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migratori, che hanno acquisito con il tempo una nuova valenza sociale. Dagli anni
cinquanta, i paesi industrializzati diventano meta di coloro che vogliono fuggire
dalla precarietà e dalla povertà che opprime le periferie del mondo. I due maggiori
poli migratori risultano gli Stati Uniti e l’Unione Europea con una popolazione
immigrata di 26 e 20 milioni d’unità rispettivamente. L’Italia, assieme a Gran
Bretagna, Francia e Germania superano il milione di residenti stranieri (fonte
Caritas, 2001)
I motivi alla base di questi nuovi flussi sono, secondo una delle chiavi di
lettura più utilizzate dagli studiosi, legati alla combinazione di fattori di
espulsione presenti nei paesi di esodo, ed a fattori di attrazione presenti nei paesi
di accoglienza. In breve, tra i fattori di espulsione (PUSH-FACTORS) che
maggiormente influenzano l’immigrazione, è possibile individuare: il forte
incremento demografico dei paesi più poveri che, modificando le condizioni
economiche e sociali del paese, porta ad un deterioramento delle condizioni di
vita, già considerate precarie; i conflitti razziali ed etnici; i colpi di stato militari e
determinate situazioni di degrado sociale e ambientale. Per quanto concerne, poi, i
fattori di attrazione verso i paesi di accoglienza, tra i principali troviamo:
percezione del benessere sociale ed economico; stabilità politica, economica e
sociale; opportunità di inserimento lavorative, residenziali e relazionali.
L’Italia, rispetto alle altre nazioni europee è divenuta più tardi paese
d’immigrazione. L’arrivo delle prime consistenti correnti migratorie nel nostro
paese, avvenuta nei primi anni settanta, coincide con l’attuazione di misure
restrittive da parte dei paesi di immigrazione tradizionali, finalizzate a contenere il
flusso. Le politiche di chiusura hanno raggiunto solo in parte il loro obiettivo, ed
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hanno avuto una serie di effetti secondari che hanno riguardato, seppur
marginalmente, anche l’Italia. Queste politiche hanno diminuito le quote
programmate di entrata, ma non riuscendo a bloccare definitivamente il
fenomeno, hanno aumentato il flusso complessivo di immigrazione clandestina.
La situazione italiana ha rappresentato per l’immigrato, piuttosto che una
soluzione da privilegiare, una scelta di ripiego, a causa della progressiva crisi
economica nazionale e della disoccupazione crescente. Problemi politici,
insofferenza per le restrizioni della propria cultura, voglia di emancipazione ed
esigenze lavorative, spingono gli immigrati ad accettare lavori dequalificanti,
poiché questi rappresentano pur sempre una realtà migliore rispetto alla
condizione vivibile nel paese di origine.
Gli stranieri legalmente presenti al 31 dicembre 1999 nel territorio nazionale
sono 1.251.994, così ripartiti: 499.061 comunitari (39,9%), 827.416
extracomunitari (60,1%) di cui 155.506 provenienti da Paesi a sviluppo avanzato
(12,4%) e 925.982 (74,3%) da Paesi in via di sviluppo e dall’Est Europeo. La
graduatoria delle prime dieci comunità di cittadini stranieri presenti in Italia è così
composta: Marocco (11,7%), Albania (9,21%), Filippine (4,9%), Ex- Yugoslavia
(Serbia e Montenegro 4,4%), Romania (4,1%), Usa (3,8%), Cina (3,8%), Tunisia
(3,5%), Senegal (3,0%), Germania (2,8%).
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I dati forniti registrano comunque una
sottostima del fenomeno, in quanto gli stranieri si presentano come una
popolazione difficile da censire, data la loro mobilità sul territorio e per la
componente irregolare e clandestina, ultimamente anche diminuita in consistenza
a motivo della regolarizzazione resa possibile dalla recente normativa.
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Dati ricavati da Fonte Caritas, 2001.
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La progettualità migratoria si motiva e si orienta sulla base di differenti
esigenze e possibilità che vanno a definire diversi progetti migratori: ai fini di
lavoro definendo un percorso preciso di economia familiare; per
ricongiungimento familiare, tipico di una seconda fase migratoria, nella quale il
resto della famiglia raggiunge l’immigrato già stanziato da tempo nel paese di
immigrazione, qualora sia riuscito a realizzare una qualche forma di inserimento
sociale; per motivi di studio e dunque per l’attrazione esercitata dalle università
occidentali, nonché per porre rimedio alla inadeguatezza dell’investimento
formativo dei paesi d’esodo; per motivi religiosi, vista la presenza dello Stato del
Vaticano e dei numerosi istituti religiosi; per asilo politico; per prospettive future
di raggiungimento del vero paese di destinazione (Canada, Stati Uniti, Australia,
ed altri). Qualunque sia la motivazione alla base del progetto migratorio, il
desiderio del ritorno al paese d’origine sembra essere una prospettiva comune a
gran parte degli immigrati presenti in Italia.
Le immigrazioni femminili e maschili sono iniziate parallelamente, anche
se la prevalenza numerica degli uomini è sempre stata netta. Ciò perché le prime
donne arrivate al seguito dei loro uomini rimangono più spesso nascoste negli
spazi domestici e per questo meno visibili dalle statistiche e dalle istituzioni. Più
di recente l’offerta di lavoro prettamente al femminile maturata in Italia, in
particolar modo per coprire alcune carenze del welfare sociale, ha attirato donne
sole alla ricerca di una svolta economica celere che le riportasse più agiatamente
alla vita nei loro Paesi d’origine. La progressiva femminilizzazione dei flussi
migratori risulta essere stimata in Italia, intorno al 31 dicembre 1999, del 46,3% di
donne sul totale della popolazione immigrata, mentre negli anni sessanta sfiorava
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appena il 30%. Questi dati segnano, all’interno del fenomeno migratorio, una
chiara dinamica di genere.
L’esperienza migratoria per le donne è stata, e continua ad essere, molto più
difficile di quanto lo sia per gli uomini, e questo a causa di molteplici motivi che
possono essere ricondotti a tre fattori.
Il primo fattore è quello relativo alla cultura di origine, che condiziona in
maniera rilevante le donne, specialmente se provenienti da aree geografiche come
ad esempio, i Paesi del nord Africa ed altri di religione musulmana. In questi casi,
l’inserimento nella nostra società risulta essere molto più difficile, in quanto la
fede islamica condiziona i comportamenti e definisce regole troppo rigide da poter
essere seguite in una società dalle tradizioni cattoliche.
Il secondo fattore è costituito dal paese di arrivo delle immigrate, che non
sempre è pronto ad accoglierle e che anzi, in alcuni casi, mostra non solo
indifferenza, ma il volto più crudele dello sfruttamento e della violenza.
Nell’osservare e studiare i flussi migratori femminili, occorre soffermare
l’attenzione anche sui cambiamenti avvenuti nelle strutture sociali tradizionali dei
paesi di provenienza, che hanno consentito alla donna di prendere la decisione di
migrare.
E poi c’è la maternità: quella a distanza, che implica il distacco affettivo con i
figli lasciati nel paese d’origine; quella nel paese ospite, che porta a modificare i
progetti migratori, che tante volte può essere strumentalizzata al miglioramento
delle proprie condizioni di vita, ma che in ogni modo sconvolge tempi ed
organizzazione del quotidiano delle immigrate.
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Le donne immigrate possono essere considerate strumentaliste o
promozioniste
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, in base alla tipologia che le caratterizza, ed al differente modo di
concepire il proprio progetto migratorio. Nella tipologia delle donne
strumentaliste, la migrazione è considerata una parentesi, un periodo collegato a
motivi strettamente economici, che si sviluppa attraverso un adattamento forzato
alle difficoltà legate all’immigrazione, e con la prospettiva del ritorno al paese di
origine, restando fedele alla propria cultura. Nella seconda tipologia, la
migrazione è vissuta come un modo per modificare la propria condizione sociale e
culturale; è il tempo del cambiamento, della conoscenza, del conflitto tra modelli
culturali. In alcuni casi il modello si definisce fin dalla partenza, poiché la scelta
migratoria è dettata anche da desideri e speranze di cambiamento, di studio, di
emancipazione. In altri casi, invece, il coinvolgimento nel cambiamento è il
prodotto involontario del processo di stabilizzazione, del confronto con la nuova
realtà e con un’immagine di sé e della relazione con gli altri che il tempo e gli
avvenimenti hanno profondamente mutato.
Le donne migranti che fanno parte della seconda tipologia presa in esame
conoscono molto bene le contraddizioni ed i conflitti della partenza e
dell’adattamento alla nuova realtà, elaborano un percorso di cambiamento e di
gestione dei conflitti differente rispetto a quello degli uomini, portano in sé il
conflitto tra tradizione e modernità, tra ripiegamento identitario e integrazione,
che permette loro di svolgere una funzione di mediazione. Servono da ponte tra le
generazioni, sono mediatrici nella relazione spesso conflittuale tra padre e figlio,
soprattutto tra padre e figlia.
3 M. MOLLO, “Immigrate di cultura islamica e interruzione volontaria di gravidanza: nuovi
impegni per i servizi consultoriali”, Roma, 2000, pag 5-7.
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Sono le depositarie dei valori della tradizione, indispensabili per l’equilibrio
degli individui, ed elemento di coesione della famiglia e della comunità.
Per queste donne l’emigrazione spesso rappresenta, però, l’assunzione di ruoli
che prevedono decisioni e scelte, per sé e per i figli, una responsabilità che prima
non avevano, in quanto la vita quotidiana e sociale era gestita dal gruppo familiare
e definita dagli uomini.
Nell’esperienza migratorio le donne risentono molto della mancanza dei
familiari, persone fondamentali nel supporto espressivo, punto di riferimento delle
giornate e protagonisti della loro vita.
Dopo aver esercitato in patria per lungo tempo le proprie funzioni, secondo i
codici locali, e condiviso le proprie responsabilità morali e civili con la famiglia
allargata, nel paese di accoglienza la donna si ritrova deprivata delle reti famigliari
di supporto sviluppa un senso di disagio e di inferiorità, in quanto, non riuscendo
ad esprimersi in italiano correttamente e non conoscendo i luoghi ed i mezzi di
trasporto, si trova a dover chiedere continuamente aiuto ad una seconda persona,
da cui risulta dipendente. Deve modificare orari, ritmi, modo di cucinare, in
quanto, nel paese di immigrazione, non riesce a reperire i prodotti di base
dell’alimentazione del proprio paese di origine.
Mogli, con la difficoltà di accedere all’autonomia specie se appartenenti alla
religione mussulmana; madri, con la difficoltà di assumere l’educazione dei figli
in un contesto poco conosciuto; donne, spesso sole e capofamiglia, il ruolo più
difficile da far accettare alla comunità di provenienza e all’ambiente di origine;
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lavoratrici, che spesso devono riformulare l’uso e la percezione degli spazi
domestici.
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Sarà con la leggen°40 del 1998 che prevede i ricongiungimenti familiari che
l’immigrazione assumerà un nuovo carattere, quello di stabilità e di necessità di
integrazione culturale.
Bisogna premettere che sulla costruzione sociale del ruolo di uno straniero
incidono diversi fattori, tra i quali significativi sono: il meccanismo legislativo
non sempre chiaro e comprensibile; l’attribuzione di una sola identità collettiva,
frutto di un’erronea costruzione culturale della concezione di “comunità
immigrata”; l’invisibilità sociale che connota in misura maggiore le donne.
In particolare, con l’emigrazione il rapporto tra i coniugi all’interno della
famiglia può subire profonde modificazioni. Le donne giunte in Italia si
autonomizzano nel gestire il proprio denaro, il proprio lavoro, il tempo e lo
spazio; inoltre mettono in discussione il ruolo dell’eventuale marito- padrone, con
possibili conseguenze negative sul rapporto.
L’esperienza migratoria porta anche alla ridefinizione del rapporto madre-
figlia, una relazione tutta al femminile che presuppone uno scambio dei ruoli; ciò
è evidente nel fatto che la donna immigrata, lasciando la propria famiglia nel
Paese d’origine per inseguire il suo progetto migratorio, lascia alla guida della
famiglia la persona più adatta a ricoprire i suoi ruoli, la figlia, che si troverà così a
dover badare alla casa, al padre, ai fratellini, assolvendo alle funzioni lasciate
scoperte dalla migrazione della donna, sposa e madre.
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Vedi Miranda A., 2002, “Domestiche straniere e datrici di lavoro autoctone. Un incontro
culturale asimmetrico”, in Studi e emigrazione, n.148, CSER, Roma.
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Più spesso si tratta, in questi casi, di donne che emigrano da sole. Di fatti
l’emigrazione di donne sole è un fattore di forte emancipazione poiché
rappresenta una scelta non tradizionale che può comportare rotture con la famiglia
e con la propria cultura ed apre diverse possibilità di vita anche per le donne che
restano, modificando lentamente l’assimilazione di nuovi comportamenti e il
passaggio culturale che li sostiene.
La trasformazione del ruolo contribuisce ad aggravare la perdita di identità,
vengono repressi e marginalizzati atteggiamenti e abitudini propri della cultura di
origine, sostituiti con altri più rispondenti alla cultura italiana. Femminilità ed
etnicità sono appresi, e costituiscono delle costruzioni sociali che corrispondono a
situazioni socio- economico- politiche entro le quali, gruppi etnici e donne non
sono nati ma posti. “L’etnicità come la femminilità richiedono un apprendimento
frutto di azioni e di pratiche che riflettono l’appartenenza e attraverso i quali noi
ritroviamo il linguaggio, certi movimenti corporei, certi tipi di comportamento, ed
in particolare la sottomissione al gruppo dominante e l’accettazione di certi lavori
considerati appropriati per i membri di un gruppo etnico.
L’etnicità e la femminilità, in quanto significati sociali, sono in seguito
utilizzati come spiegazione delle attitudini e dei gesti degli individui. Etnicità e
femminilità assieme creano una situazione di isolamento, di solitudine, spesso di
impotenza.”
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Nell’emigrazione emerge un’immagine di donna straniera che, pur
condividendo i costumi occidentali, cerca di conciliare, di tenere assieme, in
5
G. LEGAULT, E. ROJAS BONAVENTE, Femmes immigrantes et travail social: une recension
desertis, service sociale, n°. 37, 1988, pp. 177-178.
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relazione all’etnia di appartenenza, i valori originari con i modelli della modernità,
con possibili effetti negativi per la propria psiche e per il proprio equilibrio psico -
sociale.
Tornando al ruolo della famiglia d’origine, non sempre la presenza di questa
contribuisce all’integrazione, in particolar modo per la donna, in quanto il tempo
libero a sua disposizione viene a trasformarsi spesso in tempo dedicato ai rapporti
familiari. L’amicizia con gli italiani è di difficile realizzazione, così gli anni
passano nella speranza di un ritorno in patria che si dilaziona nel tempo.
L’isolamento, inoltre, viene determinato dalla incapacità di effettuare una corretta
comunicazione con il mondo esterno, in quanto non si conosce la lingua ed i
rapporti sono più spesso mediati dall’uomo o dai figli, evidenziando l’inefficacia e
l’incapacità che viene attribuita alla donna. Ciò provoca un’aggravante nelle
condizioni psico–fisiche per la salute di queste donne che dalla solitudine spesso
arrivano a riversare in stati nevrotici dovuti alla sovrapposizione dei ruoli.
Comunque la possibilità del ricongiungimento familiare rimane una delle
modalità principali di inserimento nel nuovo paese. Ma non la sola.
Quando le due componenti culturali (autoctone e immigrate) rinunciano
ciascuna ad un ruolo dominante e cercano soluzioni di compromesso che
valorizzino entrambi, o che almeno non ne sviliscano nessuna, possono aver luogo
i cosiddetti matrimoni misti, in cui sono coinvolti un cittadino italiano ed un
cittadino straniero, o anche cittadini di nazionalità diverse che si incontrano nel
paese di immigrazione.