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Introduzione
È una calda giornata di maggio a Genova, devo raggiungere l’Archivio di Stato di
Genova e mi perdo, dopo aver percorso a piedi una salita dalla pendenza mai vista
prima, ogni passo inciampo perché il percorso è dissestato, il rivestimento della strada è
ancora quello originale; sbuco in una piazza molto grande e molto bella, circondata da
palazzi antichissimi, se avessi tempo potrei attraversarla e godere della vista di tutta la
città, da dove mi trovo intravedo già qualcosa. Ma devo correre all’Archivio, per
consultare i documenti del Ministero dell’Interno che testimonierebbero l’esistenza dei
periodici di moda in città; mentre lo raggiungo percorro una stradina stretta, molto
piccola dove si percepisce la storia, insomma è un’altra sorpresa; mi convinco del peso
che la moda può aver avuto nel passato della città e prende sempre più consistenza il
mio progetto di parlare proprio dei giornali di moda: come è possibile che una città tanto
antica e raffinata non abbia un retaggio storico-culturale della moda?
Perdendomi per le strade di Genova, inizio a conoscere una città sorprendente, ma
soprattutto il luogo dove posso coniugare la mia passione per la storia con quella per la
moda; eppure da tempo mi “dicono” di essere nel posto sbagliato perché il sistema della
moda non fa più parte del comparto economico locale; infatti, come non sapere che oggi
giorno sono 3 le città nel mondo più importanti in questo settore: Milano, Parigi, New
York, ma riguardo la storia non esiste nessuna ricerca che confermi l’assenza della
moda, o meglio, che metta in luce il prestigio ottenuto da tale realtà sociale a Genova.
Lo stile tipicamente riservato del popolo genovese, infatti, si traduce in una certa
riluttanza nel mostrare il prestigio locale, niente è gridato; ma tale atteggiamento, che
appunto si ripercuote su ogni settore, economico e culturale, nel tempo, cerca di essere
superato proprio dalle personalità che portano la città ligure nel mondo. Dire, quindi, che
a Genova non sia stato fiorente il mercato dell’abbigliamento e non si cerchi ancora
adesso di valorizzarlo, non è corretto. Non è così difficile trovare centri di eccellenza
sartoriale di lunga tradizione, stando molto attenti alle piccole botteghe, tappa anche di
famosi nomi della cultura nazionale; d’altra parte, sono diverse le personalità del
territorio divenute autorevoli nella scena internazionale.
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Recentemente, proprio lo stilista genovese, Andrea Odicini, famoso in tutto il modo per
le sue collezioni particolarmente raffinate, è stato promotore di un concorso per la
scoperta di nuovi talenti della moda, riservato esclusivamente a stilisti della regione
Liguria, portando all’attenzione nazionale la vivacità del settore e facendo scoprire un
po’ di più della ricchezza locale.
Genova può vantare un’antica tradizione editoriale e nonostante i periodici di moda
costituiscano una piccola parte del grande ventaglio giornalistico, per troppo tempo,
questo tema è stato considerato di poco peso nella cultura cittadina, poco conosciuto
dagli stessi studiosi di storia del giornalismo. Nella storia antica, dal 1600 al 1800, viene
prodotta una certa quantità di scritti inerenti gli usi e i costumi della popolazione ligure;
molto spesso ricorro alle testimonianze dello storico Tommaso Belgrano, vissuto nel
1800 e ai documenti conservati nell’Archivio di Stato di Genova inerenti le disposizioni
suntuarie, uniche testimonianze della vita cittadina. La vera sfida comincia con la ricerca
dei periodici di moda, presenti nel territorio ligure tra ‘800 e ‘900. La principale fonte,
dalla quale ho attinto maggiormente, è il catalogo di Roberto Beccaria, I periodici
genovesi dal 1473 al 1899 (1994), un grande lavoro di archivio che raggruppa le
iniziative editoriali di ogni varietà del territorio ligure; tra questi compaiono circa venti
giornali di moda.
Parlare di moda non vuol dire parlare solo di abbigliamento, il presupposto della mia
analisi è che nella storia la moda si afferma come il linguaggio universale per eccellenza,
una lingua non scritta per le masse. Omettendo volontariamente qualsiasi accenno alla
storia della moda, che troppo è stato scritto, mi soffermo invece sull’effetto che la moda
ha avuto e continua ad avere nella cultura e viceversa; mi sono resa conto che nel
momento in cui il messaggio viaggia attraverso dei veicoli materiali, il fenomeno da
inconsistente quale era diventa ben presto regola scritta e, di conseguenza, una
condizione per la quale cambia l’intera cultura, adeguandosi all’imposizione
dell’apparenza.
Proprio questa irresistibile coercizione dalla moda provoca dibattiti tra studiosi, letterati
e persino economisti. Anche l’insospettabile Giacomo Leopardi, componendo Le
operette morali, non perde l’occasione per ragionare su come la moda presenti le stesse
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caratteristiche della morte, inscenando un dialogo spiritoso tra La Moda e la Morte. Del
resto la visione negativa della moda nella società, caratterizza la maggior parte degli
studi svolti sull’argomento; il più rappresentativo di questi è quello di Thorstein Veblen,
in diretto conflitto con la classe borghese, fautrice delle mode più eccessive; passando al
sociologo Georg Simmel, si può dire il teorizzatore delle interpretazioni delle dinamiche
del fenomeno nella società, anticipatore delle teorie sviluppate dai moderni sociologi.
Se le discussioni nelle aule accademiche riconoscono all’arte del vestire un’importanza
scientifica, i romanzi tipici dell’800 decretano il successo del fenomeno a livello sociale
e culturale. Inaspettatamente il romanzo ha il potere di veicolare il messaggio della
moda, anche come indice dei sentimenti e dei valori umani. Attraverso un racconto
popolato di figure femminili la moda si imprime così nell’immaginazione di chi legge e
diventa argomento di conversazione ed esperienza personale. Ma la storia è
imprevedibile, con la nascita dei periodici si scopre che proprio per la presenza del
figurino, la raffigurazione dell’abito francese, sancisce la popolarità dei giornali e
l’affermazione del fenomeno della moda, come si conosce nella storia moderna. Il
giornale di moda non nasce dal niente, si fa erede di abitudini consolidate a livello di
stampa galante, satirica o letteraria: rappresenta l'approdo di una stampa pubblicistica
che aveva come piatto forte le notizie sulle feste di corte.
A metà del settecento, nell’arco di tempo in cui non si è ancora compiutamente delineata
una stampa specializzata, le pagine dedicate alla moda disegnano un quadro mutevole in
cui tuttavia è già possibile evidenziare alcune costanti. Le rubriche di aneddoti e poesie,
brevi saggi, in genere a carattere storico, sono gli elementi ricorrenti dei periodici presi
in esame, insieme alla regolare presenza del figurino accompagnato dalla sua
descrizione. La fonte privilegiata per le incisioni – dalle prime riviste di fine settecento e
quelle a ridosso dell'Unità – è senz'altro costituita dalle riviste di moda parigine, rispetto
alle quali la dipendenza per i figurini è pressoché totale. Se per qualche motivo si
interrompe il flusso dalle riviste francesi, i tipografi italiani non sono in grado di fornire
alternative ai propri lettori. Questo potente mezzo visivo consisteva e consiste tutt’ora,
nella parte più importante di tutta la pagina; nonostante il processo di alfabetizzazione si
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velocizzi sempre più, l'immagine resta il veicolo più usato, di sicura comprensione in
ogni strato sociale.
La moda si perpetua attraverso un circolo virtuoso in cui la stampa gioca un ruolo
fondamentale: attraverso la diffusione di nuovi stili, rende comuni quelle distinzioni che
prima erano privilegio di pochi e contemporaneamente attraverso il meccanismo
dell'opinione genera nuove tendenze e distinzioni.
La stampa appena nata, quindi, è anche anticipatrice di un nuovo approccio al sistema
lavorativo e sociale: tanto gli uomini quanto le donne capaci, hanno la possibilità di
ritagliarsi uno spazio riconosciuto nel campo letterario. Il periodico circola e mobilita il
pubblico, creando nuova rappresentanza di consumatori.
Il ruolo femminile come referente importante per il genere della stampa periodica si
definisce già a partire dal XVII secolo; si aprono per le donne nuovi orizzonti culturali e
così entrano a tutti gli effetti nel campo della letteratura interpretando un nuovo ruolo, o
perlomeno originale, rispetto alle loro mansioni quotidiane. Si può pensare che, proprio
perché il genere letterario del romanzo non avesse molto prestigio, la scrittura femminile
abbia potuto promuoversi con tanto fervore, in quanto la concorrenza con gli uomini si
rivela meno agguerrita che in altre discipline letterarie. Il periodico e il romanzo
assolvono a funzioni analoghe e complementari, le donne assolvono, essenzialmente, al
ruolo di divulgatrici e di intermediarie tra le varie forme di letterature.
Nell'Italia del settecento, molto raramente ci si imbatte in editrici e direttrici coinvolte
nella realizzazione di un giornale, come invece succede in Francia e Inghilterra, già dai
primi del secolo. L'unico contesto in cui era ipotizzabile che ciò potesse accadere è
quello veneziano, la piazza più cosmopolita e curiosa di novità del tempo, anche
editoriali, che si stavano delineando in ambito europeo. Proprio a Venezia, infatti,
emerge il personaggio di Elisabetta Caminer, figlia d'arte e direttrice, tra il 1773 e il
1774 dell'«Europa Letteraria» ma anche traduttrice e abile manipolatrice di testi molto
apprezzata al suo tempo. Ripercorrere la storia del giornalismo è un’importante
occasione per trovare donne che si rivolgono ad altre donne e che propongono loro una
nuova filosofia morale; né ribelli, né emarginate, né vittime, le giornaliste assicurano al
proprio sesso il diritto a forme di espressione autentiche. Con naturalezza, il discorso si
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sposta dai periodici che trattano di moda, alla grande tematica dell’autoaffermazione
della donna nella società. Parlare di moda, infatti, non vuol dire parlare solo di
abbigliamento e di un linguaggio universale, ma vuol dire parlare del cammino verso il
successo del ruolo svolto dalla donna nella cultura occidentale. A dimostrazione che la
moda, fin da subito, sottendeva a discorsi ben più grandi e lungimiranti sull’universo
femminile, è esemplare lo scritto di un’autrice sconosciuta, del 1764, estrapolato dal
giornale parigino «La Blibliothèque des dames»:
«Non si venga a dire che secondo i dettami della natura, noi donne dobbiamo mandare avanti la casa,
limitarci all'educazione dei figli finché sono piccoli, sorvegliare il lavoro dei domestici; e che non
abbiamo abbastanza acume, né forza per gestire la cosa pubblica, per fare la pace o la guerra, per
amministrare la giustizia, o per attraversare le immensità dei mari. La ragione e l'esperienza
testimoniano a sufficienza che noi saremo capacissime di fare tutto ciò; l'ineguale divisione dei talenti,
per la quale tutto viene dato agli uomini e noi donne siamo ridotte all'ozio più stupido, non rappresenta
altro che il frutto dell'ambizione di un sesso, quello maschile, invidioso dell'altro».
Se fino a metà del XIX secolo il processo di autoaffermazione nel mondo maschile, per
le donne, è stato molto lento e duramente contrasto, nei casi in cui c’era questa volontà,
a partire dalla fine del 1800 cominciano a fare parte di quel circuito di professionisti, tra
editori, stampatori, giornalisti e scrittori i nomi di letterate, con i consueti pseudonimi:
Marchesa Colombi, Contessa Lara, Sibilla Aleramo, Neera, Jolanda, Ada Negri. Le
donne hanno un ruolo nella scena letteraria, scrivere per un giornale è tappa obbligata,
soprattutto per acquisire la notorietà necessaria nella vendita dei libri, assicurarsi un
reddito tale da conquistare l’indispensabile indipendenza dalla custodia di padri e mariti.
Nel ‘900, questo lungo viaggio, incontra il clima favorevole per un’accelerazione
positiva, soprattutto nel mondo occidentale, a parlare per la libertà individuale sono i
rivendicativi giornali emancipazionisti, femminili e femministi, mentre la storia dei
raffinati periodici di moda genovesi si arresta, o meglio, si conclude.
La nascita di una cultura femminile, si riconosce non necessariamente nei testi redatti da
donne ma nel momento in cui la madre di famiglia o la ragazza, decide di superare i
pregiudizi e adottare una nuova identità, non più quella del modello coltivato negli
ambienti maschili; creare dei legami tra le donne e un'opinione condivisa, coltivare una
rete di intenti comuni, è possibile farlo attraverso lo strumento a maggior diffusione,
della carta stampata. Proprio la nascita del periodico come strumento di informazione
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unito alle argomentazioni, apparentemente innocue della moda, decreta la mobilitazione
delle coscienze sulle nuove possibilità offerte dalla società delle apparenze.
I consigli raccolti nel condurre questa indagine hanno arricchito di esperienza il mio
percorso formativo; in particolare ringrazio il dott. Roberto Beccaria, responsabile della
sezione periodici della Biblioteca Civica Berio, il personale, le storiche e gli storici
dell’Archivio di Stato di Genova, che hanno condiviso le loro conoscenze; ringrazio la
prof. Marina Milan per aver coltivato la mia passione durante i suoi insegnamenti
cominciati due anni fa.
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1. DAL VESTIRE ALL’APPARIRE
1.1 Il formarsi della cultura della moda
Così la Moda parlava alla Morte, convincendola del fatto che erano sorelle:
“Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da
principio ti gettasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti,
delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare
parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e
nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v'appiccico per li fori”
1
.
Giacomo Leopardi non avrebbe potuto dare una descrizione migliore di cosa sia la
moda, esprimendo un concetto di sicura attualità: caducità e cambiamento sono le
tematiche che affascinano critici, letterati e sociologi di tutti i tempi. Lo scopo dell’opera
leopardiana è di proporre un rimedio alla leggerezza e all’inerzia della società che lo
circonda, nonché all’eccessiva importanza data all’apparenza dell’essere, considerazioni
che si inseguono senza sosta, fin da quando la moda entra a far parte dello studio degli
intellettuali. Anche lo stesso Leopardi, pur denigrando l’argomento, trova utile capire
l’evoluzione della società in relazione alle mode; per comprendere la crescente
importanza data alle tendenze e ai modi di essere della società, è necessario ripercorrere
le fasi che hanno portato prima all’uso poi all’abuso di ogni genere di oggetto ritenuto di
moda.
1
Giacomo Leopardi, Le operette morali, Dialogo della moda e della morte, Napoli, stamperia dell’Aquila
V. Puzziello, 1835, pp. 39-45, interamente digitalizzato in Google libri.
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Se caducità e cambiamento erano presenti in tutte le società di ogni tempo, e la moda e
la morte disegnano un cerchio senza fine, forse le popolazioni antiche non sono così
diverse da quelle che sono seguite, ma è esistito un tempo in cui la società ha raggiunto
la sua massima espressione e il Leopardi è stato uno dei testimoni consapevoli; come da
principio, sono sempre artisti e letterati i migliori testimoni e ambasciatori delle
rivoluzioni della società, del costume e della moda.
Se la storia del costume, si intreccia con quella politica e sociale, non deve essere
considerata di secondo piano; tutti gli autori, a partire da quelli classici, ne parlano,
portando descrizioni minuziose di un tempo che ormai non sembra così lontano.
La storia classica e quella della moda dimostrano di non essere mai scontate, per questo
è necessario ripercorre i tempi in cui “moda” era niente e tutto, tempi di nascita e morte
per i quali non sarà mai stato scritto abbastanza.
Non è un caso se, fino alla nascita della parola “moda”, si usava dire “costume”, inteso
come modo di vestire. Proprio perché le sue caratteristiche sono la durabilità e
l’uniformità, il concetto di certo non và d’accordo con l’influenza di un nuovo modo di
interpretare i tempi, che, già a partire dal seicento, prende piede in Occidente: moda è
mutamento e incostanza, da qui la distinzione dei due concetti.
Dal vestirsi all’apparire la distanza è molto breve, non appena la pratica diventa anche
un modo per abbellirsi e il passo successivo è la conformità o il bisogno di distinguersi,
quale sia la funzione, che è ambivalente, nasce la moda. Bisogna aspettare l’estro
francese perché venga coniato il termine ad indicare lo stile: “mode” cioè vestirsi
secondo la richiesta del tempo.
Prima della comparsa nei dizionari etimologici, la prima testimonianza dell’uso della
parola, nel territorio che oggi è Italia, è datata 1645, pervenuta a noi attraverso l’opera di
un abate, Agostino Lampugnani, che, camuffandosi sotto lo pseudonimo anagrammato
Gio. Tanso Mognalpina
2
, spesso usava dire “alla moda”
3
: «Questa è vera moda far
2
Rosita Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana; Torino, ed. Giulio Einaudi, 1978, p. 5.
3
Ibidem. Agostino Lampugnani (1586-1666?), abate benedettino cassinese della parrocchia San
Simpliciano di Milano. Uomo colto impegnato in più accademie, intorno al 1648 scrive le operette per cui
si è reso famoso La carrozza da nolo e il seguito La carrozza di ritorno considerate buone raccolte di
11
apparire una cosa per un'altra» e le Mode quindi «altro non sono che un'arte di tramutare
gli oggetti»
4
.
Nella sua opera La carrozza di ritorno, l’abate critica le novità proposte in campo di
vestiario e accessori, d’altronde le prime notizie minuziose a proposito di mode sono
pervenute a noi spesso attraverso scritti di condanne come di cattolici ma anche di laici
letterati. Proprio per la sua variabilità, la moda, d’altronde, non poteva essere alla portata
di tutti, ma esclusivo appannaggio delle classi più agiate, obbiettivo, queste ultime, di
aspre critiche e satire pungenti da parte dei ceti inferiori.
Il Libro del Cortegiano, di Baldessar Castiglione, pubblicato in prima edizione nel
1528, alla quale ne seguono molte altre, è il primo della tradizione occidentale a
considerare il concetto di moda, ma senza prenderne in considerazione ancora il
termine
5
, inteso come qualcosa che punta al mutamento e all'innovazione; certo, il conte
Castiglione è stato un grande interprete del tempo. Alla sua opera, infatti, attingono
principi e principesse delle corti d’Europa, forse, proprio per questo motivo, oggetto di
così tante ristampe.
Agli inizi del 1600, il ruolo principale assunto dall’abito è definire la suddivisione di
classe e la localizzazione geografica di chi lo indossa; i ceti sociali erano ben distinti
attraverso l’abbigliamento, se conformismo e individualità era lo scopo perseguito
dall’azione del vestire.
Nell’ambito della trattatistica mirata a definire le gerarchie sociali è opportuno citare il
poliedrico artista Cesare Vecellio (1521-1601), pittore e letterato, cugino del più famoso
Tiziano, vissuto a Venezia fino all’anno della sua morte. Dal 1590 al ’98 Vecellio, si
impegna a classificare abiti di ogni genere e ceto sociale appartenenti ai popoli,
inizialmente solo occidentali, poi di tutto il mondo, cioè delle ultime terre scoperte fino a
quel momento. Il suo Habiti antichi e moderni di tutto il mondo, pubblicato a Venezia
alla fine del XVI secolo, è una raccolta di tavole che rappresentano abiti provenienti da
novelle umoristiche e satiriche ispirate ai costumi del tempo. Cfr. Enzo Noè Girardi, Gabriella Spada,
Manzoni e il seicento lombardo, Milano, ed. Vita e pensiero, 1977, p. 57.
4
Agostino Lampugnani, Della carrozza di ritorno, Ovvero Dell’esame del vestire, e costumi alla Moda.
Libro Primo. Padova, 1650, pp. 56-62, conservato presso l’Archivio di Stato di Genova.
5
Anna Panicali, La voce della moda, Firenze, Le Lettrici, 2005, pp. 8-9.
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ogni parte del mondo. Gli ordini sociali sono immortalati attraverso una istantanea di
tutte le creazioni vestimentarie del tempo, segnalando, nello stesso tempo, l'esistenza di
una crepa nell'apparato delle gerarchie.
L’opera si può intendere come il tentativo di fissare le immagini di una società che si
stava incrinando, non a caso, successivamente a quest'opera, tale genere di trattatistica
viene definitivamente abbandonato. Lo stesso Vecellio ammette:
“perchè gli habiti donneschi sono molti soggetti alla mutatione et variabili più che le forme della luna,
non è possibile in una sola descrittione metter tutto quello che se ne può dire” (Vecellio, 1598, p.
109)
6
.
La scoperta di nuove terre, le innovazioni tecnologiche, lo sviluppo di nuove vie di
comunicazione, concorrono a sconvolgere e a trasformare la società, vengono infranti gli
antichi privilegi e i ranghi imposti dalla vecchia cultura, rimasta inalterata fino a quel
momento. Se prima i popoli e i ceti venivano identificati dall'abito, il meccanismo moda
allenta le differenze imposte dal grado sociale: gli aristocratici tendono a conformarsi
alla moda imposta, i borghesi imitano l'eleganza degli aristocratici. La moda, in continua
evoluzione, detta regole ogni volta diverse che devono essere necessariamente rispettate.
Questo principio decreta il fenomeno dell'imitazione, della condivisione, nonché
l’omologazione.
Dal 1640, in tutta Europa si assiste ad un stravolgimento dei poteri e a un assestamento
della società. In Italia in particolare, l'accentuarsi della pressione francese a discapito
della dominazione spagnola, sancita politicamente dal trattato dei Pirenei (1659), decreta
l'abbandono dei costumi austeri dei paesi iberici a favore dei colori e delle balze tipici
dell'usanza d'oltralpe
7
.
Verso la metà del secolo i modelli lineari lasciano il passo ad
architetture dai motivi curvilinei, sotto la vita è un tripudio di stoffe e organze al di là di
ogni praticità, si prosegue nel barocco.
6
Cit. in Marco Belfanti, Alle origini della moda come istituzione sociale, cit., pp. 6-7; cfr. Eugenia
Paulicelli (a cura di), Moda e moderno: dal Medioevo al Rinascimento, Roma, Meltemi, 2006, pp. 41-43;
L’edizione del 1590 porta il titolo De gli abiti antichi e moderni di diverse parti del mondo, presso
Damian Zenaro; quella successiva del 1598 è intitolata Habiti antichi e modernidi tutto il mondo, presso
Gio.Bernardo Sessa.
7
A. Panicali, La voce della moda, p. 13; cfr. A. Dardi, Dalla Provincia all’Europa. L’influsso del francese
sull’italiano tra il 1650 e il 1715, Firenze, Le Lettere, 1992, p. 3.