.
Per il sadismo, invece, l’approccio più indagato fa riferimento agli studi di Park
Elliot Dietz, Robert Hazelwood e Janet Warren, J Reid Meloy, e Kernberg. In
5
particolare, Dietz et al., sono gli unici che abbiano effettuato ricerche sul campo, in
maniera sistematica e per diversi anni, analizzando la psicopatia nella sua associazione
al sadismo, descrivendone le manifestazioni comportamentali. Forniscono, quindi, un
approccio descrittivo, non addentrandosi in spiegazioni psicodinamiche. Queste ricerche
sono abbastanza recenti e famose (partono dagli anni novanta), non esistono antecedenti
studi di rilievo scientifico con campioni psicopatico-sadici, analoghi a quelli riportati da
questi autori.
Anche Meloy effettuò delle ricerche su soggetti con questo disturbo, ma il suo
approccio, analogamente a Kernberg e Brittain (autore inglese che nel 1970 descrisse
dettagliatamente la figura del sadico omicida), più che descrittivo è di natura
psicodinamica, cercando un perché alle manifestazioni comportamentali descritte da
Dietz et al. Vediamo ora, in dettaglio, l’articolazione in parti e capitoli di questo lavoro.
Come potrà essere emerso da quanto accennato sinora, questa tesi è suddivisa in tre
parti, non perché l’argomento trattato da ciascuna sia diverso, ma per completezza di
spiegazione e chiaro inquadramento del disturbo (le personalità psicopatico-sadiche),
che, come ho appena detto e come risulta dal nome, deriva dall’unione di due disturbi,
solitamente studiati e considerati separatamente: la psicopatia e il sadismo.
La prima parte (“La personalità psicopatica”), che si compone di tre capitoli, tratta il
disturbo psicopatico.
Il primo capitolo (“Il costrutto della psicopatia: breve inquadramento storico”)
fornisce un quadro storico, abbastanza recente, poiché quello che più interessa agli scopi
di questo lavoro, sebbene descrizioni di quella che sarà poi denominata come psicopatia,
le troviamo già nell’ottocento con Philippe Pinel (1745-1826), considerato il fondatore
della psichiatria moderna, ed Emil Kraepelin (1856-1926) che, riprendendo il pensiero
6
di Pinel, utilizzerà, per la prima volta, il nome di “personalità psicopatica”. Si
analizzerà, inoltre, lo sviluppo del concetto di antisocialità, attraverso le diverse edizioni
del DSM, necessario per mostrare le differenze con il costrutto della psicopatia, come
indicato da Hare, e per evitare confusioni diagnostiche. Una precisazione: in
bibliografia, per completezza, compaiono tutte le edizioni del DSM citate nel corso del
lavoro. In realtà le informazioni circa l’edizione I, II, III e III-R sono state ricavate dagli
scritti consultati, mentre la quarta edizione è stata concretamente utilizzata.
Il secondo capitolo (“Il profilo della personalità psicopatica: PCL-R, Five-Factor-
Model e relazioni oggettuali”), svilupperà i 20 item della PCL-R, fornendone una
descrizione psicologica e comportamentale e rivisitandoli secondo l’approccio del Five-
Factor-Model di Costa e McCrae (modello a cinque dimensioni per lo studio dei disturbi
di personalità), che pare inquadrare molto bene il disturbo. Sarà, inoltre, approfondito
l’aspetto psicodinamico delle relazioni oggettuali, particolarmente studiate da Meloy.
Poiché tale capitolo descrive gli aspetti psicologici (perciò salienti) di tali
personalità, volutamente, come si noterà, risulta più lungo rispetto a tutti gli altri, in
modo da fornire un quadro compatto e ben preciso.
Il terzo ed ultimo capitolo (“Le origini della psicopatia: il modello Bio-Psico-
Sociale”) fornirà, partendo dall’approccio di Paris ma evolvendosi in un’analisi
attraverso numerosi studi, una spiegazione circa la genesi della personalità psicopatico-
sadica, individuando i fattori biologici, con studi effettuati su eventuali alterazioni del
sistema nervoso e dei neurotrasmettitori, i fattori psicologici e quelli sociali, citando, in
particolare, per questi ultimi, i lavori di Cooke e Michie sulle differenze transculturali.
La seconda parte (“La personalità sadica”) si compone anch’essa di tre capitoli, ben
articolati in diversi paragrafi.
7
Il quarto capitolo (“Definizione del costrutto di sadismo”) inquadrerà il sadismo
sessuale e il disturbo sadico di personalità (SPD) attraverso la loro descrizione nel
DSM, nonché attraverso alcune definizioni fornite dal contributo di vari autori.
Fornisce, quindi, un’impronta storica, anch’essa abbastanza recente, nonostante i
molteplici lavori di Sigmund Freud (1856-1939). Volutamente questo autore è stato
omesso, giacché l’obiettivo non era esaminare il sadismo, con un’ottica psicoanalitica,
esclusivamente quale perversione, bensì la sua più complessa sfaccettatura quale
disturbo di personalità, particolarmente associato alla psicopatia, aspetti assenti nei
lavori del fondatore della psicoanalisi.
Il quinto capitolo (“Il profilo psicologico del disturbo sadico di personalità”), al pari
del secondo capitolo della prima parte, analizzerà questo costrutto, secondo l’ottica del
Five-Factor-Model e degli studi di Millon e Davis, tra i pochi autori che lo abbiano
studiato approfonditamente. Si esamineranno le caratteristiche cliniche e di personalità,
con brevi accenni alle cause, anche qui biologiche, psicologiche e sociali. Si noteranno
alcune differenze tra questa personalità e il sadismo sessuale, in particolare il sadismo
manifestato da questi soggetti con SPD si esprime maggiormente nei rapporti
interpersonali più che in quelli sessuali.
Il capitolo sesto (“Il profilo psicologico del sadico sessuale”) svilupperà un profilo
di queste personalità, che maggiormente si avvicinano alla psicopatia per la loro
cattiveria e crudeltà gratuita, manifestata, soprattutto, nella sessualità agita, sebbene il
loro sadismo si estenda, inevitabilmente, anche ad altri ambiti delle attività umane. Si
analizzeranno gli studi di Brittain, di Dietz, Hazelwood e Warren e di MacCulloch,
Snowden, Watt et al., sull’importante ruolo e la genesi (tramite la precondizione
sensoriale) delle fantasie sadiche sessuali. Anche un’interessante teoria di stampo
8
biologico sarà esaminata e applicata allo studio del comportamento sadico (teoria del
processo opponente). Per concludere, l’approccio psicodinamico di Kernberg e Meloy
fornirà un contributo alla comprensione della cormobidità tra psicopatia e sadismo.
La terza ed ultima parte dell’elaborato (“La perversione sadomasochistica”),
sebbene meno articolata delle precedenti, a causa degli scarsi studi effettuati, è stata
inserita poiché, sebbene il sadomasochismo possa differenziarsi e presentarsi
indipendentemente dagli atti commessi dagli psicopatico-sadici, rimanendo confinata ad
una semplice pratica perversa occasionale, può, tuttavia, manifestarsi in questi soggetti
nel momento in cui essi esprimono la loro violenza nella sfera della sessualità, ma non
solo, come rilevano Meloy e Kernberg. Il sadomasochismo, al pari del sadismo, nel
momento in cui diviene una patologia strutturata, si estende anche a livello dei rapporti
interpersonali, non limitandosi alla sola sessualità.
Questa parte si compone di un solo capitolo (“Psicodinamica della perversione
sadomasochistica”), che mostrerà come questa perversione sia la più rappresentativa
della violenza e della crudeltà espressa. Cercherà anche di individuare le cause,
chiamando in gioco i meccanismi dissociativi, che, guarda caso, sono i medesimi
riscontrati nella genesi della personalità psicopatico-sadica.
Nella parte finale della tesi saranno integrate alcune tabelle, ad esemplificare con
maggior precisione alcune ricerche e/o concetti fondamentali.
9
PARTE PRIMA
LA PERSONALITA’
PSICOPATICA
CAPITOLO 1
IL COSTRUTTO DELLA PSICOPATIA: BREVE
10
INQUADRAMENTO STORICO
Questo primo capitolo cercherà di inquadrare storicamente il costrutto della
psicopatia, giacché le sue origini risalgono fin dai primi anni del diciannovesimo secolo,
ma con il passare del tempo le sue caratteristiche cliniche hanno subito notevoli
riformulazioni, tanto da renderlo uno dei costrutti psicologici maggiormente sfruttati
nella letteratura e nell’arte cinematografica. Si è così imposto una sorta di stereotipo
dello psicopatico nell’immaginario collettivo, che è comunemente usato di fronte alla
cronaca degli omicidi più efferati, per i quali non si riesce a fornire una spiegazione
circa le possibili cause dell’atto.
Una delle prime figure in ambito psichiatrico che descrisse un pattern (o modalità)
di comportamento, che sarà successivamente etichettato come psicopatico, fu Philippe
Pinel (1745-1826), con la sua descrizione della “mania senza delirio” (Pinel, 1809,
citato in Millon, Simonsen E. e Birket-Smith, 1998). Egli fu uno dei primi a riconoscere
la possibile presenza di un comportamento gratuitamente crudele senza che ciò fosse
necessariamente accompagnato da un deficit della ragione, della percezione, della
memoria o altro. Per citare le sue stesse parole:
“E’ continua, o caratterizzata da accessi periodici. Nessuna
alterazione manifesta nelle funzioni dell’intelletto, della percezione,
del giudizio, dell’immaginazione, della memoria, ma
perversione delle funzioni affettive, impulso cieco ad atti di violenza,
o anche di furore sanguinario senza che si possa trovare alcuna idea
dominante, alcuna illusione dell’immaginazione che sia la causa
determinante di queste funeste inclinazioni”. (Pinel, 1809, citato in
11
Millon, Simonsen E. e Birket-Smith, 1998).
Il concetto elaborato da Pinel (1809) sarà ripreso da Emile Kraepelin (1856-1926) e
denominato dapprima “stato psicopatico” ed infine “personalità psicopatica”, un
disordine di natura costituzionale e degenerativa che si esprime in notevoli deficienze
affettive (Kraepelin, 1904, citato in Millon, Simonsen E. e Birket-Smith, 1998).
Nel corso del secolo scorso si sono sviluppate notevoli altre concettualizzazioni, in
cui non mi dilungo, che sono andate a confluire nelle definizioni utilizzate dal DSM per
costruire i criteri per il disturbo antisociale.
Partirò dal DSM-II giacché nella prima edizione (APA, vale a dire American
Psychiatric Association, 1952) vi era una notevole confusione terminologica: si passava
dal termine di personalità sociopatica a quello di perturbazione sociopatica di
personalità senza, però, individuare precisamente il disturbo.
1.1. Psicopatia e DSM-II, DSM-III E DSM-III-R
La seconda edizione del manuale diagnostico per i disturbi mentali appare nel 1968
(APA, 1968). Essa descrive il comportamento psicopatico, riferendosi ad una persona
che esibisce atteggiamenti con evidente carattere antisociale, un soggetto privo di ogni
forma di socializzazione, impulsivo, incapace di provare sentimenti di colpa, egoista e
insensibile. Un individuo che razionalizza il proprio comportamento, incapace ad
apprendere da esperienza negative e con una bassa soglia di tolleranza della
frustrazione. Il DSM-II (APA, 1968) specifica, inoltre, che il semplice resoconto di reati
contro la società e la legge non è sufficiente a giustificare questa diagnosi.
12
Tali caratteristiche sono molto simili a quelle descritte da Cleckley (1976) nella sua
celebre opera “ The Mask of Sanity” (Blackburn e Maybury, 1985) e riprese
successivamente da Hare nella costruzione della PCL (Hare, 1980) e della PCL-R nel
1991.
Sfortunatamente questa edizione del DSM non forniva precisi criteri diagnostici per
l’individuazione univoca del disturbo, rendendolo, in tal modo, di scarsa utilità in
ambito clinico. Inoltre gli item forniti per la descrizione del disturbo, riferendosi a
caratteristiche psicologiche della personalità, non avevano ottenuto una necessaria
validazione in campo psicometrico. Ciò ha reso difficile sviluppare ricerche e ha portato
molti studiosi a tentare di operazionalizzare i costrutti in modi diversi, focalizzandosi
maggiormente sulle manifestazioni comportamentali, piuttosto che sugli aspetti
psicologici, come emerge nel DSM-III, apparso nella sua prima edizione nel 1980
(APA, 1980).
In questa terza edizione il termine psicopatia è sostituito con quello di disturbo
antisociale di personalità. La nuova edizione apporta delle migliorie, ma presenta anche
delle lacune.
L’aspetto positivo è offerto dall’introduzione di precisi criteri tramite i quali si può
più agevolmente effettuale una diagnosi in ambito clinico. Purtroppo, però, questi criteri
fanno riferimento solo agli aspetti più superficiali del disturbo, vale a dire a quelle che
sono le manifestazioni comportamentali del disturbo (furto, comportamento lavorativo
inadeguato, esperienze di arresto ecc.).
Sono completamente escluse le caratteristiche psicologiche, gli aspetti affettivi e
relazionali, che sono tipici dello psicopatico e che il DSM-II (APA, 1968) aveva
individuato. Tra le ragioni addotte a giustificare questa omissione vi fu la constatazione
13
che i tratti di personalità sono più difficili da misurare attendibilmente (problema che
era, infatti, emerso anche nella precedente edizione del DSM (APA, 1968)). E’ più
facile trovare un accordo sui comportamenti più immediatamente osservabili piuttosto
che sulle ragioni profonde di questi comportamenti (Blackburn e Maybury, 1985).
Questo ha portato a delle notevoli conseguenze. Innanzi tutto ad una sovrastima
dell’occorrenza della psicopatia nell’ambito della popolazione criminale e ad una sua
sottostima presso la popolazione non criminale. Appare, infatti, chiaro che un soggetto
criminale, per definizione, ha sicuramente commesso atti antisociali ed è quindi facile
che possa soddisfare alcuni dei criteri che il DSM-III (APA, 1980) prevede per la
diagnosi di questo disturbo. Non è, però, così automatico che alla base di questi atti vi
sia una struttura di personalità di tipo psicopatico, con gli affetti e l’emotività che
contraddistinguono questo soggetto dai delinquenti comuni (Cooke, Michie, Hart et al.,
2004; Cunningham e Reidy, 1998; Hare, 1996; Harris, Rice, Quinsey, 1994).
Di contro, invece, un soggetto che possiede questa sottostante struttura può non aver
ancora prodotto atti criminali tali da soddisfare i criteri del DSM-III (APA, 1980) ed
essere, quindi, diagnosticato come soggetto antisociale. Potremmo definirlo come uno
psicopatico non ancora manifesto, i cosiddetti, psicopatici dai colletti bianchi, come li
definisce Hare (1993), poiché i loro psicopatici tratti latenti non esplodono in maniera
violenta, bensì questi soggetti usano il loro fascino e le loro abilità manipolatorie per
sfruttare gli altri ed ottenere tornaconti personali. In questo caso, quindi, si sottostima la
presenza della psicopatia tra la popolazione non criminale (Cooke, Michie, Hart et al.,
2004, Cunningham e Reidy, 1998; Hare, 1996; Harris, Rice, Quinsey, 1994; Reid,
2001).
14
Il risultato di tutto ciò è stato quello di far condividere la diagnosi di antisocialità ad
individui ben diversi per motivazioni, tratti di personalità, e attitudini. I criteri del DSM-
III (APA, 1980) uniformano, quindi, in maniera indiscriminata il comportamento
delinquente, confondendo tra antisocialità e psicopatia. Ciò costituirebbe un ostacolo al
tentativo di effettuare una corretta diagnosi, individuando i diversi fattori predisponenti
il comportamento di ciascun soggetto (Hare, 1996; Cunningham e Reidy, 1998).
Secondo Kernberg (1993), addirittura, il DSM-III (APA, 1980) trascurerebbe una
particolare tipologia del disturbo antisociale, il cosiddetto antisociale non aggressivo-
passivo, nel quale predominano comportamenti parassitari o di sfruttamento, piuttosto
che veri e propri atti aggressivi (Kernberg, 1993).
Il problema permane anche nella revisione della terza edizione (DSM-III-R),
pubblicata nel 1987 (APA, 1987).
Bisogna ricordare che, sebbene la psicopatia sia in stretta associazione con
l’antisocialità, essa non va confusa con la criminalità comune (Cunninham e Reidy,
1998; Harris, Rice e Quinsey, 1994; Hare, 1996; Cooke, Michie, Hart et al., 2004; Reid,
2001).
Lo psicopatico, a causa delle sue peculiari caratteristiche affettive, è
qualitativamente diverso dagli altri criminali, nel suo comportamento. Ha una carriera
criminale unica nel suo genere, rispetto alla frequenza dei comportamenti criminali, alle
motivazioni e anche rispetto al tipo di crimini commessi. Le cause che comunemente
possono spiegare il concetto di antisocialità non sono applicabili per lo psicopatico.
Come sostiene anche Eysenck (1998), sebbene criminali e psicopatici siano
entrambi caratterizzati da comportamenti antisociali, la delinquenza comune può non
15
essere psicopatica nella personalità (Eysenck, 1998; Cooke, Michie, Hart et al., 2004;
Hare, 1996; Cunningham e Reidy, 1998; Harris, Rice, Quinsey, 1994; Reid, 2001).
Inoltre la frequenza dei reati nel soggetto psicopatico (generalmente iniziata molto
precocemente), può diminuire con l’aumentare dell’età ma a ciò non corrisponde
un’attenuazione dei tratti di personalità che permangono, invece, invariati nel tempo e
resistenti ad ogni tipo di intervento correttivo, rendendo più facile la predisposizione al
recidivismo e alla violenza (Snowden, Gray N. S., Smith J et al., 2004; Serin e Amos,
1995; Serin, 1996; Hare, 1999; Harpur e Hare, 1994; Hemphill, Strachan e Hare, 1998;
Dolan e Doyle, 2000; Harris, Rice, Cormier, 1991).
1.2. Psicopatia e DSM-IV
Considerati i problemi emersi nelle due precedenti edizioni del DSM i ricercatori
hanno cercato una nuova soluzione nella costruzione della quarta edizione del DSM
(APA, 1994). Gli psichiatri, chiamati a costruire questa nuova edizione, hanno cercato
di considerare tre fonti di informazioni:
? I criteri per il disturbo antisociale come indicati dal DSM-III-R (APA, 1987);
? I criteri indicati da Hare per la psicopatia (Hare, 1980);
? I criteri indicati nell’ICD-10 (Manuale dei Disturbi Mentali elaborato dall’OMS,
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1992) per il disturbo dissociale di
personalità.
La ricerca indicò chiaramente che anche i tratti della personalità psicopatica, esclusi
nel DSM-III (APA, 1980), potevano essere affidabili quanto la maggior parte degli item
contemplati in questa terza edizione.