2
CAPITOLO 1
1.1 Cos’è l’etnopsichiatria?
“Chirone, il centauro che insegnò ad Esculapio l’arte di guarire, era affetto da
piaghe incurabili. L’immagine mitologica del guaritore ferito è molto diffusa e,
da un punto di vista psicologico, questo significa non solo che il paziente ha un
medico dentro di sé, ma anche che nel medico esiste un paziente”.
(A.Guggenbuhl Craig)
In questo primo capitolo vorrei, innanzi tutto, inquadrare teoricamente il mio
lavoro, illustrando brevemente in cosa consiste l’etnopsichiatria, con le sue ipotesi
e premesse fondamentali. L’etnopsichiatria, disciplina secondo Coppo (1996),
“della libertà conquistata”, riconosce la base inevitabilmente culturale della
sofferenza psichica ed il ruolo della cultura stessa nella questione dell’identità e
della diversità, e nella definizione dei concetti di “normale” ed “anormale”,
“sano” e “malato”. Inoltre, s’interroga sulla validità e sull’efficacia degli
strumenti terapeutici occidentali riguardo patologie psichiatriche osservate in
popolazioni immigrate da paesi non occidentali. “Parola composta da tre parole
greche: Etnòs, razza, tribù, stirpe, famiglia, ma anche provincia, territorio; indica
la dimensione locale, particolare di una parte rispetto al tutto. Psyché è soffio
vitale, spirito; iatréia, l’arte di prendersi cura”. (Coppo, op.cit.) Secondo
l’etnopsichiatria ogni disturbo psichico si manifesta attraverso comportamenti ed
espressioni che tendono a strutturarsi nell’ambito di modelli di reazione
culturalmente condizionati; lo studio della persona malata non può collocarsi al di
fuori del contesto socio - culturale, né prescindere dalle inquietanti domande sul
come la malattia mentale viene diversamente vissuta, percepita, interpretata. Per
utilizzare le parole di Laplantine (1988) l’oggetto di studio sono “malattia e
guarigione sognate, immaginate, popolate di fantasmi, raffigurate, cioè vissute”.
Piero Coppo (op.cit.) ci chiarisce che: “ideali di salute, forme e frequenze dei
disturbi, modalità di cura variano a seconda delle culture. Guaritori, sacerdoti,
indovini, psicologi e psichiatri presentano tratti comuni e diversi.
L’etnopsichiatria studia analogie e differenze tra contesti, figure del disordine e
figure della cura”. Cercare di definire l’etnopsichiatria può, però, essere
fuorviante da un punto di vista concettuale: come ci suggerisce Beneduce (1996),
infatti, è difficile delineare una definizione di una disciplina che è per sua natura
3
pluriforme, “di frontiera” (Bastide, 1981), “nomade” (Nathan, 1996). Sarebbe
dunque più corretto parlare di etnopsichiatrie, diverse quanto diverse sono le
culture cui si appoggiano. Accostarsi all’approccio etnopsichiatrico significa,
innanzi tutto, rilevarne le premesse epistemologiche: a questo proposito,
Devereux
1
(1972), richiamando l’affermazione di Poincarè, secondo cui un
fenomeno che ammette una spiegazione ne ammette un certo numero di altre, tutte
ugualmente in grado di spiegare la natura del fenomeno, ci avverte che: “Nello
studio dell’uomo è necessario, oltre che possibile, spiegare in altri modi, nel
quadro di altri sistemi di riferimento, anche i comportamenti che hanno già
trovato una spiegazione….è proprio la possibilità di spiegare esaurientemente un
fenomeno umano almeno in due modi (complementari) a dimostrare da un lato,
che il fenomeno in questione è spiegabile, dall’altro che ognuna delle spiegazioni
è esauriente, e dunque valida, nel sistema di riferimento che le è proprio”. Si
configura come fondante della disciplina, allora, la “metodologia del doppio
discorso”. (Devereux, 1978) Porsi in un’ottica etnopsichiatrica permette di
cogliere e valorizzare il ruolo della cultura nella formazione dell’identità
individuale e nella definizione, condivisa da un determinato popolo, dei concetti
di salute, malattia, cura. Ogni società, quindi, manifesta sia le proprie malattie sia
il proprio, specifico, modus curandi: l’esperienza della malattia deve essere
considerata un “luogo sociale”, una sorta di specchio delle condizioni culturali,
ambientali, materiali espresse da una società. “La malattia - scrivono Augé e
Herzlich (1986) - è un avvenimento sfortunato che esige un’interpretazione e che
non è mai puramente individuale. Si tratta, infatti, di un’interpretazione collettiva
condivisa dai membri di uno stesso gruppo sociale, ma si tratta anche di
un’interpretazione che coinvolge la società e che parla del nostro rapporto con il
sociale. La dimensione sociale della malattia, consiste allora nel fatto che essa
funziona come significante, come supporto del senso del nostro rapporto con il
sociale”. Premesso ciò, ed alla luce dei massicci flussi migratori dal Sud del
mondo (che comporta la presenza ed il radicamento nell’ecologia umana dei paesi
occidentali di popolazioni con diverse ed eterogenee identità culturali), si è reso
ineludibile il ripensare il senso ed i metodi del sapere psicologico e
psicoterapeutico. Per operare con questi soggetti in modo veramente scientifico
bisogna ammettere che: “Nel momento in cui accoglie gli immigrati la nostra
società guadagna in comprensione di sé stessa più di quanto perda in omogeneità.
Gli psicopatologi devono ammettere che, accettando con serietà psichiatrie
radicalmente differenti e dedicandosi a saggiarne le risorse tecniche, la nostra
psichiatria diventerà più profonda e farà un passo avanti nella direzione di
un’autentica scientificità” (Nathan, 1993). L’etnopsichiatria si configura, dunque,
come uno strumento adeguato ad affrontare i molteplici problemi derivanti dai
processi di acculturazione, senza provocare la catastrofe di una naturalizzazione
1
Cit. in O. Licciardello Gli strumenti psicosociali della ricerca e dell'intervento, Milano, F. Angeli
1994
4
psicologica e culturale. Per questo, Salvatore Inglese (1996) paragona
l’etnopsichiatria ad una “stazione di smistamento che invia gli individui ai loro
diversi mondi, ma è anche una sorta d’incrocio dove s’intrecciano
temporaneamente varie visioni del mondo”. Ugo Corino (1995) pone l’accento sul
fatto che: “Operare psicoterapeuticamente con pazienti immigrati porta
all’impatto con le loro culture “altre”, che ci costringono a relativizzare ed a
ripensare gli strumenti (teorie e tecniche) di cui siamo portatori. Questi pazienti
portano con sé una doppia rottura, quella del passaggio migratorio (i legami con le
proprie radici etniche, culturali, ecc.) e quella del mancato inserimento nel nuovo
contesto sociale e culturale del paese ospitante”. I pazienti immigrati sono, per
così dire, sospesi fra due mondi, e questo alimenta una condizione di fragilità
identitaria che può declinarsi in modo psicopatologico. A questo proposito,
Winnicott (1971)
2
afferma che all’immigrato, al centro di una sorta di terra di
nessuno tra il vecchio ed il nuovo, “manca il posto dove poter mettere quello che
trova”. Inoltre, può capitare di imbattersi in persone che hanno vissuto nel paese
di origine esperienze estreme (guerre, torture, abusi sessuali) e quindi portano in
terapia un’ulteriore, drammatica, richiesta di aiuto. Beneduce (op.cit.) sostiene che
“gli immigrati testimoniano di una volontà e di un desiderio di appartenenze
multiple: rispetto a questa volontà e a questo desiderio, la nozione di identità
etnica e culturale rende cogente un’ulteriore ed urgente ripensamento, e ciò
proprio ai fini concreti di una clinica etnopsichiatrica”. La consapevolezza del
fatto che il nostro sapere non riusciva a coprire l’intera area della sofferenza
espressa da queste persone, ha reso necessario “inventare” una tecnica
psicoterapeutica applicabile a soggetti provenienti da altri mondi culturali. Nathan
(op. cit.) ha proposto una nuova dinamica d’interazione clinica con questi
pazienti, all’interno di un inedito dispositivo tecnico di matrice gruppale, in cui il
terapeuta è circondato da un certo numero di co-terapeuti di diversa lingua e
nazionalità in veste di mediatori etnoclinici. Il dispositivo della consultazione
etnopsichiatrica è plurietnico, plurilinguistico e pluriculturale, poiché le sue
caratteristiche strutturali sono considerate decisive per l’innesco, lo sviluppo e gli
esiti del processo terapeutico. “In psicopatologia - afferma Devereux – non
esistono dati indipendenti dallo specifico dispositivo clinico adottato per
raccogliere ed interpretare i fenomeni prescelti”. Per questo motivo,
“l’etnopsichiatria s’impegna a non considerare mai un disturbo come naturale, ma
sempre costruito da determinati professionisti” (Nathan, 1997). Quello che, allora,
distingue una pratica professionale da una “banale” relazione umana, è che le
interazioni che si producono all’interno di un dispositivo tecnico vengono ad
inscriversi in un’operazione di costruzione di senso “indotta” dal dispositivo
stesso. Proprio a questo proposito, Jean Benoist (1996) ci ricorda che: “La
2
Cit. in Le Roy, 1996, "La psiche e il mondo sociale. La gruppoanalisi come strumento del
cambiamento sociale", Milano, R. Cortina.
5
malattia è di certo un fatto, ma anche un discorso su questo fatto. Il discorso sul
male è consustanziale al male stesso”.
1.2 Il ruolo della cultura nella fondazione dell’identità
Abbiamo visto come i flussi migratori che stanno interessando il mondo
occidentale ci hanno “costretto”, in un certo qual modo, a confrontarci con culture
radicalmente altre; questo c’induce a condurre una riflessione più approfondita sul
ruolo giocato dalla cultura nella fondazione dell’identità personale ed etnica.
Quello d’identità è un concetto complesso, multideterminato, polisemico, quindi
di difficile e controversa definizione. Kaes (1987) ha descritto quattro funzioni
psichiche principali della cultura:
1) Mantenere la base individualmente indifferenziata della struttura psichica,
necessaria per appartenere ad un insieme sociale;
2) Assicurare un insieme di difese comuni;
3) Dare indicazioni per l’identificazione e la differenziazione che garantiscano la
continuità della distinzione tra i sessi e tra le generazioni;
4) Costituire un’area di trasformazione psichica fornendo significati,
rappresentazioni e modalità per trattare ed organizzare la realtà psichica;
All’interno di una determinata cultura una persona può sviluppare la propria
identità, definita dalle impronte simboliche che le vengono conferite all’interno
del gruppo familiare primario e dei successivi gruppi sociali. L’identità culturale
esprime quello che segna l’appartenenza per nascita, per storia, per caratteristiche
biologiche a gruppi determinati (essere uomo o donna, italiano o africano, ecc.).
Ogni gruppo, popolo o società dispone, infatti, di tratti culturali propri, che in
6
genere non sono sovrapponibili a quelli di altri popoli ed hanno la funzione di
mantenere coesione e continuità in quello specifico gruppo sociale. Per cultura,
quindi, s’intende qualsiasi attività o pensiero acquisito da un uomo in quanto
membro di una società. La cultura è appresa dagli individui sin dalla prima
infanzia, attraverso quelli che Rouchy (1987) definisce incorporati della cultura,
cioè quegli aspetti costitutivi dei primi rapporti umani, (rapporto tra le generazioni
e tra i sessi, il ritmo di vita - tempo e spazio - contatti e distanze corporee ecc.),
che, in quanto dati, non sono mentalizzati: come se fossero una sorta di dotazione
“biologica” di tipo sociale. Questi incorporati culturali creano la possibilità di
appartenere ad una comune vita culturale. La cultura, quindi, è acquisita quasi
come un vero e proprio patrimonio istintivo, ereditato biologicamente, che va a
costituire la specifica identità etnica di un popolo. L’identità etnica comprende,
infatti, l’insieme delle caratteristiche di una popolazione (i suoi tratti somatici, la
storia antica e recente, abitudini alimentari e familiari, credenze, usanze, religione,
ecc.). “Ethnos” nell’antico greco, significava “popolo” e stava ad indicare quel
senso d’appartenenza ad un gruppo che condivide una stessa cultura. Ciò che
determina, innanzi tutto, la specifica identità culturale di un popolo è la lingua, la
possibilità di comunicare ricorrendo ad un codice comune: tanto è vero che, per i
Greci, barbaroi, stranieri, erano coloro che non parlavano il greco. Secondo
Nathan (op. cit.): “La lingua rappresenta una forma specifica del sistema culturale
che serve a determinare il senso d’appartenenza dell’individuo e le sue possibilità
di scambio sociale all’interno del proprio gruppo, assegnando al soggetto una
posizione differenziata rispetto a coloro che non appartengono allo stesso campo
linguistico”. Attraverso un certo modo di esprimersi, diamo significato a ciò che
ci circonda, per isolare e mettere a fuoco gli oggetti, nominando ciò che
c’interessa del mondo circostante. La lingua è quindi una guida alla realtà sociale
e possiede, come ci ricorda Inglese (1996), “il potere di evocare l’universo fisico
affettivo, conoscitivo ed esperenziale del suo locutore. Quest’universo è lo sfondo
strutturale in cui è contenuta l’esistenza di un individuo o di un gruppo
determinati”. La lingua è dunque il bene più specifico di un gruppo sociale e ne
contiene l’anima, l’energia, la creatività. Devereux
3
definiva la lingua come “un
oggetto creato da un gruppo che, in seguito, crea gli individui di questo gruppo ad
uno ad uno”. Allo stesso modo, per un individuo, la lingua materna, quella in cui
ha imparato a parlare, è il luogo da cui diffonde il suo sentimento di identità.
Naturalmente, oltre che dalla lingua, l’identità culturale di un popolo è formata dai
suoi miti, dalle tradizioni, dalle usanze, dai cosiddetti temi culturali, cioè le
modalità di accudimento e educazione dei bambini, codici di comportamento,
ritmi di vita, abitudini alimentari. Diviene evidente, a questo punto, che ogni
cultura definisce in modo caratteristico anche il corpo, la salute, la malattia.
3
Cit. in Nathan, 1998, relazione sul tema "G. Devereux: etnopsichiatria" 28-5, Laboratori
Synthelabo