aumento del deficit pubblico
3
– viene circoscritta alle situazioni di crisi reversibile,
risolvibili attraverso un sostegno temporaneo erogato per un periodo limitato in
quanto si prevede un riassorbimento dei lavoratori. Mentre le eccedenze
strutturali non riassorbibili vengono attratte nell’area della mobilità, che prevede
la peculiare ricollocazione guidata dei lavoratori eccedentari nel mercato del lavoro
esterno.
Questa distinzione, tra integrazione salariale e mobilità, in tempi recenti è stata
almeno in parte sconfessata. La legislazione successiva
4
ha proceduto, infatti, ad
offuscare il disegno razionalizzatore perseguito dalla legge n.223 del 1991,
mediante una “rivitalizzazione” dell’intervento della cassa integrazione guadagni,
che sempre più spesso sconfina dai suoi territori di intervento verso quelli
teoricamente assegnati all’istituto della mobilità. In questa fase di decisa
regressione dell’impostazione riformistica della CIGS varata pochissimi anni
prima, il legislatore si è quindi indirizzato verso una parziale restaurazione della
funzione “impropria” dell’integrazione salariale straordinaria, come strumento che
consente una conservazione solo formale del rapporto di lavoro con il personale
strutturalmente eccedentario, privo di ogni prospettiva di recupero alla realtà
produttiva dell’impresa di appartenenza
5
.
Questa situazione deve essere inserita nell’attuale contesto economico. Infatti,
durante gli anni ’90 il fenomeno delle eccedenze di personale ha subito una vera e
propria “mutazione genetica”, rispetto alle caratteristiche manifestate nel ventennio
precedente: nel corso degli anni ’70 e ’80 le eccedenze si presentavano come un
fenomeno patologico normalmente collegato alle crisi d’impresa, dovute a fattori
interni o esterni, di tipo strutturale o congiunturale; mentre a partire dalla fine degli
anni ’90 esse sono diventate un fenomeno direttamente connesso ai continui e
naturali processi di adattamento dei sistemi produttivi alle sfide della competizione
internazionale. I processi economici di globalizzazione dei mercati, l’avanzare di
3
Una trattazione completa dell’evoluzione storica dell’uso della CIGS verrà affrontata nel CAP.VII
4
Su questo punto anche FERRARO “Politiche dell’impiego e crisi occupazionale nella
L.236 in LI 1993, n.19, 5 ss.; NAPOLI “Le nuove disposizioni in materia di licenziamenti
e di mobilità”, in RGL, 1994, I, 181 ss.; MISCIONE “Mercato del lavoro : la legislazione
del 1994”, n.46
5
Numerose recenti disposizioni autorizzano ora l’autorità amministrativa a concedere proroghe
dell’intervento della CIGS per crisi, ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale per
periodi notevolmente eccedenti i limiti di durata stabiliti dall’art1 della legge n. 223 per il
trattamento di CIGS, con il fine, a volte dichiarato, di “tamponare” le conseguenze di ordine sociale
che scaturirebbe da un eventuale licenziamento collettivo
metodologie organizzative di produzione e commercializzazione delle merci
sempre più flessibili, articolate ed in rapida evoluzione, hanno reso manifesta
l’esigenza di regole in grado di gestire con efficacia la segmentazione del mercato
del lavoro e degli effetti della stessa sul capitale umano, attraverso la sfida della
creazione di nuove forme di incrocio tra tre irrinunciabili aspetti della modernità :
competizione, cooperazione e solidarietà. In una realtà economica di questo tipo, il
continuo rinnovamento degli apparati produttivi, l’ adeguamento immediato alle
domande del mercato, quindi il conseguente dimensionamento dei livelli
occupazionali in relazione all’effettivo bisogno di forza lavoro, sembrano
rappresentare, per le imprese, un’esigenza assolutamente inevitabile, una
condizione di sopravvivenza nel mercato. Il mondo industriale è investito in pieno
da questi mutamenti, e sta ricostruendo la propria fisionomia in maniera
sostanziale, abbandonando una filosofia della produzione di massa centrata su
grandi volumi (il taylorismo-fordismo) che gli ha assicurato per quasi un secolo un
ruolo fondamentale nello sviluppo delle economie occidentali. Si assiste così, a
causa dell’ evoluzione tecnologica, della mondializzazione dell'economia, della
crescente importanza dei mercati finanziari, al lento ma inesorabile passaggio a
un nuovo sistema produttivo chiamato post-fordismo. Esso è caratterizzato da:
utilizzo massiccio delle nuove tecnologie; produzione in piccola scala di prodotti
differenziati; i "saperi" diventano merce di scambio sul mercato del lavoro; il lavoro
autonomo rimpiazza il lavoro salariato e dipendente.
Le innumerevoli crisi strutturali, determinate dal passaggio da un’economia di
massa, ad una globalizzata e flessibile, comportano da parte delle imprese l’avvio
di strategie di ristrutturazione o di diversificazione. Le difficoltà che le imprese
incontrano nell’attuazione di simili strategie, comportano, spesso, l’impossibilità di
reintegrare tutti i lavoratori in posizione di “esubero” ed impongono, la loro mobilità
verso altre imprese, (spesso anche in altre aree geografiche) o la loro messa in
Cassa Integrazione. Ma se, da un lato, gli ammortizzatori hanno permesso in molti
casi di evitare che le crisi aziendali avessero costi sociali più elevati e modalità di
manifestazione più pericolose per la vita associata, d'altro lato, essi hanno
mostrato evidenti carenze sia sul terreno dell'equità, sia su quello dell'efficienza,
ossia il riassorbimento produttivo dei lavoratori rimasti disoccupati. Le crisi, le
difficoltà e le congiunture troverebbero una più efficiente risoluzione se affrontate
sul mercato, e, sostenute da una serie di ben congegnati interventi pubblici sul
piano del finanziamento delle operazioni complesse di riconversione, (per
l’acquisto di nuovi macchinari, per le, e per i corso di formazione dei dipendenti,
che quello organizzativo e di mercato), e sul piano della organizzazione. Infatti,
gestire il cambiamento è un’operazione ad alta intensità di management, ed è
necessario distinguere tra progetti basati su idee sbagliate e progetti che falliscono
per carenze di fondi nella fase di applicazione. Attualmente, in seguito alla stipula
del “Patto per ilo sviluppo e l’occupazione” nel 1998, sono state introdotte
innovazioni del mercato del lavoro, che permettono di attuare la strategia vincente
per creare occupazione, basata su : istruzione, formazione, assunzioni agevolate,
incentivi all’autoimprenditorialità giovanile e femminile, sviluppo delle cooperative
di produzione e lavoro e sgravi fiscali per le imprese. Queste politiche attive del
lavoro permettono un aumento delle probabilità di trovare una nuova occupazione
da parte di soggetti espulsi dal mercato del lavoro.
Tutto ciò sarà oggetto della trattazione del presente lavoro.
D’altra parte bisogna sottolineare l’elevato grado di problematicità che caratterizza
i licenziamenti collettivi, connesso soprattutto alla difficoltà di contemperare le
diverse esigenze, quindi i diversi interessi, quello dell’imprenditore e quello della
forza lavoro, entrambi costituzionalmente rilevanti (quindi parimente meritevoli di
tutela), nella cui mediazione risulta particolarmente difficile individuare il punto di
bilanciamento.
L’interesse del datore di lavoro consiste nel dimensionamento delle strutture e
dell’attività d’impresa da realizzare con la contrazione della forza lavoro occupata.
Interesse che trova piena legittimazione e riconoscimento fra i principi
costituzionali : l’art.41 Cost. infatti assicura all’imprenditore la libertà di iniziare e di
condurre l’attività economica, ma anche di cessarla ridurla e/o trasformarla. Allo
stesso tempo però la dismissione collettiva dei rapporti di lavoro determina allarme
sociale a causa dell’incolpevole disoccupazione di ogni singolo lavoratore.
La complessità del fenomeno ha portato il legislatore italiano ad un astensionismo
legislativo, compensato però dall’adozione di una politica di prevenzione delle
riduzioni del personale realizzata con la creazione di sistemi alternativi: CIG e
circuiti di mobilità (ex L. n. 675/1977). Questa legge era stata concepita per
guidare lo spostamento del personale esuberante, da settori ed imprese in crisi a
settori ed imprese in espansione, tramite il blocco dei licenziamenti collettivi ed il
ricollocamenti con ricorso a circuiti preferenziali. I problemi occupazionali
dovevano essere risolti con una mobilità interna, che imponeva la costituzione di
un nuovo rapporto di lavoro in un’altra impresa necessitante di manodopera.
La mobilità interna, però, nella maggior parte dei casi, non si è mai verificata: i
lavoratori eccedenti mantenevano un rapporto di lavoro meramente fittizio con
l’impresa, usufruendo quindi a tempo indeterminato del sistema garantista-
assistenziale della CIG, i cui notevoli costi gravavano sull’intera collettività, a
scapito dell’eventuale successivo inserimento occupazionale.
L’utilizzo di questi sistemi ha realizzato quindi effetti perversi, che hanno portato
allo snaturamento del disegno legislativo (L.n.675/1977).
Si giunge ad una vera e propria disciplina del licenziamento collettivo, con la
L.n.223 del 1991, in cui confluiscono gli accordi interconfederali, del 1950 e del
1965
6
,che rappresentano la maggior parte della normativa generale; la normativa
negativa contenuta in diverse leggi, come l’art.11 della L. n. 604 del 1966, per cui “
la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle
disposizioni della presente legge”; nonchè i principi di derivazione
giurisprudenziale, consolidatisi, sia pure con molte incertezze, nel corso degli
anni
7
. Bisogna inoltre ricordare che con questa legge lo Stato italiano ha
finalmente assolto l’obbligo, impostogli dalla Direttiva Comunitaria dal 1975
8
, che
imponeva un’armonizzazione delle legislazioni nazionali degli Stati Membri per
quanto riguarda, appunto, la disciplina dei licenziamenti collettivi.
Queste disposizioni sono state successivamente modificate ed integrate da leggi e
decreti legge successivi, volti all’adeguamento
Il licenziamento collettivo, aveva assunto la connotazione di scelta politicamente e
socialmente sconveniente
9
, in confronto all’alternativa di una prosecuzione, anche
se solo formale, del rapporto di lavoro, i cui costi venivano quasi interamente
addossati alla collettività. A fronte di questa situazione degenerativa divenuta
6
vedi infra cap.I
7
U. Carabelli in “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”n62,1994 ,2
8
per la mancata attuazione di essa l’Italia si era meritata due condanne in sede comunitaria. Per una
dettagliata spiegazione, si veda infra cap.I
9
E limitando il potere del datore di lavoro di procedere a riduzioni di personale: si veda in argomento
MONTUSCHI “Mobilità e licenziamenti: i primi appunti ricostruttivi ed esegetici in margine alla L.223 del
23 luglio 1991 in RIDL, 1991, I, 413 e ss., spec.421.
insostenibile, per lo smisurato sforzo finanziario richiesto alla spesa pubblica, per
l’impossibilità di rimandare i processi di riorganizzazione delle imprese, ed in vista
dell’ingresso del sistema produttivo italiano all’interno del quadro europeo, la legge
del 1991 ha inteso ricondurre l’istituto delle integrazioni salariali all’originaria
funzione di recupero delle eccedenze temporanee in occasione di situazioni
reversibili di crisi o di ristrutturazione dell’apparato produttivo.
Tale provvedimento intende quindi scongiurare il “congelamento” a tempo
indefinito delle eccedenze occupazionali
10
, attraverso la
L’internazionalizzazione dei mercati ha accentuato l’esigenza delle imprese di
ridurre i costi di produzione per poter restare competitive. L’espansione dell’area
dei servizi e la rivoluzione tecnologica hanno favorito l’automazione e il
decentramento produttivo e hanno spostato la classe operaia dal centro delle
società postindustriali. Tali caratteristiche del processo produttivo accentuano
l’esigenza di un corrispondente rapido adattamento della dimensione
occupazionale delle imprese all’entità della domanda di lavoro che fa oscillare
notevolmente in tempi sempre più ristretti il fabbisogno di manodopera, e quindi
accentua la propensione delle imprese all’instaurazione di rapporti temporanei, e
nei rapporti a tempo indeterminato a sospendere o a ridurre la retribuzione e/o
l’orario di lavoro
La disciplina normativa della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria e dei
licenziamenti collettivi sta attualmente attraversando una fase di profonda
trasformazione, di conseguenza il panorama normativo odierno, relativamente a
tali materie appare assai frammentario e frastagliato.
10
Su questo obiettivo della legge n.223 del 1991 anche MAGNANI sub art.1 in “Commentario alla legge 23
luglio 1991, n.223, a cura di PERSIANI, in NLCC, 1994, 887
Sezione I
RIDUZIONE DEL PERSONALE
TRAMITE LICENZIAMENTO
CAPITOLO I
FONTI ED EVOLUZIONE NORMATIVA
DELLA DISCIPLINA SUI LICENZIAMENTI
COLLETTIVI IN ITALIA.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Gli Accordi Interconfederali – 3. La
normativa successiva e le Direttive Europee.
1- Introduzione
La legge 23 luglio 1991 n.223
1
, ha colmato la lacuna normativa in materia di
licenziamenti collettivi originata dall’art.11, 2° comma della L. 15/07/1966, n.
604, che escludeva dal suo ambito di applicazione la disciplina dei
licenziamenti collettivi. La carenza di disposizioni aveva indotto la Corte di
Giustizia della Comunità Europea a dichiarare, tramite due sentenze
2
, lo
Stato italiano inadempiente agli obblighi del Trattato CEE, per la mancata
attuazione della direttiva 17 febbraio 1975, n.129, mirante a rendere
operativa in ambito europeo una comune nozione e una stessa disciplina del
recesso intimato per “motivi non inerenti alla persona del lavoratore”.
1
Pubblicata sulla G.U. del 27 luglio 1991 ed entrata in vigore l’11 agosto 1991
2
per inosservanza degli obblighi derivanti dall’art.100 del Trattato Comunitario Sentenze,
l’Italia era stata condannata dalla sentenza dell’ 8 giugno 1982 in causa 91/81,in Foro It.
1982, IV, 353; e Sent. 6 novembre 1985 in causa 131/84, in foro It., 1986, IV, 109. Peraltro
l’art.11 cit. era stato ritenuto costituzionalmente legittimo da Corte Cost. 28.06.1985, n.191,
in M.G.L. , 1985, 277. Nelle difese presentate dal nostro Governo si evidenziava come
l’adempimento fosse più formale che sostanziale, visto che nella prassi il condizionamento
sindacale e pubblico sui licenziamenti collettivi risultava operante e garantista come anche la
tutela dei lavoratori tramite istituti come la CIG.
2- Gli accordi interconfederali
Prima dell’intervento normativo del 1991, il licenziamento collettivo risultava
disciplinato, solo nel settore industriale, per le aziende al di sopra dei 10
dipendenti, e su base contrattuale. Infatti, il problema della riduzione di
personale nelle aziende, si pose fin dall’immediato dopoguerra in
conseguenza della gravissima situazione dell’attività produttiva. In un primo
tempo fu adottata una la soluzione drastica del “blocco dei licenziamenti”,
stabilita in via transitoria dal decreto legge del 21 agosto 1945, n.523.
Sistema temporaneo e ben presto superato. Successivamente, infatti con
l’Accordo Interconfederale dell’industria dell’ 8 agosto 1947
3
, si prevedeva,
(all’art.3) la reintroduzione nell’ambito delle relazioni industriali dell’ istituto
delle Commissioni Interne, soppresse durante il regime fascista, cui fu
affidata la competenza della disciplina dei “licenziamenti per riduzione di
personale
4
”.
3
che sostituì il precedente accordo del 2 settembre 1943, il cosiddetto accordo Buozzi-
Mazzini
4
Gli accordi interconfederali: Il citato articolo prevedeva che nel caso in cui “la Direzione
d’azienda dovesse ravvisare la necessità di attuare una riduzione del numero del personale
dell’azienda per riduzione o per trasformazione di attività o di lavoro, ne informerà la
Commissione Interna, comunicandole i motivi del provvedimento, la data di attuazione e
l’entità numerica”. Successivamente, “La Direzione dell’azienda e la Commissione Interna,
su richiesta di quest’ultima, esamineranno con spirito di mutua comprensione i motivi del
licenziamento e le possibilità concrete ed attuali di evitarlo, senza costituire un carico
improduttivo per l’azienda”.Nel caso in cui, attraverso negoziati tra le parti, si fosse
raggiunto un accordo sul numero dei licenziamenti, si sarebbe provveduto di conseguenza: “i
licenziamenti saranno effettuati in base a criteri obiettivi, in concorso tra loro, tra cui:
anzianità, carichi di famiglia, situazione economica famigliare, particolari capacità tecniche
e di rendimento”; in caso contrario “la questione sarà deferita alle due organizzazioni
interessate – Camera del Lavoro e Associazione territoriale degli industriali _ che
esamineranno le ragioni addotte dalle due parti al fine di pervenire ad un accordo”. La
procedura di conciliazione tra la Commissione Interna e la Direzione ed eventualmente tra le
Organizzazioni Sindacali, doveva rispettare dei tempi di attuazione: “doveva essere
tassativamente esaurita entro il termine complessivo di tre settimane dal giorno della
comunicazione alla Commissione Interna”.
Per quanto riguarda la procedura di comunicazione del licenziamento venne stabilito che “I
licenziamenti per riduzione di personale devono essere motivati come tali nella relativa
lettera di licenziamento”, mentre, a tutela del lavoratore licenziato : ”Nel caso in cui,
Il contenuto dell’ Accordo del 1947, confluì nei due successivi: quello del 20
dicembre 1950, reso efficace erga omnes
5
anche ai lavoratori dell’azienda
non iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, e denominato esplicitamente
“Accordo per i licenziamenti per riduzione di personale”, e quello del 5
maggio 1965, intitolato “Sui licenziamenti per riduzione di personale
6
”.
l’azienda provveda, entro un anno, a nuove assunzioni, dovrà riassumere i lavoratori
licenziati precedentemente, idonei alle mansioni e specialità occorrenti”.Infine erano esclusi
dalla procedura “i licenziamenti per fine lavoro sia nelle costruzioni edili, sia nelle industrie
stagionali e saltuarie” Mazzoni, Anranguren, Papaleoni, Pera, Flammia, Fanfani, Auteri,
Simi, Branca: “La riduzione di personale e la Cassa Integrazione Guadagni”. FRANCO
ANGELI editore, 1980.
5
Reso efficace erga omnes con il D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1019. Con sentenza dell’8
febbraio 1996, n.8, in Foro It. 1966, 201, la Corte Costituzionale aveva dichiarato
costituzionalmente illegittimo il citato decreto, per eccesso di delega, nella parte in cui
prescriveva l’obbligo di un preventivo procedimento di conciliazioni tra le organizzazioni
competenti.
6
Nella premessa si può leggere che l’accordo stesso nasce “dall’intento di porre in essere
uno strumento idoneo, che favorisca la collaborazione tra le loro organizzazioni e gli
appartenenti alle categorie rappresentate, e contribuisca a risolvere pacificamente gli
eventuali contrasti che i provvedimenti di licenziamento possono determinare nei rapporti di
lavoro aziendali. Ciò nella considerazione che la presenza di personale in esubero
determina aggravi nei costi di produzione, dannosi alla vita delle aziende e che, d’altra
parte, il licenziamento di tale personale preoccupa dal punto di vista sociale,
particolarmente in situazioni di disoccupazione”.
L’importante differenza, rispetto all’accordo del 1947, consisteva nel fatto che la materia dei
licenziamenti collettivi veniva sottratta alla competenza delle Commissioni Interne e affidata
direttamente alle Organizzazioni sindacali dei lavoratori e degli industriali. L’ articolo 1
stabiliva che “qualora la direzione dell’azienda ravvisi la necessità di attuare una riduzione
del numero dei lavoratori per riduzione o per trasformazione di attività o lavoro, ne darà
preventiva comunicazione, tramite la propria Associazione territoriale alle Organizzazioni
sindacali provinciali dei lavoratori, ai fini dell’eventuale espletamento della procedura di
cui agli articoli successivi, indicandone i motivi, l’entità numerica dei lavoratori da
licenziare e la data di attuazione. In aziende che occupino oltre 100 dipendenti, nel caso di
sospensione di lavoro la cui durata sia prevista per più di 30 giorni che riguardino oltre il
20 per cento dei lavoratori occupati o comunque oltre 500 dipendenti, l’azienda, tramite la
propria Associazione, ne darà comunicazione alle Organizzazioni dei lavoratori,
precisandone i motivi, l’entità numerica e la durata presumibile”. Nel secondo articolo si
precisano le modalità di espletamento della procedura consultiva: “Le organizzazioni
provinciali dei lavoratori, potranno richiedere all’Associazione degli industriali, entro 7
giorni dalla data della comunicazione, un incontro allo scopo di esaminare i motivi delle
predette riduzioni di personale sulla base delle informazione fornite dall’azienda e le
possibilità concrete ed attuali di evitarle in tutto o in parte, anche mediante eventuali
trasferimenti nell’ambito aziendale, senza costituire un carico improduttivo per l’azienda”.
Fallita la procedura o comunque scaduto il termine massimo previsto (di norma 25 giorni
dalla comunicazione ai sindacati dei lavoratori), il datore di lavoro poteva dar corso ai
licenziamenti in conformità ai criteri di scelta già citati. A tale proposito occorre osservare
come la Suprema Corte,a Sezioni Unite, con pronuncia del 27 febbraio 1979, n.1270,
precisò che “i diversi criteri di selezione hanno all’inizio una pari dignità e che pertanto va
I sette articoli di cui è composto l’ultimo Accordo, riprendono sostanzialmente
quanto previsto negli accordi precedenti. Essi regolamentano “una procedura
conciliativa” nei casi in cui la direzione dell’azienda si ritenga costretta ad
attuare dei licenziamenti per motivazioni non inerenti al lavoratore e/o al
datore di lavoro
7
. Gli accordi interconfederali avevano conferito
prevalentemente garanzie di tipo procedurale, preoccupandosi di
disciplinare l’applicazione dei criteri di identificazione del personale da
licenziare e di riaffermare la necessità del confronto tra l’impresa e le
associazioni sindacali prima di procedere al recesso. Il delicato compito di
delineare la tutela sostanziale dei lavoratori e di definire ontologicamente il
licenziamento collettivo, è spettato alla dottrina e alla giurisprudenza. Infatti,
mancando una vera e propria legge sul licenziamento collettivo, mancava
dimostrato per quale motivo nel caso concreto le esigenze tecniche e produttive meritino di
sopravanzare, per esempio, l’anzianità e/o il carico di famiglia”. Con queste disposizioni i
Sindacati, esautorati di ogni potere nel periodo fascista, hanno quindi ripreso potere
contrattuale all’interno dell’azienda, come viene sottolineato da un’ importante “nota a
verbale” dell’accordo: “nell’ipotesi in cui si sia raggiunto l’accordo sul numero dei
licenziamenti, l’Organizzazione dei lavoratori potrà esaminare la lista dei nominativi allo
scopo di segnalare gli eventuali casi individuali meritevoli di un riesame e di conseguente
sostituzione in relazione ai criteri indicati, senza che tale riesame possa comunque ritardare
l’esecuzione dei provvedimenti aziendali”.
7
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, l’Accordo Interconfederale del 1950, in teoria
limitato al settore industriale, fu reso efficace erga omnes con il D.P.R. del 14 luglio 1960,
n.1019, benchè tale estensione abbia avuto in verità breve durata, dato che, con sentenza
dell’8 febbraio 1966
7
, fu dichiarata incostituzionale per eccesso di delega nella parte in cui si
prescriveva l’obbligo del preventivo procedimento di conciliazione tra le organizzazioni
sindacali, valido quindi per i soli iscritti alle associazioni e non estensibile, in base al
principio di libertà sindacale (art. 18 e 19 Cost) Corte Cost. 8 febbraio 1966, n.8, RGL,
1966,II,1) ai non iscritti. Di conseguenza furono dichiarate inapplicabili ai non iscritti alle
Associazioni sindacali le clausole che obbligavano l’osservanza della procedura di
consultazione sindacale, mentre rimase in vita con effetti erga omnes la normativa relativa
all’onere di motivazione, ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e al diritto alla
riassunzione. Nel successivo accordo del 1965 si specifica che la disciplina sui licenziamenti
per riduzione di personale si applica agli iscritti alle Associazioni sindacali e, all’interno del
settore industriale, alle aziende con più di 10 lavoratori: “Le procedure di cui al presente
accordo riguardano stabilimenti che occupano normalmente oltre 10 dipendenti. In quegli
stabilimenti per i quali è prevista la presenza del Delegato d’impresa, la procedura stabilita
dal presente accordo è limitata ad un esame conciliativo tra l’azienda ed il Delegato
d’impresa. Negli altri stabilimenti fino a 100 dipendenti i termini dell’esame dei
provvedimenti di licenziamento, previsti dall’articolo 2, vengono ridotti da 25 a 15 giorni”.
anche la descrizione dei tratti identificativi che lo distinguessero dal
licenziamento individuale e plurimo
8
. Al riguardo, in base a quanto stabilito
negli Accordi, si era consolidata un’ interpretazione di origine
giurisprudenziale, che alla fine degli anni ’80 poteva ritenersi consolidata.
Secondo quest’ultima i caratteri fondamentali del licenziamento collettivo
erano costituiti da:
• un elemento quantitativo o numerico : il licenziamento collettivo
coinvolge una pluralità di lavoratori.
• un elemento qualitativo-oggettivo: attinente alla causa del
licenziamento, identificata, nella “necessità di attuare una riduzione
del numero dei lavoratori per riduzione o per trasformazione di attività
o di lavoro”. La riduzione stabile dell’attività di lavoro nell’impresa
consisteva nella soppressione di elementi materiali dell’impresa, come
uffici e reparti o nella vendita di macchinari o attrezzature.
• dal nesso causale tra il ridimensionamento e i licenziamenti.
Venne quindi elaborata una fattispecie del licenziamento collettivo, autonoma
e ontologicamente diversa da quella del licenziamento individuale, basata
sugli elementi fondamentali, sopra citati. In particolare l’elemento qualitativo
aveva escluso in un primo tempo dal campo di applicazione dell’ultimo
Accordo Interconfederale alcuni licenziamenti collettivi che, pur essendo
caratterizzati dall’intimazione del recesso a una pluralità di lavoratori, non
presentavano la causale della “riduzione o trasformazione di attività o di
lavoro”. L’esclusione avveniva nel caso di licenziamento per “riduzione
8
da “Giornale di diritto del lavoro e relazioni industriali” , n.62, 1994, 2 : “I licenziamenti
per riduzione di personale”, di U. Carabelli.
dell’attività lavorativa”, in cui secondo la Cassazione
9
non vi era un vero e
proprio ridimensionamento dell’attività lavorativa, nel caso dei cosiddetti
“licenziamenti tecnologici”, dovuti all’introduzione in azienda di nuove
tecnologie “labour saving”
10
, comportanti il mantenimento o l’incremento della
produttività con minor personale
11
. Allo stesso modo l’esclusione si applicava
in caso di “cessazione totale dell’impresa”
12
. In questi casi veniva
applicata la disciplina del “licenziamento individuale plurimo” (soggetto al
preavviso, alla tutela reale, art.18, L. 20 maggio 1970. n.300: reintegrazione
nel posto di lavoro e risarcimento del danno, o a quella obbligatoria ,art.8,
L.15 luglio 1964, n.604: alternativa tra riassunzione o pagamento di una
penale). Successivamente, la constatazione che questa limitazione sottraeva
alla preventiva consultazione sindacale una serie di problematiche non
individuali ma di interesse collettivo, ha spinto la Corte di Cassazione a
rivedere le proprie posizioni, riconoscendo che anche la “riduzione
dell’attività lavorativa”, se definitiva
13
, e il “licenziamento tecnologico”
14
,
configurano ipotesi riconducibili al licenziamento collettivo. Per quanto
riguarda invece i licenziamenti per “cessazione di attività imprenditoriale”, la
Cassazione non ha modificato la propria interpretazione: si dovrà aspettare
9
Cass. 26 novembre 1986 n..6983
10
Cass. 13 settembre 1986 n..5566
11
in senso positivo, Cass.19.2.91, n.1743, Cass. 24.4.91, n.4556 secondo cui in queste
situazioni non si poteva parlare di un “ridimensionamento strutturale o una riduzione di
attività”; in senso contrario: Cass.25.1.88, n.619 e Cass.29.10.82, n.5443, secondo cui si
realizzava una diversa organizzazione del lavoro da ricondurre all’art.3 della legge n.604
del 1966;
Cass.25.1.88, n.619 e Cass.29.10.82, n.5443, secondo cui si realizzava una diversa
organizzazione del lavoro da ricondurre all’art.3 della legge n.604 del 1966; in senso
positivo, Cass.19.2.91, n.1743, Cass. 24.4.91, n.4556
12
Cass. 29 gennaio 1988 n..796, che verrà successivamente ricompresa nelle causali di
licenziamento collettivo nella L. 223 del 1991.
13
Cass. 9 giugno 1989, n.2814
14
Cass. 10 aprile 1990, n. 3027
l’esplicita inclusione di questo tema nell’art.24, co.2, della legge n.223/1991.
In generale si nota un allargamento della nozione di licenziamento collettivo
rispetto a quella originale fino a comprendere nel proprio ambito il
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. Si tratta della
teoria dei cosiddetti “cerchi concentrici”, secondo la quale il licenziamento
collettivo si configura appunto come un cerchio concentrico a quello più
ampio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
15
. Tuttavia,
numerose sono state le pronunce giurisprudenziali che riconoscevano la
piena fungibilità tra il primo e il secondo tipo di licenziamento, con
conseguente libertà del datore di lavoro di attivare l’uno o l’altro
16
.
La giurisprudenza, oltre a delineare il campo di applicazione del
licenziamento collettivo per riduzione di personale, ha disciplinato la tutela
dei lavoratori licenziati, qualora non venissero rispettate le regole
convenzionali stabilite nell’Accordo interconfederale. Infatti, la mancanza del
presupposto causale ( elemento qualitativo) e l’inosservanza delle procedure
di consultazione sindacale
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, rendevano illegittimo il licenziamento di ogni
singolo lavoratore e veniva applicata la tutela reale od obbligatoria previste
nella disciplina dei licenziamenti individuali. Nel caso invece di violazione dei
criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, la giurisprudenza riteneva che al
lavoratore ingiustamente licenziato spettasse il risarcimento dei danni subiti a
causa dell’ inadempimento di un espresso obbligo contrattuale, commisurato
in linea di massima alle retribuzioni ingiustamente perdute e agli oneri di
diligenza volti ad attenuare il danno
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da “licenziamenti collettivi” Rotondi, Favalli
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es: Cass.2.9.86,n.5384
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Cass. S.U. 18 ottobre 1982, n. 5393
18
Cass 27 febbraio 1979, n.1270
3- La normativa successiva e le Direttive Europee
La normativa cronologicamente successiva agli accordi interconfederali, che
può essere considerata generale, è quella formalmente negativa, contenuta
ad esempio nell’art.11 della L. n. 604 del 1966, in cui si escludono
dall’ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali quelli
collettivi: “la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è
esclusa dalle disposizioni della presente legge”. Questa norma ha suscitato
infinite discussioni e grandi incertezze, dato che sancisce una limitazione
della libertà di assoggettamento alla doppia disciplina collettiva ed
individuale. Inoltre sottolinea l’esistenza di un “vuoto normativo”, che sarà
successivamente ribadito dalla legge sui licenziamenti individuali, la n. 108
del 1990, che ha escluso dal proprio ambito la disciplina dei licenziamenti
collettivi per riduzione del personale
19
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19
Bisogna ricordare,inoltre che numerosi furono i disegni e i progetti di legge con cui, a
partire dagli anni ’70, si era tentato di disciplinare la materia. Nel 1979 era stato approvato
un decreto legge, D.L. del 11 dicembre 1978 n.624, detto “decreto Scotti”, lasciato decadere
poiché si prevedeva a breve l’approvazione di una legge ordinaria specifica. Infatti l’art.25
della L. n. 675 del 1977 aveva disposto la “sospensione dei licenziamenti collettivi per
riduzione di personale”, ma questo blocco dei licenziamenti di fatto si è rivelato una
soluzione antieconomica, poiché ha aumentato la rigidità del mercato del lavoro. Stessa
disposizione era stata disposta dal comma 7 dell’art. 2 della L. n. 301 del 1979, detto
“comma Venchi Unica”, che dispone per le sole imprese industriali fallite che “ove siano
intervenuti licenziamenti, l’efficacia degli stessi è sospesa e i rapporti di lavoro proseguono
ai soli fini dell’intervento straordinario della Cassa integrazione per crisi aziendale”. Altre
norme presuppongono soltanto i licenziamenti collettivi, senza dettare una disciplina
generale : l’art. 15 comma 6 della L.n. 264, per cui i lavoratori licenziati per riduzione del
personale hanno diritto di precedenza per un anno; l’art. 8 della L. n. 1115 del 1968,
prevedeva la disoccupazione speciale per i lavoratori dell’industria licenziati per cessazione
di attività o riduzione del personale; l’art.9 comma 2 del D.L. n. 17 del 1983 che impone il
principio di proporzionalità fra gli invalidi e gli altri lavoratori in caso di licenziamenti
collettivi. La legge del n. 223 del 1991 ha disciplinato tutta la materia dei licenziamenti
collettivi tramite un’esplicita previsione omnicomprensiva riscontrabile all’art. 24 comma 5:
”la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale di cui al primo comma
dell’art 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 come modificato dall’articolo 6 della legge 11
maggio 1990 n.108 è disciplinata dal presente articolo”. Questa disposizione legislativa si
sostituisce, quindi, alla precedente disciplina legale, contrattuale e giurisprudenziale
garantendo, dopo tanta confusione, la certezza del diritto.