portato a ricondurre il nome di Bianciardi alle categorie – compartimenti stagni
di “anarchico”, “arrabbiato”, “contestatore”. Solo rare voci si sono spinte più in
la, cercando cioè di evidenziare come l’esito narrativo di Bianciardi sia stato una
doverosa risposta a quella
…sua rinuncia istintiva a presentarsi come autore, come padrone di un’opera o, per dirla con le sue
parole, quel suo rifiutare la carriera, diventare capitano, per restare un “soldato”. Che era poi l’unico
modo per ribadire la sua fedeltà alla terra di origine, al suo scontroso e dolente atto di vivere.
1
1.2 Straniamento e “Io opaco”.
Un atto di vivere che, fin dal suo presentarsi sotto forma di reduce della II
Guerra Mondiale (e tale, infatti, era la situazione di Bianciardi), aveva spinto
l’autore a confrontarsi con la duplice necessità di “uscire dall’astrattezza”
2
e di
“prendere contatto con la realtà”
3
, pagando così il suo debito nei confronti di una
nazione che viveva proprio in quegli anni un periodo di lenta ripresa economica,
destinato a sfociare in un vero e proprio boom, caratterizzato dalla nascita della
cosiddetta società industriale.
Proprio per questi aspetti di contingenza
…ripercorrere l’itinerario biografico, culturale e narrativo di Luciano Bianciardi significa
confrontarsi con un momento cruciale della nostra storia recente: il passaggio della società italiana, nel
corso degli anni Cinquanta, dal vecchio al nuovo capitalismo, da un modello produttivo agricolo –
industriale a un altro industriale – finanziario, con il profondo mutamento di modi di vita, di rapporti
tra gli uomini, della condizione d’intellettuale, che ne derivò…
4
riconoscendo, così, a Bianciardi la dicotomica condizione di testimone e
vittima in questo processo tanto doloroso quanto travagliato che
…tra la delusione d’Ungheria e la speranza sessantottesca, tra il boom e la crisi economica, tra la
fine del neorealismo e l’esperienza della neoavanguardia, in un periodo estremamente tormentato…
5
aveva portato l’autore grossetano a fare
…di ogni grande impresa un bluff…a restringere i suoi limiti quanto più gli è possibile.
6
1
C. Bo, Lo scrittore come ultimo isolato, in “Corriere della Sera”, 11 luglio 1976.
2
L. Bianciardi, Nascita di uomini democratici, “Belfagor”, VIII, 4, 1952.
3
Ivi.
4
G. Nava L’opera di Bianciardi e la letteratura dei primi anni Sessanta, in AA. VV. (a cura di V. Abati),
Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione: convegno di studi per il ventennale della morte
promosso dalla Camera del lavoro di Grosseto, Roma, Editori riuniti, 1992, p. 5.
5
R. Rinaldi, Bianciardi: approssimazioni ad una letteratura perversa, in Il romanzo come deformazione,
Milano, Mursia, 1985, p. 32.
6
Ivi, p. 32.
4
Da tale frattura dicotomica nel rapporto tra l’uomo e la realtà circostante non
poteva non nascere una frattura narrativa, una sorta di straniamento e di
alienazione letteraria che, per la sua caratteristica di essere “alone intorno alle
cose che vengono così filtrate, leggermente deformate, al di là della semplice
fotografia”
7
, è stato definito da Massimo Coppola e Alberto Piccinini (nella loro
introduzione al primo volume delle opere complete di Luciano Bianciardi,
significativamente intitolato L’Antimeridiano), “Io opaco”, ed è stato descritto
come
..un’ombra stesa tra l’io autobiografico nascosto e l’assenza di un vero alter ego letterario…una
maschera, un’autocostruzione, una dissimulazione. Una sorta di io…, in definitiva, la sua unica risorsa
espressiva ed esistenziale
8
.
Lungi dallo sminuire la riflessione di Coppola e Piccinini, è necessario
registrare come questa percezione di una dicotomia costantemente presente
nell’opera di Bianciardi fosse già stata precedentemente evidenziata da altri
studiosi quali Maria Clotilde Angelini, la quale si pronunciava in questi termini
a riguardo dello “sdoppiamento del personaggio” presente nei primi due romanzi
di Bianciardi, Il lavoro culturale e L’integrazione:
…conferma non tanto una “trovata” narrativa quanto la complessa personalità dell’autore e
soprattutto la sua contraddittoria posizione di intellettuale
9
.
E ancora:
Non è da dimenticare la contraddittoria personalità dello scrittore che è stato, e sempre di più sarà,
combattuto tra due forme di “esistenza”: l’una reale ma subita come coercizione in quanto non
corrispondente all’effettiva volontà dell’io; l’altra “mancata”, irrealizzata e pertanto desiderata.
10
Non solo, lo stesso Geno Pampaloni non poteva esimersi dal confrontare l’
“io” bianciardiano con l’ “io” del personaggio – uomo tracciato da Giacomo
Debenedetti nel suo saggio Il romanzo del novecento, rilevando:
Nella narrativa contemporanea, “io” è quasi sempre un pernio, un pretesto, un problema, non è
quasi mai un autoritratto; pur tentando di dire tutto di sé, umori, segreti, capricci, puntigli intellettuali,
sondaggi nel profondo, non riesce a dirci chi è.
11
Alla luce di queste testimonianze, non possiamo non rilevare la sostanziale
convergenza sulle tematiche di indagine, nonché la presenza di certi termini –
chiave che, proprio a causa della loro dilatazione temporale, risultano essere
assai significativi per l’analisi delle tematiche stesse. In primo luogo il ricorrere
7
Ivi, p.32.
8
M. Coppola – A. Piccinini, Luciano Bianciardi, l’Io opaco in L’Antimeridiano - Opere complete volume I,
Milano, Isbn Edizioni, 2005, p. VII.
9
M.C. Angelini, Bianciardi, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 36.
10
Ivi, p. 23
11
G. Pampaloni, Introduzione a La vita Agra, Milano, Rizzoli, 1974, p. 8
5
del concetto di autobiografismo, o meglio della sua non completa negazione (e,
parimenti, della sua incapacità di rendersi trasparentemente manifesto), che va a
saldarsi con la problematicità della duplice figura autore – personaggio; in
secondo luogo la forte carica creatrice che questa frattura riesce a creare sulla
pagina. Infatti consideriamo come l’ “Io opaco” bianciardiano non sia mai una
sterile forma di autobiografismo che frena la spinta creatrice dell’autore, bensì
un “crepaccio” che, aprendosi davanti agli occhi del lettore, lascia fuoriuscire
immagini e concetti che si saldano e sovrappongono alla narrazione stessa.
Perché, come diceva Carlo Bo a proposito delle doti narrative di Bianciardi in un
articolo apparso sul “Corriere della Sera”:
Il piglio del narratore vero era indiscutibile, la riprova l’abbiamo proprio nelle sue cose minori.
12
Cosa sono, dunque, queste “cose minori” (cioè i racconti, i frammenti di
diario, gli articoli apparsi su numerosi giornali e settimanali nella parte iniziale
della sua carriera) se non una fucina di temi che verranno poi ripresi e sviluppati
nei romanzi successivi? Come possiamo vedere, la coerenza della critica più
attenta dimostra come vi sia un sostanziale filo conduttore che accompagna le
diverse fasi della produzione intellettual - industriale bianciardiana e non
compartimenti stagni, non categorie “hegeliane”. Ogni opera risulta essere
estremamente radicata in se stessa e, allo stesso tempo, nella produzione
d’insieme di uno scrittore che ha fatto della sua individualità molto più che un
semplice “cavallo di battaglia” o un inflazionato slogan.
12
C. Bo, Lo scrittore come ultimo isolato, cit.
6
2. DAGLI ESORDI CON CASSOLA A IL LAVORO CULTURALE.
2.1 Gli esordi.
Paradossalmente l’esordio di Bianciardi avviene in un’opera che con
l’individualità ha ben poco a che fare: si tratta, infatti, di un saggio di denuncia
(che noi non esiteremmo a definire “reportage”) scritto a quattro mani con Carlo
Cassola. Questo saggio, dal titolo I minatori della Maremma, è una dettagliata
inchiesta sulle condizioni di lavoro dei minatori del grossetano che prende il via
dallo scoppio della miniera di Ribolla avvenuta nel maggio 1954 a causa di un
accumulo di grisù (un gas utilizzato nella lavorazione mineraria, la cui alta
concentrazione può comportare fenomeni esplosivi). Bianciardi, fortemente
colpito dagli aspetti politico – sociali di questa vicenda, si attiva per dare voce
non tanto alla categoria dei minatori in sé, quanto a tutta quella parte di
popolazione che, impossibilitata a far valere le proprie ragioni a causa della
bassa condizione sociale, è costretta a vedersi privata dei più elementari diritti
civili. Compito dell’intellettuale, quindi (e Bianciardi, laureato in Filosofia alla
normale di Pisa con una tesi su John Dewey, rientra inevitabilmente in questa
cerchia), non è tanto quello di criticare la società idealizzando le masse e
facendo leva sulle loro precarie condizioni di vita, bensì quello di prodigarsi in
maniera “tangibile” per mezzo del proprio lavoro così da migliorarne le
condizioni stesse.
Io sono con loro, i badilanti e i minatori della mia terra, e ne sono orgoglioso; se in qualche modo
la mia poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò buona questa cultura, perché
mi permette di restituire, almeno in parte, lavoro che è stato speso anche per me
13
.
Queste parole, oltre a rivelare un profondo attaccamento alla propria terra
d’origine (aspetto che verrà trattato successivamente in maniera più dettagliata),
manifestano la duplice sensazione di sentirsi in debito nei confronti di qualcuno
e qualcosa, nonché la precisa volontà di ovviare a questo debito per mezzo della
propria cultura; da cui la figura di intellettuale come oggetto pratico volto alla
destabilizzazione di un sistema che opprime anche chi intellettuale non è, una
destabilizzazione ottenuta per mezzo della cultura intesa come lavoro effettuale
grazie a cui riuscire a riscattare il debito contratto con la società (e, si badi bene,
la società bianciardiana, con i suoi badilanti e minatori, non è la società
idealizzata di Togliatti). Non stupisce, dunque, che il titolo del primo romanzo
scritto da Bianciardi in prima persona sia Il lavoro culturale, ancor meno
risulterà straniante la concretizzazione dell’ “Io opaco”, in quel processo
narrativo che la Angelini chiama “sdoppiamento del personaggio”.
13
L. Bianciardi, Nascita di uomini democratici, cit., p. 57
7
2.2 Il lavoro culturale.
Ne Il lavoro culturale, infatti, i protagonisti sono i due fratelli Bianchi,
Luciano (la voce narrante, l’ “io mancato”) e Marcello (la figura che, per
fisionomia e carattere, risulta più vicina all’autore) i quali, relegati per nascita ad
una realtà provinciale (la nativa Grosseto, che qui assume il soprannome di
Kansas City dopo che un soldato americano ne aveva rilevato le numerose
similitudini) cercano di riorganizzarne la vita culturale, convinti che la parte
intellettuale della città non potesse dividersi soltanto tra le due differenti correnti
degli “eruditi”, convinti assertori delle origini medievali della città, e degli
“archeologi”, sempre intenti a dimostrare la matrice etrusca di Grosseto, bensì
necessitasse di una terza e nuova corrente che si situasse in una posizione di
contrasto rispetto alle precedenti.
L’esordio di questa terza corrente rivela ben presto la sua vocazione
destabilizzante:
Infine c’eravamo noi, i giovani, la generazione bruciata: decisi a rompere con le tradizioni ed a
rifare tutto daccapo. Naturalmente eravamo in polemica con tutti gli altri, coi medievalisti eruditi e con
gli archeologi. Cosa volevano, gli uni e gli altri? Cosa significavano le sterili e goffe pidocchierie dei
primi, cosa significavano i furori antiquari dei secondi? Era l’ora di finirla con questo dilettantismo,
con questa sterile erudizione, con questa mitologia delle origini antichissime. La cultura italiana,
dicevamo noi, era già abbastanza aduggiata e mortificata
14
.
Una vocazione che però non si rivela del tutto priva di un accenno critico nei
confronti di se stessa, del suo carattere focoso ma non sempre fecondo. Del suo
impegno che, nonostante i numerosi tentativi pratici (organizzazione di cineclub,
convegni ed incontri vari), si risolve con un sostanziale buco nell’acqua. I due
protagonisti, infatti, finiranno per essere assorbiti dalla realtà circostante.
Marcello, l’intellettuale impegnato del gruppo, sposerà una fanciulla del luogo
iniziando così la sua vita di tranquillo padre di famiglia, finendo per rivolgere la
sua attenzione verso quegli stessi studi eruditi così a lungo criticati all’inizio del
romanzo; Luciano accetterà un buon posto di lavoro e si dedicherà più agli
hobby (allenare la squadra di calcio del paese) che all’impegno culturale.
Lo scoglio contro il quale si abbattono le aspettative dei due fratelli Bianchi (e
di Bianciardi stesso) è proprio l’impossibilità di sintonizzare gli “eroici furori”
giovanili, portatori di propositi culturalmente attivi, con il tessuto connettivo
della realtà provinciale:
Noi abbiamo studiato, diceva Marcello, ma quel che abbiamo imparato non servirà a niente, se non
ci aiuta a capire le ragioni dei contadini
15
.
14
L. Bianciardi, L’Antimeridiano – Opere complete volume I, Milano, Isbn Edizioni, 2005, p. 202.
15
Ivi, p. 223.
8
e ancora:
Marcello insisteva a dire che niente è moderno e spregiudicato se non lascia davvero dietro di sé i
pregiudizi e i residui di maggior peso, se non tiene conto di questa fondamentale esperienza dei giorni
nostri, e che la cultura non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, a evitare il
male
16
.
In questi passi si evince come la frustrazione dell’ “io narrante” Luciano
Bianchi, filtrata dalle parole del fratello Marcello, sia anche la frustrazione
dell’autore Luciano Bianciardi. La frustrazione che, accumulata come grisù
negli anni grossetani, esplode solamente al contatto con una nuova realtà; la
realtà milanese, la realtà della casa editrice Feltrinelli, dove Bianciardi lavorava
già da alcuni anni dopo essere stato segnalato da alcuni amici romani
all’attenzione di Giangiacomo Feltrinelli, fondatore e direttore della stessa casa
editrice.
2.3 Il recupero – inserto tematico e la satira amara.
Comprendiamo meglio, dunque, come la rielaborazione posteriore dei
sentimenti provati diversi anni prima, moltiplichi lo spettro di attenzione
dell’autore stesso che, oltre a sdoppiare le sue pulsioni narrative, si trova a dover
fare i conti con un recupero autocritico che dona al romanzo quel tono di ironia
incompiuta e di moralismo parzialmente raffreddato più dal tempo e dal luogo
che dalla razionalità. E’ innegabile, infatti, che Il lavoro culturale sia percorso
da una duplice matrice ironica e moralistica. Come scrive Pier Francesco
Borgia:
Il moralismo di questo libro è tutto nel fare il processo, prima che agli altri, soprattutto a se stesso.
Per far ciò Bianciardi adotta oltre espedienti ironici…anche la citazione di se
17
.
Ed è proprio verso Bianciardi stesso che convergono queste due direttrici che,
proprio a causa della loro apparente inconciliabilità, si servono l’una dell’altra
per evidenziarsi e, allo stesso tempo, non rendersi eccessivamente manifeste, e
quindi sgradevoli.
Questa moltiplicazione dell’ “io” e della percezione temporale dell’ “io”
stesso, si risolve a livello narrativo con il contemporaneo recupero di parti di
testo apparse in precedenza su giornali locali come “Belfagor” o “La gazzetta di
Livorno” (si pensi alla critica medievalisti – archeologi già presente, anche se
solo sotto forma di riflessione sociale, su Nascita di uomini democratici, apparso
su “Belfagor” del 1952) e con l’introduzione di tematiche sostanzialmente
innovative, come l’interessantissimo paragone Grosseto – Kansas City che, letto
16
L. Bianciardi, cit., p. 223
17
P. F. Borgia, La metamorfosi stilistica nella prosa di Luciano Bianciardi, Milano, Marzorati, 1991, p. 32.
9
alla luce della nuova professione di Bianciardi, non è altro se non una riflessione
sul contatto tangibile tra letteratura Italiana e letteratura Americana:
E si restava lì un paio d’ore…a guardare i camionisti, a parlare di letteratura. Letteratura americana,
naturalmente; e veniva sempre il momento in cui il nostro ospite [ndr. Il tenente Bucker, colui che
aveva coniato il soprannome “Kansas City”] osservava che quell’angolo di provincia, così, con la
campagna a ridosso e la grande strada della capitale, e i camionisti, un posticino così, tranquillo, bene
illuminato, pareva proprio uscito da una pagina di Hemingway. O di Saroyan
18
.
Senza voler troppo forzare le coincidenze, mi sembra doveroso registrare che
da due anni Bianciardi aveva intrapreso l’attività di traduttore presso Feltrinelli;
attività che al 1957, data di composizione e pubblicazione de “Il lavoro
culturale”, vedeva al suo attivo già diversi titoli. A ciò si deve aggiungere lo
stesso clima culturale italiano che, a partire dal 1941 (anno di pubblicazione
dell’antologia vittoriniana “Americana”), aveva visto sempre crescente
l’interesse per la narrativa oltreoceanica.
Questa combinazione di diversi recuperi – inserti, che si vanno a sovrapporre
al tessuto narrativo bianciardiano, fa sì che l’opera si dimostri notevolmente
attuale e contingente, tanto da essere stata spesso definita più un pamphlet
(opuscolo, libello, scritto polemico) che un romanzo vero e proprio. La capacità
di fotografare una realtà nel suo divenire senza estirparla dalle radici che le sono
proprie (che Bianciardi dimostrerà di padroneggiare nei romanzi della maturità)
si dimostra qui presente sotto forma di abbozzo; un abbozzo tangibile che però
viene risolto quasi esclusivamente attraverso la chiave dell’ironia (mentre nei
romanzi successivi sarà proprio la moltiplicazione delle soluzioni stilistico –
critiche a decretare la raggiunta maturità). Ciò non esclude che Il lavoro
culturale fornisca materiale inedito che verrà poi affrontato con maggiore
destrezza nelle opere successive. Un esempio concreto è fornito dalla sarcastica
descrizione dei problemi inerenti il linguaggio del lavoro culturale, affrontata
nel capitolo VI:
Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la
differenza spaziale (alto – basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva indifferentemente; ma
c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori
da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse
intervenuto qualcuno a farlo essere
19
.
E ancora:
Al problema del linguaggio va connesso quello della gesticolazione, un problema peraltro più
complesso e meno facilmente definibile; ci limiteremo a darne qualche cenno. Ampio: si accompagna
con un gesto circolare delle mani, palme rivolte in alto. Concreto: si strofinano i due pollici contro le
altre dita. Prospettive (e anche indicazioni): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita
debbono essere unite
20
.
18
L. Bianciardi, cit, p. 207.
19
Ivi, p. 254.
20
Ivi, p. 256.
10