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L'acuta osservazione di Jacobi mirava a demolire la filosofia kantiana a favore di un ritorno
alla prospettiva del realismo, e il mostrare come la critica si potesse salvare solo attraverso una
trasformazione in idealismo equivaleva per Jacobi alla dimostrazione dell'impossibilità di
continuare a filosofare sulla via aperta da Kant. Successivamente lo stesso Jacobi, sviluppando
ulteriormente il suo pensiero in merito, giungerà ad affermare che il ridurre tutto al soggetto, unica
via di sviluppo possibile del kantismo, equivalesse ad uno sprofondare nel nihilismo, in un vuoto
agire del soggetto per il soggetto, senza altro scopo che il soggetto stesso(Jacobi a Fichte, 1798).
L'osservazione critica di Jacobi divenne per Fichte un programma da realizzare. D'altra
parte, al di là di Jacobi, il problema della cosa in sé era fortemente sentito anche dai discepoli di
Immanuel Kant, come Reinhold, Maimon e Beck e da avversari del kantismo come lo scettico
Schulze.
L'eliminazione del concetto di cosa in sé comporta necessariamente una trasformazione del
problema della conoscenza. Fichte non cerca perciò di determinare semplicemente il modo di
conoscere gli oggetti, ma, poiché gli oggetti non hanno nient'altro che il soggetto come loro
fondamento, cerca di descrivere come le funzioni del soggetto comportino la produzione
dell'oggetto stesso. Questo è lo specifico significato fichtiano di "trascendentale": trascendentale
significa che tutta la nostra esperienza non è altro che lo svolgimento (Entwicklung) del nostro Io.
Che il concetto di trascendentale fichtiano non coincida con quello di Kant è
un'interpretazione, e non un'opinione condivisa dallo stesso Fichte. Fichte dichiarò infatti
pubblicamente la perfetta coincidenza tra la filosofia di Kant e la dottrina della scienza, e a
proposito della questione di un oggetto in sé, ancora nel 1797, nella Seconda introduzione alla
dottrina della scienza, Fichte dimostrava l'infondatezza dell'opinione che Kant derivasse la
sensazione da una impressione esercitata dalla cosa in sé, e si dichiarava convinto che Kant
pensasse con il concetto di oggetto nient'altro che un'aggiunta dell'intelletto al fenomeno, un mero
pensiero.
Nello stesso luogo Fichte, mediante un'abile ermeneutica e valendosi di precise citazioni di
testi kantiani, dimostrava inoltre: 1) l'equivalenza del concetto di Io penso kantiano con quello di Io
puro elaborato da Fichte nella Wissenschaftslehre 1794 (da ora in poi WL94);
2) l'equivalenza del concetto di intuizione intellettuale dell'io (fondamento del sistema
fichtiano) con il concetto di coscienza immediata dell'imperativo categorico (fondamento della
Critica della ragion pratica kantiana).
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Il problema filosofico fondamentale, abbracciata in questa modalità la filosofia kantiana,
risulta dunque il mostrare come dall'Io puro derivi l'intero sistema della coscienza, tanto la
coscienza individuale, ossia la coscienza empirica di sè (che Fichte distingue nettamente
dall'autocoscienza pura) quanto la coscienza dell'oggetto, ed entrambi i poli dell'esperienza
(soggetto e oggetto) devono risultare allora riunificati in quel punto nel quale soggettivo ed
oggettivo sono effettivamente la stessa cosa (l'Io puro è infatti soggetto-oggetto, unità di soggettivo
ed oggettivo).
Dedurre l'oggettivo dal soggettivo significa, in altre parole, unificare il sensibile con il
soprasensibile a partire dalla priorità del soprasensibile stesso. Fichte è fermamente convinto che le
due sfere debbano esser due soltanto all'apparenza, e che dunque la filosofia di Kant, lasciando
indeterminato il punto di connessione sensibilità-ragione, non sia pervenuta alla scoperta del
fondamento necessario per svelare l'unità dell'esperienza in generale. Fichte dunque, nonostante
riconoscesse la sua filosofia in accordo con quella kantiana, pensava allo stesso tempo che Kant
non avesse portato a compimento il suo sistema, in quanto il filosofo di Königsberg non sarebbe
giunto a porsi il problema del fondamento di tutta la filosofia.
Il primo problema fichtiano, primo tanto per importanza quanto temporalmente (è il
problema che si pone cioè nel suo esordiente scritto filosofico, Versuch einer Critik aller
offenbarung 1792; da ora in poi CO) consiste dunque nel tentativo di venir a capo dell'irrisolto
dualismo, di kantiana provenienza, tra la sensibilità e la ragione, il fenomeno e il noumeno, la
necessità e la libertà, la felicità e la virtù.
Perché Fichte sente l'esigenza di riunificare le due sfere? Questa domanda è fondamentale ai
fini di una comprensione del filosofare fichtiano. L'esigenza di porre la sfera oggettiva sotto il
dominio della soggettività non nasce affatto nel filosofo da preoccupazioni puramente speculative,
bensì dall'esigenza pratica di rendere pensabile la realizzazione della legge morale nel mondo
sensibile. L'imperativo categorico deve avere causalità nel mondo fenomenico, in un mondo cioè
che, se fosse indipendente dalla sfera della ragione, vanificherebbe ogni possibile effetto di una
azione morale.
Il cuore del pensiero speculativo fichtiano è dunque costituito da un'esigenza morale,
l'esigenza che la perfezione somma possa realmente essere realizzata e goduta dall'essere umano.
Questa perfezione, il pensiero della legge morale interamente realizzata, è l'idea di un mondo
morale che compensa se stesso, nel quale cioè il retto agire implichi l'adeguata ricompensa in
felicità.
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Quest'idea morale, che Fichte sente intimamente come vera, che muove il filosofo alla
ricerca di una soluzione speculativa per subordinare il sensibile al soprasensibile, e che costituisce
la ragione profonda dell'esistere di qualcosa piuttosto che nulla, viene denominata nel pensiero di
Fichte das höchstes Gut (il bene massimamente alto, il sommo bene).
Fichte eredita da Kant il concetto di sommo bene, concetto che sintetizza le due più
insopprimibili esigenze dell'essere umano: raggiungere la piena felicità e rispondere all'appello
della voce della ragione che ci comanda l'azione morale.
Queste sono le motivazioni di base che conducono Fichte all'elaborazione del suo sistema
speculativo, e che sono riassumibili nella domanda kantiana "se faccio ciò che devo, cosa posso
sperare?". La felicità (che spero di ottenere) e la perfezione (che devo raggiungere) sono ciò a cui
l'uomo non può e non deve rinunciare, e la filosofia deve trovare il modo di giustificare la loro
possibilità. Fichte era in effetti un appassionato lettore non tanto della Critica della ragion
pura(1781), quanto invece della Critica della ragion pratica(1788) e della Critica del
giudizio(1790). In particolare la lettura della seconda critica rappresentò per Fichte un vero e
proprio risveglio filosofico, e da quel momento in poi il suo filosofare rimase sempre radicato
nell'esigenza pratica dalla quale sorse.
Fichte diede uno sviluppo speculativo al concetto di imperativo categorico kantiano,
elevandolo a principio primo dell'intera filosofia. La filosofia pratica si eleva dunque con Fichte al
rango di filosofia prima, in quanto la più nota concettualizzazione stessa del principio primo (la
WL94) ci presenta un Io assoluto, come unità di soggetto e oggetto, che non è distinguibile
dall'esigenza pratica infinita (e perciò l'Io assoluto, sotto questo riguardo, è un ideale, un dover-
essere).
Il sensibile e il soprasensibile devono dunque essere unificati, in modo che la felicità possa
esser commisurata alla perfezione ed entrambe possano effettivamente realizzarsi, realizzazione che
costituisce il concetto del sommo bene. Il sommo bene è lo scopo finale posto dalla ragione
all’uomo come compito da realizzare, il compito di raggiungere la massima perfezione morale unita
con la massima felicità.
La nostra ricerca mostra i vari tentativi di risoluzione del problema dell'unificazione di
sensibile e soprasensibile alla luce dello sviluppo del concetto di sommo bene che, nel tormentoso
sviluppo della filosofia fichtiana, subisce notevoli cambiamenti, mai però tali da condurre Fichte ad
espellere il concetto dal cuore stesso del suo sistema.
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E ciò non poteva certo accadere, se è vero ciò che abbiamo affermato, cioè che Fichte
mantenne sempre la sua filosofia al servizio dell’esigenza pratica di realizzazione della morale e del
suo oggetto, ossia del bene, dello scopo finale morale dell’uomo.
Il problema del dualismo viene affrontato da Fichte su due diversi piani, corrispondenti,
potremmo dire, ad un punto di vista ontologico (ricerca dell'unità dell'esperienza in generale) ed un
punto di vista ontico (ricerca dell'unità nell'uomo fra sensibilità e ragione). Nella CO Fichte,
distinguendo ancora nettamente i due piani, perviene a soluzioni separate: "Dio" e "legislazione
superiore" garantiscono l'unità dell'esperienza in generale, mentre il concetto di impulso riunifica
nell'uomo la passività con la spontaneità. Successivamente, vale a dire già nelle opere del 1794,
Fichte concepisce i due piani come indistinguibili, o meglio come un unico piano considerabile da
un punto di vista più alto (ed allora si tratta di fornire il fondamento di ogni cosa) ed uno più basso
(per cui può risultare sufficiente l'indicazione del punto d'unione della natura umana).
L'unificazione ontologica della CO non soddisferà affatto il filosofo, che infatti, come
detto, utilizzerà in seguito (dal 1794 fino al 1798) il concetto di "Io" per significare il punto
d'unificazione di soggettivo ed oggettivo.
L'unificazione sul piano ontico sarà invece sempre realizzata da un solo concetto, la
nozione di Trieb, e mostreremo tre momenti essenziali nell'elaborazione di questo concetto: 1)
l'impulso come termine medio tra spontaneità e passività nella CO; 2) l'impulso come tendenza
dell'Io originario nelle opere del 1794 (Bestimmung des Gelehrten, da ora in poi BG, e WL94); 3) la
compiuta dottrina dell'impulso originario all'indipendenza della Sittenlehre del 1798 (da ora in poi
SL98).
La convergenza tra la soluzione ontologica e quella ontica, tra il concetto dell'Io e quello
di impulso, si chiarirà nel corso della tesi, in quanto la questione del principio primo di ogni
esistente si intreccia fino all'indistinguibilità con la ricerca di un punto di unificazione tra la ragione
e la sensibilità. Questa è una peculiarità della filosofia di Fichte: un discorso apparentemente
antropologico-psicologico come la descrizione delle funzioni dell'animo è allo stesso tempo un
discorso sulla costituzione ultima di tutte le cose.
Il concetto di sommo bene è dunque un concetto specifico del sistema fichtiano,
riguardato però in questa tesi in vista di una comprensione globale del problema filosofico
dell'unità di sensibile e soprasensibile (negli anni 1792-1798).
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Mostreremo, riguardo allo scopo finale:
1) la genesi dell'esigenza umana di porlo, cosa che ci costringerà ad affrontare il
discorso sull'impulso;
2) il suo contenuto specifico, che ci condurrà al discorso sulla comunità etica e
syll'intersoggettività;
3) il suo sviluppo da "sommo bene" ad "ordine morale del mondo";
4) la sua funzione, in relazione all'intero sistema, come oggetto della morale e
necessario ponte per un approdo alla religione.
In questa ricerca, dopo aver introdotto la tematica del sommo bene mediante un'analisi del
concetto stesso nella filosofia di Kant (primo capitolo), ci siamo concentrati particolarmente su tre
testi (corrispondenti al secondo, terzo e quarto capitolo) : il Versuch einer Critik aller Offenbarung
(Saggio di una critica di ogni rivelazione, 1792), la Bestimmung des Gelehrten (Missione del
dotto,1794) e la Sittenlehre (Sistema di etica,1798). Il testo di partenza è il luogo nel quale compare
per la prima volta il concetto di sommo bene, e l'unico lavoro fichtiano nel quale il concetto
rispecchia ancora piuttosto fedelmente la sua derivazione kantiana. La scelta di una analisi
approfondita delle lezioni del 1794 si motiva sia in quanto il tema dell'opera è appunto la missione
dell'umanità, e con ciò il cammino che deve percorrere verso la perfezione (scopo finale), sia
perché è in questo testo che Fichte si confronta esplicitamente con Kant in relazione al problema
del dualismo inerente al concetto stesso di sommo bene (felicità e perfezione), che Fichte sente il
bisogno di risolvere in una sola ed unitaria direzione (la perfezione). L'opera del 1798 poi, essendo
una compiuta esposizione della filosofia morale, non può non avere come suo centro l'oggetto della
morale stessa, che è nella SL98 l'assoluta libertà.
Complessivamente, dato il tema della nostra ricerca, si è scelto di porre maggiore
attenzione alle opere più direttamente morali del filosofo, e di considerare quelle teoretiche solo in
relazione ai problemi emersi dall'analisi del sommo bene stesso (e questa relazione è del resto
inevitabile in un sistema che intreccia così strettamente piano teoretico e ambito pratico).
In questa introduzione abbiamo fin qui fornito una chiarificazione della materia del nostro
discorso (il sommo bene, con i concetti messi in gioco dallo stesso: Dio, impulso, comunità) e del
problema filosofico sotteso (l'unificazione di sensibile e soprasensibile), che è per Fichte, abbiamo
detto, la questione centrale della filosofia, una questione certamente speculativa, ma sorta per
esigenze pratiche. Dobbiamo adesso esplicitare il filo rosso interpretativo utilizzato per la
comprensione unitaria dello sviluppo del problema dello scopo finale, filo rosso che costituisce la
ragione della periodizzazione della nostra ricerca (1792-1798).
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Il concetto di sommo bene è tipicamente kantiano, e Fichte, nel momento in cui si appresta
a scrivere la sua CO, lo assume fedelmente dal maestro. Il criterio per la comprensione del concetto
di sommo bene e del suo sviluppo è quindi intrinsecamente legato all'origine stessa del concetto, e
cioè il filo rosso ermeneutico della nostra ricerca è costituito dal rapporto di Fichte con Kant, in
modo che, come vedremo, le varie modificazioni del concetto di scopo finale troveranno la loro
spiegazione nel confronto e nella presa di posizione di Fichte rispetto a Kant.
Fichte si considera sostanzialmente in linea con la filosofia di Kant almeno fino alla SL98,
opera nella quale, almeno nel complesso, vi è ancora la volontà di avvicinare il proprio discorso a
quello kantiano. Ma nell'autunno dello stesso anno il Giornale filosofico pubblicava due articoli,
Svolgimento del concetto di religione di F.C.Forberg, ed una introduzione-risposta di Fichte al
Forberg stesso: Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo.
I due articoli suscitarono, per le idee espresse sul concetto di Dio, una violenta reazione (il
fascicolo fu colpito da confisca), e si aprì così l'Atheismusstreit (controversia sull'ateismo), che
costò a Fichte, che continuava ostinatamente a difendersi dall'accusa di ateismo, la perdita della
cattedra universitaria di Jena. Nel 1799, mentre le accuse di ateismo si abbattevano su Fichte, Kant
decise di pronunciarsi pubblicamente in merito alla filosofia fichtiana, per sconfessarla come mera
logica senza contenuto, e per contestare la convinzione di Fichte che Kant avesse semplicemente
pensato la propedeutica della coscienza, e non fosse giunto ad un'esposizione del sistema della
coscienza stessa.
L'accusa di ateismo e la sconfessione di Kant sono eventi che certamente influenzarono la
vita e il pensiero del filosofo. Fichte si ritrovava costretto, date le accuse, ad uno sforzo concettuale
notevole di chiarificazione delle proprie idee in materia religiosa, ed il concetto di Dio non era
certo, come vedremo nella ricerca, di elementare pensabilità nel contesto del filosofare fichtiano.
D'altra parte Fichte, come il saggio incriminato dimostra, andava alla ricerca di un nuovo
fondamento della certezza (rispetto all'Io), o per lo meno di un nuovo linguaggio per esprimere
l'unità fondamentale, in quanto il termine "Io" aveva dato luogo a numerosi fraintendimenti, in
particolare alla confusione tra la razionalità pura e quella empirica. Questo fondamento è costituito,
nel saggio, dalla nozione di un ordine morale vivente ed operante, il quale ordine è il concetto di
Dio (o divino) che costò a Fichte la nomea di ateo.
Per la prima volta il concetto di Dio, da ente morale, si risolve nel sistema di Fichte in
principio metafisico (e con ciò il concetto di Dio, espulso da Kant dall'ambito teoretico, ritornava
ad occupare, se pur in modo nuovo, la sua posizione preminente).
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La successiva filosofia di Fichte accentuerà questo aspetto, e così nella Iniziazione alla vita
beata (1806) Fichte presenta il concetto di Dio come quello di un essere unico e immutabile,
mentre ogni molteplicità e modificazione viene ascritta al movimento della coscienza. Un essere
unico e immutabile è posto da Fichte come il principio primo di ogni cosa, e se da una parte Fichte
si mantiene ancora nell'ambito trascendentale, affermando che l'assoluto ci è noto solo nelle forme
e nell'atto del sapere (dunque solo come immagine e schema, non come è in sé), dall'altra la
posizione di un essere unico e immutabile rappresenta una frattura con il precedente idealismo
trascendentale (che ha al contrario come fondamento il concetto di un agire, di quell'attività che è
l'Io stesso).
Fichte, nel momento stesso che nei primi anni dell'800 pensa il concetto di Dio come
fondamento, pensa anche la morale in modo diverso e per certi versi opposto rispetto agli anni
precedenti. L'aspirazione alla perfezione, scopo finale posto nell'infinità, ed infinitamente
irrealizzabile, nell'Iniziazione alla vita beata trova la sua meta in Dio e si risolve nell'appagamento,
nella Seligkeit. La libertà per la libertà non è più qui il valore supremo, in quanto la meta è
raggiungibile ed è costituita da un annichilarsi ed inabissarsi in Dio. La libertà allora, principio
fondante dell'idealismo fichtiano (e della morale kantiana), si autoannulla con quell'ultimo suo atto
che è il passaggio ad una moralità superiore, nella quale non vi è più alcuna libertà, in quanto in
Dio non vi è né bene né male. La distanza tra una simile concezione e l'etica kantiana, radicata
nell'impossibilità della finitezza di raggiungere l'infinità, è oramai abissale.
Anche il giudizio di Kant (1799), che accusava Fichte di aver costruito una mera logica,
dovette pesare sullo sviluppo della filosofia fichtiana in seguito alla polemica sull'ateismo. Per
quanto il suo pensiero fosse oramai ampiamente sviluppato, e certo non nella direzione di
Immanuel Kant, Fichte si prodigava spesso (ad esempio nelle SL98) nel cercare punti di
connessione con il pensiero kantiano. La sconfessione kantiana rappresentò per Fichte,
probabilmente, l'occasione per una presa di coscienza più profonda del proprio filosofare, e con ciò
della differenza tra il suo pensiero e quello del fondatore della prospettiva critica.
L'accusa di Kant, presumibilmente, accellerò il processo già in atto di trasformazione del
pensiero fichtiano (ed in atto fin dalle origini, dalla CO): da una filosofia fondata sul concetto
dell'Io puro, elaborazione (a detta dello stesso Fichte) dell'appercezione trascendentale kantiana, ad
una filosofia religiosa subordinante l'io a Dio (ad un principio, dunque, che trascende e fonda l'io
stesso).
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Dio come fondamento, la perfezione raggiungibile e la forma espositiva anti-accademica,
insieme edificante e popolare (riflesso del fatto d'esser stato respinto dal mondo scientifico) sono
eventi nel pensiero fichtiano che si giustificano solamente a partire dai fatti del 1798-99, e
testimoniano il tramonto definitivo del kantismo fichtiano anche se, è bene sottolinearlo, ciò non
implica né una possibile influenza di Kant nel prosieguo della filosofia di Fichte, né tantomeno che
la cosiddetta seconda filosofia fichtiana sia radicalmente altra rispetto alla precedente.