INTRODUZIONE
Al giorno d‟oggi, quando si utilizza il termine “mito”
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, si tende a considerarlo in una
scala che ha due poli estremi: da un lato si pensa al mito come a qualcosa di falso,
che si associa alla leggenda metropolitana, dunque un racconto fantastico e non
reale, dall‟altro si tende ad associare questo termine a qualcosa di potente, di
importante, di bello. Entrambi i poli implicano comunque una deformazione della
realtà storica, deformazione che può avvenire per eccesso, per cui la realtà viene
enfatizzata, o per difetto, per cui al contrario viene depauperata.
Su come si presenti il mito nel Novecento, Roland Barthes ha fornito una svariata
serie di esempi nel suo libro Miti d’oggi, pubblicato nella versione originale francese
nel 1957: partendo dal presupposto che il mito sia essenzialmente parola,
messaggio, egli ne sviluppa una concezione sconfinata, ritenendo che tutto sia
potenzialmente mito. Barthes spiega come questo, secondo il suo punto di vista,
possa essere il viso di un‟attrice famosa come Greta Garbo, che, deificato,
rappresenta una sorta di archetipo umano per via del suo aspetto quasi asessuato,
ma non equivoco. Oppure, sempre secondo lo studioso, possiamo ritrovare aspetti
mitici nel Tour de France, a cominciare dai corridori stessi che lo spettatore trasforma
in eroi, attraverso procedure quali, prima di tutto, la sostituzione del loro nome
anagrafico con un diminutivo. Il Tour de France è stato definito da Barthes come una
vera e propria epopea, il migliore esempio di mito totale, contemporaneamente mito
di espressione, di proiezione, realistico e utopistico; egli scrive che nel Tour, «come
nell‟Odissea, la corsa è, a un tempo, periplo di prove ed esplorazione totale dei limiti
terrestri», e ancora: «mediante la sua geografia il Tour è quindi censimento
enciclopedico degli spazi umani»
2
. Ma il mito può essere rappresentato anche dalla
pubblicità di un‟automobile o dalla foto che vediamo su una rivista; o ancora si può
fare di un luogo un paesaggio mitico, come secondo Barthes accade all‟Oriente nel
1
Questa introduzione si basa sull‟articolo di N. Spineto, Il mito, in F. Lenoir, Y. T. Masquelier
(edd.), La Religione, Vol. VI, Utet, Torino 2001, pp. 35-68.
2
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 111.
film Continente perduto: privato della sua storia, posto fuori di questa, l‟Oriente risulta
«appiattito, convenzionale e colorato come una vecchia cartolina»
3
.
Il termine “mito” deriva dal greco mythos; nei poemi omerici, questo termine indica
l‟eloquenza, la capacità di dire e di persuadere, e viene applicato soprattutto a due
personaggi, Ulisse e Nestore, ma con senso diverso: in riferimento al primo si
intende la capacità di trovare sempre le parole adeguate alle circostanze, in
riferimento al secondo si intende la conoscenza delle tradizioni e la storia proprie dei
greci, e il saperle raccontare con autorità. Vi è poi un terzo senso presente
nell‟Odissea, cioè il mito come progetto, congiura. Si deduce quindi che il mito sia
qualcosa che ha a che fare con la parola, è un discorso efficace e può essere vero o
non vero (almeno fino ad Esiodo per il quale il mito è sempre vero, in quanto
racconto delle storie tradizionali greche).
Nella cultura greca c‟è stato poi un duplice processo di distinzione del mito da altri
due concetti, quello di logos e quello di storia; la separazione tra mythos e logos
inizia con i sofisti, che valorizzano il logos in quanto discorso argomentativo,
razionalmente spiegato, mentre svalutano il mito perché visto come una serie di
racconti che non dimostrano nulla e non sono dimostrati da nulla. In realtà
l‟opposizione tra i due concetti non fu così netta e chiara, la filosofia continuerà a
guardare al mito (soprattutto nei momenti in cui non riuscirà più a giustificare ogni
cosa solamente con la ragione), anche perché si pensa che mito e logos abbiano
un‟origine comune e intendano tutti e due studiare la realtà nella sua globalità, anche
se con strumenti diversi: il logos con la ragione, il mito con l‟immaginazione.
Per quanto riguarda invece la distinzione con l‟altro concetto, quello di storia, si
può fare riferimento ai tre diversi significati che Paul Ricoeur attribuisce alla storia:
innanzitutto la storia come genere letterario, poi la storia come insieme degli eventi
umani e infine come l‟idea del tempo propria di una cultura. Nel primo significato,
secondo Ricoeur, la storia rompe con il mito a partire da Erodoto, per il quale la
storia è ricerca di cause recenti, mentre il mito ricerca eventi primordiali, l‟origine
remota; nel secondo significato la storia, come il mito, è l‟autocomprensione di un
popolo attraverso il suo passato, ma se il mito si fonda sull‟autorità, la storia si fonda
invece su un metodo critico. Il terzo significato riguarda l‟idea del tempo, idea che per
3
Ivi, p. 160.
i greci consiste in un‟opposizione tra tempo umano e tempo divino, per cui è con la
nascita della storia che il tempo umano assume consistenza.
Dunque: quando il logos si distacca dal mito nasce il sapere storico, il quale si può
intendere generalmente come la ricerca di cause prossime di eventi recenti, svolta
secondo un metodo critico, e dove il tempo umano diventa protagonista rispetto a
quello divino. A questo proposito è importante anche accennare al concetto di
“demitizzazione”, termine con il quale si intende la riduzione del mito al suo presunto
significato storico. Sempre secondo Paul Ricoeur, però, è necessario distinguere tra
“demitizzazione” e “demitologizzazione”: il primo termine infatti, spiega il filosofo
francese, implica un‟eliminazione del mito, che è invece essenziale in ogni religione,
mentre il secondo riguarda un‟operazione che aiuta a recuperare la genuinità del
mito senza però eliminarlo. È quindi importante ritrovare l‟aspetto storico del mito, ma
è anche fondamentale la conservazione di quest‟ultimo che rappresenta un
linguaggio unico e necessario.
Interessante è anche notare come si configura il tempo del mito, quello che Mircea
Eliade chiamava “illud tempus”, “quel tempo”, ovvero un tempo lontano, originario,
dunque anche ciclico, perché eternamente presente, un tempo che ritorna e dove
tutto si ripete.
L‟interesse per il mito, da sempre presente nel mondo letterario, persistette anche
all‟interno del panorama italiano del Novecento, ma con forme nuove, che si
svilupparono a partire dall‟influenza che svolse l‟attività di D‟Annunzio a cavallo tra i
due secoli. Infatti, una certa insofferenza per la sua parola aulica e ricercata, per il
suo classicismo, portarono ad un tentativo, da parte di nuovi giovani scrittori, di
“rompere” con D‟Annunzio, passando prima attraverso una “rottura” con la sua forma
mitica. Questo non significava comunque un rifiuto della mitologia, ma la
consapevolezza della necessità di un profondo rinnovamento che doveva avvenire
attraverso una mescolanza tra antico e nuovo, dunque un‟attualizzazione del mito.
Un primo esito di questa volontà di cambiamento fu la trasformazione del mito
classico in senso ironico e parodico; il primo a segnare questa svolta fu Gozzano:
nella sua L’ipotesi troviamo un nuovo tipo di Ulisse, non più spinto dallo spirito di
avventura (com‟era invece quello dannunziano di Maia), ma dall‟avidità di guadagno,
che rende evidente l‟intento parodico che in questo caso diventa anche beffa.
Da Gozzano in avanti il riutilizzo umoristico si diffuse ampiamente, rischiando poi
con il futurismo di mettere in crisi il pensiero mitico; il movimento infatti esaltava la
velocità e parlava di una «civiltà futura, in cui le coordinate spazio temporali
avrebbero dismesso la misura esatta per adeguarsi ai ritmi accelerati della
tecnologia»
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. In nome del tempo lineare della storia si rischiava di svalutare e
dimenticare il tempo ciclico del mito; ma in realtà proprio il progresso e la modernità
risvegliarono nell‟uomo antichi sogni come quello della velocità e quello del volo, e
insieme, quindi, l‟interesse mitologico.
Alla fine degli anni Trenta, grazie soprattutto all‟attività di Sergio Solmi, prese il via
un nuovo approccio al mito nella letteratura, non più solo parodico, ma aperto a
nuove rivisitazioni per lo più in chiave orfica e simbolica.
Nonostante Elsa Morante, come ha scritto Cesare Garboli, si ponga «fuori da ogni
tracciato, estranea a qualsiasi tradizione consacrata nel Novecento»
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, è comunque
interessante vedere quali caratteristiche abbia assunto la ripresa del mito classico
nel dopoguerra, periodo nel quale si collocano i lavori più importanti della produzione
morantiana. Spesso il mito tornò proprio come espressione delle difficoltà
contingenti, secondo una contrapposizione «tra una millenaria civiltà contadina,
governata dal tempo ciclico della natura e dall‟avvicendarsi delle stagioni, e l‟avvento
di una civiltà industriale che soffoca quella dimensione rassicurante in nome di un
tempo di fuga angosciante, lineare e progressivo […]».
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In particolare il mito classico nel dopoguerra si espresse «in rapporti di tipo
diverso: quello oppositivo mito-storia, quello nostalgico mito-età dell‟oro, quello
psichico mito-interiorità e infine quello idealizzante mito-realtà; mentre i miti più
ripresi sono quelli di Ulisse e di Orfeo».
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4
M. Cantelmo, Frantumazione e resistenza del mito nel Novecento, in P. Gibellini (dir.), Il mito
nella letteratura italiana. IV. M. Cantelmo (ed.), L’età contemporanea, Morcelliana, Brescia 2007, pp.
5-50, ivi p. 25.
5
C. Garboli, Introduzione a L’isola di Arturo, p. V.
6
M. Cantelmo, Frantumazione e resistenza del mito nel Novecento, p. 42.
7
F. Linari, La narrativa dal dopoguerra agli anni Settanta. Tra Ulisse e Orfeo, in P. Gibellini
(dir.), Il mito nella letteratura italiana, pp. 459-502, ivi p. 459.
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CAPITOLO PRIMO
PER UN APPROCCIO STORICO-RELIGIOSO A L’ISOLA DI ARTURO
1. L’immaginazione nella narrativa di Elsa Morante
Se l‟immaginazione è ciò da cui nasce il mito, è però anche l‟elemento dal quale
prendono forma molti scritti della Morante e, di conseguenza, anche molti dei
personaggi da lei creati, i quali spesso si trovano immersi in quella che potremmo
definire come una visione mitica della realtà. È, questo, l‟aspetto che mi propongo di
analizzare innanzitutto per quanto riguarda il romanzo L’isola di Arturo, del quale la
Morante inizia la stesura nella primavera del 1952, mentre la pubblicazione avviene
poi nel 1957.
La vicenda di Arturo è una vicenda che riguarda due età della vita, l‟infanzia e
l‟adolescenza, rievocate da un narratore-protagonista oramai maturo. Arturo, orfano
di madre e figlio di un uomo di sangue misto, tedesco e italiano, vive felicemente la
sua fanciullezza, in un tempo scandito solamente dalle partenze e dai ritorni del
padre; cresce in solitudine, accudito nei primi anni di vita da un garzone, Silvestro,
finché questo non deve partire per Napoli a causa del servizio militare, per poi
ritornare solamente molti anni dopo, chiudendo il cerchio del racconto e portando
Arturo fuori dall‟isola. Il fanciullo-stella vive in una totale libertà condivisa con la sua
isola (Procida) e, nei suoi sporadici ritorni, anche con il tanto amato e idealizzato
padre Wilhelm Gerace. La fase dell‟adolescenza invece, già di per sé età difficile,
vede le abitudini e le convinzioni di Arturo subire un‟improvvisa e inaspettata
metamorfosi: il padre convola a nozze con una giovane napoletana, Nunziata (di
appena un anno più grande del suo nuovo “figlioccio”!), che si stabilisce nella Casa
dei guaglioni, irrompendo nella vita di Arturo e turbando il suo equilibrio di ragazzino
solitario, non abituato ad una stabile presenza nella sua casa, ma soprattutto non
abituato ad una presenza femminile.
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Già da queste poche informazioni si possono notare alcuni aspetti interessanti, ad
esempio per ciò che riguarda la scelta dei nomi, che non credo sia casuale. Oltre al
nome del protagonista, di cui parlerò in seguito, suscitano il mio interesse quello del
padre, Wilhelm e quello del balio, Silvestro. Il Wilhelm morantiano ricorda per alcuni
aspetti quello goethiano. Meister è un personaggio combattuto tra due tendenze: il
suo amore per il teatro e il suo status di borghese, motivo per il quale il padre
vorrebbe introdurlo al mondo del lavoro, che presupporrebbe però relazioni di
subordinazione e dipendenza dalle quali invece Wilhelm vorrebbe liberarsi; infatti la
sua vera vocazione è il mondo della recitazione, nata sin da quando, da bambino, gli
era stata regalata una rappresentazione di marionette. Si tratta quindi di un conflitto
tra l‟ideale e il reale, alla ricerca di una propria identità. Una ricerca che in qualche
modo coinvolge anche Wilhelm Gerace, anche se si tratta di una ricerca della quale
forse neppure egli stesso è consapevole: posseduto da un‟irrequietudine misteriosa
passa lunghi periodi lontano dall‟isola (anche se si scoprirà poi che i suoi viaggi non
lo portavano così lontano come l‟illuso figlio aveva creduto), tornando solo per brevi
periodi ma non riuscendo mai a trovare pace. Tutto questo alla coscienza mitica di
Arturo rende il padre ancora più affascinante e misterioso: egli lo immagina come un
avventuriero di fama mondiale, rispettato e venerato in ogni dove; non sa che i viaggi
del padre sono solo dei piccoli spostamenti attraverso i quali cerca forse di
nascondere al figlio, a chi lo circonda e probabilmente anche a se stesso, i suoi
conflitti interiori, le sue paure, la sua realtà. Come Meister, Gerace combatte infatti
tra diversi sentimenti, è un personaggio contrastato: il primo a comprendere la sua
duplice anima era stato il vecchio amico Romeo l‟Amalfitano che gli aveva spiegato
come le persone possano nascere con l‟anima di un‟ape, che va dalle rose a cercare
il miele, o quella di una rosa, che ha già tutto in sé ma a volte soffre di solitudine, e a
proposito di questo gli aveva detto: «Io, per esempio, sono nato ape Regina. E tu
Wilhelm? Secondo me, tu, Wilhelm mio, sei nato col destino più dolce e più amaro:
“tu sei l‟ape e sei la rosa”»
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. Wilhelm, come il suo strano e anziano amico, si
comporta da misogino, ma ciò nonostante si sposa due volte, prima con la madre di
Arturo, morta poi durante il parto, e una seconda volta, a distanza di circa quindici
anni dalla prima, con la giovane Nunziata. Da questa ha un altro figlio, Carmine, ma
l‟evento sembra lasciarlo pressoché indifferente o perlomeno non sembra essere un
motivo tanto importante da spingerlo a trattenersi più a lungo sull‟isola, anzi, le sue
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E. Morante, L’isola di Arturo, Einaudi, Torino 1957, p. 67.
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partenze sono ancora più frequenti. Ma cosa cerca Wilhelm Gerace scappando?
Sembra in effetti trattarsi di una fuga, una fuga anche da se stesso; ciò che lo rende
irrequieto, e negli ultimi mesi di permanenza di Arturo sull‟isola quasi folle, è forse il
contrasto che egli vive tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, tra il ruolo di marito e
padre che la società prevede per lui e le altri passioni che lo attanagliano. Questo
contrasto gli conferisce ovviamente un carattere di ambiguità, che si scioglie
all‟epilogo del romanzo quando viene alla luce la sua omosessualità.
Sempre la figura di Wilhelm mi porta ad una riflessione che va al di là del suo
nome: il signore Gerace è, come ho già detto, di sangue misto, è nato infatti da una
breve relazione tra un esule procidiano ed una maestrina tedesca: forse è anche
questa sua mescolanza biologica a condannarlo all‟ambiguità. Sangue italiano e
tedesco, ma avrebbe anche potuto essere italiano e francese oppure italiano e
inglese. Invece l‟autrice sceglie proprio di unire due popoli che durante la seconda
guerra mondiale hanno conosciuto un rapporto di amore-odio, che sono stati prima
alleati e poi nemici. Ed anche questa, secondo me, come quella dei nomi, non è una
scelta casuale. La Morante inizia a scrivere L’isola di Arturo nel 1952, quando il
ricordo della guerra è ancora vicino e questo si ripercuote inevitabilmente sull‟idea
che gli italiani costruiscono riguardo ai tedeschi. In parte, in realtà, l‟ostilità verso i
tedeschi era già nata durante la guerra, quando alla maggior parte della popolazione
italiana, in particolare dal 1942, cominciava a non interessare più la vittoria ma
solamente la pace e l‟uscita dalla guerra; a quel punto il tedesco venne percepito
come l‟avversario perché si sapeva che proprio grazie alla potenza militare del Reich
la guerra sarebbe potuta continuare ancora a lungo. Durante la ritirata, poi, i soldati
tedeschi si macchiarono di atti di violenza (dai quali, a dire il vero, nessuno che fosse
coinvolto direttamente nel conflitto si astenne) che sicuramente dovevano rimanere
nell‟immaginario collettivo. Dopo la guerra, poi, la tendenza a demonizzare il tedesco
fu molto forte: molti italiani (e non solo) attuavano una generalizzazione, ovvero
tendevano ad associare l‟immagine del tedesco con quella del nazista; questo
atteggiamento derivava probabilmente anche dal fatto che l‟essere stati complici
della politica hitleriana aveva fatto nascere nella coscienza collettiva, una volta finita
la guerra, la volontà di riscattarsi in qualche modo e di redimersi; nasceva così la
tendenza a riversare la totalità delle colpe verso coloro che agli occhi del mondo si
erano mostrati come gli artefici di un genocidio senza precedenti.