3
Introduzione
Obiettivi e questioni affrontate
Per un’etnografia virtuale
Compito di questo lavoro è di esplorare le possibilità innovative per un’antropologia
incentrata sul cyberspazio come contesto di ricerca, applicate a una comunità virtuale
creatasi attorno a un team di sviluppo di videogiochi indipendente.
Il mio obiettivo iniziale è proprio quello di offrire una panoramica teorica per rendere
pensabile l’etnografia virtuale come pratica legittima all’interno del paradigma scientifico-
antropologico odierno. Il primo, fondamentale, concetto con cui mi confronto è quello di
campo: in primo luogo, ne metto in luce la sua instabilità epistemologica; in più, ne affronto
il carattere di attività fondamentale della disciplina, o vero e proprio dogma, come lo definì
il seminale testo di Rainbow, Reflection on Fieldwork in Morocco. La nozione di campo è
così affrontata dalla sua istituzionalizzazione accademica, cioè la nota introduzione al
lavoro di Malinowski nelle Trobriand, in cui la metafora del corpo e la ricerca degli
imponderabili della vita reale ne costituiscono il nucleo argomentativo: due concetti che
rimandano a una componente prima di tutto fisica che non saranno messi in discussione
dall’etnografia se non in tempi relativamente recenti.
Così facendo, tento di spiegare come la scienza sociale ambisse a una struttura analoga alla
“scienza da laboratorio”: ciò imponeva ai suoi praticanti che i propri oggetti di studio
Introduzione
obiettivi e questioni affrontate
4
dovevano essere concepiti come aventi il medesimo statuto di quelli rigorosamente
analizzabili all’interno dei contesti sperimentali. Solo attraverso l’osservazione diretta dei
fenomeni questi dati erano allora affidabili e utilizzabili. Gli antropologi, al pari degli
uomini di scienza, non si potevano più affidare a informazioni di origini profane, quelle cioè
condotte da figure sul campo senza nessuna formazione professionale. L’osservazione in
prima persona diventava, così, un aspetto imprescindibile.
Ci sono due problemi principali nel parlare di campo a riguardo dell’etnografia virtuale: da
una parte, l’etnografo non viaggia, non si sporca le mani “andando là”. Dall’altra, non
muovendosi, l’antropologo è a contatto con situazioni e luoghi che sono a lui familiari.
L’antropologo che si muove nella modernità, infatti, non può non riconoscere nel
collegamento a internet la sua quotidianità, ovvero quella familiarità contenuta
nell’esplorare indirizzi web navigabili grazie a linguaggi comuni (o linguaggi
dell’interfaccia, come precisa Manovich) stando comodamente seduto sulla poltrona del suo
ufficio o della sua abitazione privata, senza privarsi della sua regolare vita sociale (amici,
partner, colleghi). In questo senso, l’etnografia virtuale si situa là dove si sono già situate
molte altre etnografie contemporanee, come gli esempi di McCarthy Brown (che, nella sua
etnografia condotta a Brooklyn a proposito di Alourdes, una sacerdotessa vodoo, viaggia in
automobile o con la metropolitana di New York) o come quella di Pink, giocata tra
strumenti tradizionali (interviste, itinerari in Spagna, viaggi attraverso l’Inghilterra) e
strumenti virtuali (soprattutto comunicazioni elettroniche). Sono esempi che hanno in
comune una qualità particolare, il mutamento del concetto di fieldwork tradizionale, dove il
campo non esibisce entrata né uscita, ma è fuso nel vissuto di tutti i giorni, in cui le
riflessioni ermeneutiche accompagnano tanto la raccolta dei dati quanto la colazione
mattutina del ricercatore.
Introduzione
obiettivi e questioni affrontate
5
In questo modo, dopo aver esaminato la particolare concezione che dà Levy di quello che
chiama Nuovo Spazio Antropologico del Sapere, che trova negli strumenti informatici un
terreno tanto favorevole quasi da caratterizzarlo interamente (internet è, almeno per ora, uno
degli unici territori dove il sapere condiviso e la produzione collettiva della nostra specie
possono svilupparsi enormemente), nel lavoro emergerà a livello etnografico il cyberspazio
quale nuovo spazio di riflessione che, sovrapponendosi ai precedenti spazi di significazione
generati dalla nostra specie, si dimostrerà sempre più naturalizzato e invisibile
1
.
L’ultima parte del capitolo iniziale intende dare un resoconto della letteratura inerente
all’argomento: dal saggio del 1994 di Arturo Escobar Welcome to Cyberia, Notes on the
Anthropology of Cyberculture ai lavori di Sherry Turkle, sino alle proposte formulate da
Hakken o da Hine con il suo Virtual Ethnography. È in questo scenario che si definisce il
mio lavoro: il risultato di una ricerca condotta su diversi piani metodologici, in parte
recentissimi, che la disciplina comincia ad affrontare attraverso la pratica etnografica.
Pensare al lavoro di campo in relazione a un nuovo spazio di indagine, il cyberspazio, rivela
la possibilità di uno spazio non più geograficamente delimitabile. Piuttosto, l’etnografo è
chiamato ad abitare un campo relazionale. È così che Hine attua un distinguo che è, a mio
avviso, decisivo: esso si divide in due parti. Dapprima, l’autrice contesta la subordinazione
del virtuale nei confronti del reale. Poi, teorizza la differenza tra internet inteso come mero
artefatto tecnologico, uno strumento in mano a una comunità (e per questo un possibile
oggetto di studio all’interno di una di queste, come proposto da Slater e Miller) e internet
quale dimensione attiva impegnata nell’elaborazione di un proprio processo culturale.
Il capitolo successivo è tutto incentrato sulla metodologia di ricerca online. È un capitolo
nodale: scopo della brevissima riflessione-confronto con le scienze dure è di costatare
quanto le costruzioni teorico-metodologiche nelle scienze sociali siano importanti e abbiano
1
Eppure, in parte, già lo è ora: si prenda ad esempio il carattere di homework proposto da Wisweswaran come
spazio di significazione culturalmente familiare, oltre che luogo geografico dove avviene l’accesso all’oggetto
di studio.
Introduzione
obiettivi e questioni affrontate
6
bisogno di una certa autorevolezza per farsi apprezzare dalla comunità scientifica.
L’equazione che prevede equivalenti buona metodologia e prestigio autorevole, giustifica di
rimando il riferimento all’antropologo virtuale di Kath Weston e alla sua (mia) scarsa
autorità etnografica. Così, l’antropologo virtuale (che non s’interroga sull’etnografia virtuale,
ma sulla sua credibilità universitaria), riflette sull’autorità etnografica: può un ricercatore
parlare delle cose che a lui interessano di più, su cui ha basato parte della propria esperienza
di vita, basandoci un lavoro di campo? È chiara la denuncia di Weston: non si sarà mai presi
sul serio come antropologi. Si diventerà virtuali, incompleti, mancando così di credibilità e
autorità etnografica.
2
Ed è anche il caso dell’antropologia nel cyberspazio che, come ambito
di studio incentrato sulle comunità online, si trova ai margini del mainstream accademico.
È attraverso l’aneddoto dei Green Card Lawyers Canter e Siegel che introduco il concetto di
comunità virtuale: esso apre, nella pur breve storia informatica, la possibilità di parlare di
sistema normativi, affrontare elementi caratterizzanti e problematizzarne parallelamente lo
statuto. Virtuali o autentiche? Le implicazioni contenute nella nozione di virtuale la rendono
una parola vischiosa e aporetica. È ancora seguendo il solco tracciato da Lévy che colmo
l’esigenza di precisare visioni e prospettive teoriche: ontologicamente, l’autore contrappone
virtuale ad attuale e possibile a reale, il movimento stesso del “farsi altro”. Autentico, in
questo senso, sarà il campo che varrà in relazione a un determinato oggetto di studio, nel
mio caso una comunità che si ritrova attorno a particolari prodotti audiovisivi. Un motivo
sufficiente per sposare la metodologia di Hine, un’etnografia mobile, pertinente alla mia
ricerca non solo perché impossibilitato a utilizzarne altre (lo shadowing, ad esempio, non ci
direbbe granché sulla comunità in se stessa rispetto a quanto riuscirebbe a dirci, piuttosto,
2
Messo in luce da Crapanzano, il concetto dello Shock del ritorno avvertito dall’antropologo è introdotto per
approfondire in maniera riflessiva un aspetto solo abbozzato nel primo capitolo. Infatti, questo scarto tra un “là”
e un “qua”, nell’etnografia del cyberspazio, semplicemente, manca. I due, distanti, concetti, quelli di Weston e
Crapanzano, parlano di autorità etnografica da due versanti opposti e complementari: uno shock del sé da
esorcizzare con la scrittura, e una scrittura che non è autoritaria per mancanza, appunto, di un ritorno da un
“posto lontano ed esotico”.
Introduzione
obiettivi e questioni affrontate
7
sul singolo membro in esame) ma anche e prevalentemente perché consente al ricercatore di
vivere un’esperienza effettivamente autentica: la medesima, cioè, degli utenti connessi al
forum.
Successivamente, subentrano due capitoli in cui utilizzo di metodi e teorie dall'antropologia
e li applico a mondi virtuali accessibili esclusivamente attraverso lo schermo di un computer.
Nel primo di questi, si intrecciano la definizione dell’oggetto di ricerca e approcci possibili
tra New media art, problematiche attuali e suggestioni teoriche che si sviluppano a
cominciare da quanto scritto da Benjamin all’inizio del secolo fino ad approdare a quanto
scritto da Gell sull’arte e l’antropologia. Proprio l’autore di Art and Agency ci ricorda che,
nel trattare di “arte”, l’antropologo debba fare suo un ateismo metodologico, diventare, cioè,
indifferenti alla sensibilità estetica, assimilabile in tutto e per tutto a un’autentica religione
dell’uomo moderno. Artisti e sviluppatori di videogiochi indipendenti, i Tale of Tales
ottengono così una collocazione analitica avalutativa nella quale possono ritrovarsi, insieme
con le loro opere e, fortunatamente, con il loro pubblico.
All’ultimo capitolo, che racchiude in sé le conclusioni del mio lavoro, ho affidato il compito
di restituire testualmente parte della mia esperienza di ricerca. Un tentativo pudico, semplice
nella sua costruzione e nel suo svolgimento, che non ambisce a fornire il lettore di una
raffinata e autorevole interpretazione del contesto studiato, quanto piuttosto confermare la
possibilità, nel cyberspazio, di una dimensione attiva e consapevole nel processo di
produzione culturale.
8
1
Per un’etnografia virtuale
Problemi metodologici e prospettive di ricerca
1.1 Problematizzare gli imponderabili della vita reale
Immaginatevi d'un tratto di ritrovarvi insieme a tutto il vostro bagaglio teorico solo in un
sito. Dopo aver stabilito la vostra dimora nel forum di discussione di qualche amministratore
locale, non avete altro da fare che cominciare subito il vostro lavoro etnografico.
Immaginate ancora di essere un principiante, senza alcuna esperienza precedente, senza
niente che vi guidi e nessuno che vi aiuti, perché l'amministratore è temporaneamente
assente o non vuole sprecare il suo tempo per voi. Ciò descrive esattamente la mia prima
iniziazione al lavoro etnografico virtuale.
Molti antropologi riconosceranno nel paragrafo qui sopra il noto passo, leggermente
modificato, proveniente da Argonauti del Pacifico Occidentale, opera che Bronislaw
Malinowski pubblica nel 1922, fornendo alle élite occidentali dell‟epoca una descrizione
della cultura degli abitanti delle isole Trobriand del Nord Australia
1
. Nonostante le sue
1
Dopo aver abbozzato questo capitolo, ho constatato come Boelstroff, con le dovute differenze, mi avesse
anticipato nell‟impostazione richiamando la classica etnografia di Malinowski nel descrivere il momento del
suo arrivo nel mondo virtuale di Second Life. Cfr. Boellstroff Tom, Coming of Age in Second Life. An
Anthropologist Explores the Virtually Human, Princeton, Princeton University Press, 2008.
2
Bronislaw
Malinowski non è di certo il primo scienziato né il primo antropologo a compiere ricerca sul campo.
L‟esigenza della verifica dei dati raccolti, la nascita della disciplina antropologica nelle accademie e la
maggiore facilità di spostamento avevano già spinto altri oltre la conoscenza per procura. Prima di lui, sono
nomi noti, nella letteratura antropologica, tra gli altri, quelli di Spencer e Gillen, De Gérando, Schoolcraft,
Haddon, Rivers e Seligman. E‟ possibile leggerne una attenta analisi in Fabietti Ugo et al., Dal Tribale al
Globale, Introduzione all’Antropologia, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002, p.44-59.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
9
debolezze teoriche, messe in rilievo dalle critiche di cui fu oggetto dai successivi sviluppi
della disciplina antropologica, fu Malinowski più di ogni altro antropologo, e Argonauti più
di ogni altro suo libro, che sancì la necessità che gli antropologi avrebbero dovuto ampliare
la loro esperienza tramite lo stretto contatto con le vite della gente di cui avevano intenzione
di parlare
2
. Il testo rappresentò l‟allontanamento esplicito da una metodologia dicotomica, in
cui le figure dell'antropologo e dell'etnografo erano professionalmente distinte. Una
metodologia in cui il ruolo dell'antropologo evoluzionista, l'antropologo armchair,
distaccato e lontano dalle realtà studiate, era quello di elaborare a debita distanza dati
raccolti secondo il metodo scientifico raffinato in epoca vittoriana. Nell'ambito della teoria
antropologica evoluzionistica, la raccolta di dati, di “fatti”, era funzionale agli sforzi
comparativi che successivamente avrebbero permesso l'elaborazione di precise sequenze di
sviluppo degli stadi culturali e sociali della razza umana. Al contrario, Malinowski
introduce una metafora corporale per definire l'oggetto, il metodo e il fine della ricerca, le tre
dimensioni di indagine che introducono la sua celebre monografia. Accanto al solido schema
rappresentato dalla costituzione e dalla cristallizzazione degli elementi culturali che formano
lo scheletro sociale, la carne della vita quotidiana con il suo fluire sanguigno di
comportamenti e pratiche usuali, e lo spirito tradotto in termini di concezioni, opinioni e
giudizi concorrono ad afferrare il punto di vista del nativo, o, in altri termini, conducono a
rendersi conto della sua visione del suo mondo
3
.
2
Bronislaw Malinowski non è di certo il primo scienziato né il primo antropologo a compiere ricerca sul
campo. L‟esigenza della verifica dei dati raccolti, la nascita della disciplina antropologica nelle accademie e la
maggiore facilità di spostamento avevano già spinto altri oltre la conoscenza per procura. Prima di lui, sono
nomi noti, nella letteratura antropologica, tra gli altri, quelli di Spencer e Gillen, De Gérando, Schoolcraft,
Haddon, Rivers e Seligman. E‟ possibile leggerne una attenta analisi in Fabietti Ugo et al., Dal Tribale al
Globale, Introduzione all’Antropologia, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002, p.44-59.
3
Malinowski Bronislaw, Argonauti del Pacifico Occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società
primitiva, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2002 (ed. originale Argonauts of the Western Pacific, An
Account of Native Enterprise and Adventure in the Arcipelagoes of Melanesian New Guinea, 1922), p. 31-34.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
10
[…] nella nostra società ogni istituzione ha i suoi membri
intelligenti, i suoi storici, i suoi archivi e i suoi documenti, mentre in
una società indigena non vi è nulla di tutto questo. Dopo che ci si è
resi conto di ciò si deve trovare un mezzo per superare queste
difficoltà. Questo mezzo per l'etnografo consiste nel raccogliere i
dati concreti offerti dall'esperienza e trarne da solo le conclusioni
generali. A giudicare dalle apparenze sembra una cosa ovvia, ma
non è stata scoperta, o almeno non è stata messa in pratica, in
etnografia, finché il lavoro sul terreno non è stato intrapreso da
uomini di scienza.
[…] c'è tutta una serie di fenomeni di grande importanza che non
può assolutamente essere registrata consultando o vagliando
documenti ma deve essere documentata nella sua piena realtà.
Chiameremo questi fenomeni gli imponderabili della vita reale
4
.
Qui, l'antropologo polacco parla di dati concreti offerti dall'esperienza sul campo, di
esperienza concreta, di piena realtà e di credenze effettivamente vissute. Risulta evidente
come questa sia una concezione prima di tutto ancorata al mondo fisico, esperibile
esclusivamente attraverso il viaggio dell‟“uomo di scienza” tra le popolazioni native,
ulteriormente enfatizzata dall‟utilizzo dell‟organicità corporea come metafora utile
all‟analisi sociale.
In questo lavoro prendo metodi e teorie dall'antropologia e li applico a mondi virtuali
accessibili esclusivamente attraverso lo schermo di un computer. Data la novità di questi
spazi, in questo capitolo definirò cosa è l‟etnografia virtuale, in che modo se ne è scritto e
quali strumenti di indagine ha utilizzato nella breve storia che la ha caratterizzata fino a ora.
4
Ibidem, p. 21-27.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
11
Non prima, però, di aver fatto una veloce perlustrazione sull‟attuale dibattito sullo stesso
concetto del “lavoro di campo”, che, a differenza del momento in cui scriveva Malinowski,
soffre oggi di un‟instabilità teorica messa in luce da numerosi autori. Tuttavia, cercherò di
mostrare come questi sviluppi aprano uno spazio per pensare l‟etnografia come una modalità
di conoscenza basata sull‟esperienza che non ambisce a produrre uno studio olistico di una
cultura rigorosamente fissata. L‟attuale ripensamento epistemologico rappresenta
un‟opportunità per riconsiderare la costruzione dell‟oggetto etnografico e riformulare la
nozione stessa di campo.
1.1.2 La nozione di campo
L'iniziazione alla comunità antropologica è la prova a cui ogni aspirante antropologo deve
sottoporsi se vuole essere legittimato dalla comunità scientifica di appartenenza. Questa
sorta di rito di passaggio è rappresentato dalla ricerca sul campo, mezzo necessario
attraverso il quale prende forma la scrittura etnografica. Il lavoro di campo è stato, e rimane,
il segno distintivo della disciplina antropologica, riespone Paul Rainbow nella sua nuova
introduzione a Reflection on Fieldwork in Morocco dopo più di trent'anni dalla sua originale
pubblicazione
5
. Il testo è una serie di riflessioni sulla propria prova etnografica in Marocco,
a partire dalla sua lontana esperienza universitaria:
In the graduate anthropology department at the university of
Chicago, the world was divided into two categories of people: those
who had done fieldwork, and those who had not; the latter were not
5
Rainbow Paul, Reflection on Fieldwork in Morocco, 30
th
Anniversary ed., Berkley e Los Angeles,
University of California Press, 2007 (ed. originale 1977).
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
12
“really” anthropologist, regardless of what they knew about
anthropological topics. […] I was told that my papers did not really
count because once I had done fieldwork they would be radically
different. Knowing smiles greeted the acerbic remarks which
graduate students made about the lack of theory in certain of the
classic we studied; never mind, we were told, the authors were great
fieldworkers.
6
Così, Rainbow accettò pienamente il dogma, per usare le sue stesse parole. Al suo ritorno, si
interrogò sul motivo dell'assenza di una riflessione disciplinare riguardante la costruzione
dell'ambiente di lavoro in cui l'antropologo opera. È così che realizza la sua riflessione
ermeneutica
7
. Tuttavia, questa rappresentazione è mistificante, come ricorda Fabietti:
...presentato in questo modo, il campo non è nulla di più che una
iniziazione, un rito di passaggio socialmente approvato al termine
del quale si è “incorporati” nella comunità scientifico-disciplinare.
[…] Il campo è in realtà molto di più, ed è proprio questo «di più»
che la mistica del campo da un lato e le critiche preconcette (e
rivelatrici di una certa leggerezza scientifica) dall'altro hanno la
tendenza a tenerci nascosto
8
.
6
Ibidem.
7
Riflessione in cui tutto diventa oggetto di interpretazione, come il suo arrivo in terra marocchina, o le prime
conversazioni con Richard, ristoratore francese che gli consente di bersi il caffè nel suo hotel di chiara matrice
colonialista, che gli augura “bon appetit” il mattino e lo munisce di guida turistica; o ancora la sua ansietà nel
non fare alcun progresso significativo nella lingua araba, su cui l'insegnante e primo informatore Ibrahim
sembra basare una strategica risorsa economica: elemento che a prima vista egli non seppe riconoscere,
rendendosi così conto dell‟evidente inesattezza e dell‟inconsapevole etnocentrismo che accompagnarono le
sue valutazioni iniziali.
8
Fabietti, Ugo, Antropologia Culturale, l’esperienza e l’interpretazione, Roma, Laterza, 2004 (1° ed. 1999).
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
13
Uno dei problemi inerenti alla nozione di campo, continua l'autore, è quello di
un'identificazione ormai difficile da sostenere negli stessi termini di una volta:
l'identificazione tra il campo come attività di ricerca e il campo come luogo, spazio
circoscritto entro il quale si realizzerà l'attività dell'etnografo
9
. La ricerca etnografica, infatti,
ha avuto sino a tempi recenti come referente principale uno spazio fisico. La delimitazione e
la localizzazione del terreno di ricerca in quanto luogo geograficamente definito, in cui
l'oggetto di ricerca è indagato nei fenomeni tangibili e situati della realtà, sono stati elementi
fondanti per la prassi etnografica:
Ciò era inevitabile, almeno nel senso che l'attività etnografica ha
comportato quasi sempre lo spostamento del ricercatore da uno
spazio, il proprio, verso un «luogo altro», quello della popolazione
studiata. Tuttavia tale localizzazione ha avuto riflessi importanti
anche sul piano teorico, come dimostra la tendenza a concepire gli
oggetti del lavoro etnografico sotto forme di identità largamente
isolate, circoscritte e appunto localizzabili. […] Tale concezione è
anche il prodotto di un certo tipo di pratica etnografica, la quale
comporta un soggiorno più o meno prolungato del ricercatore in uno
spazio fortemente localizzato, il «campo»
10
.
L‟importanza dei vari approcci con cui si può concepire questa nozione è fondamentale. Il
suo valore polisemico consente di identificarlo di volta in volta sia come uno spazio
9
Fabietti vede nella nozione di campo due identificazioni, che sono l‟una la premessa dell‟altra. La prima è
quella tra campo ed etnografia, due realtà che egli vede come non completamente sovrapponibili. La seconda,
che è quella che qui mi interessa, è quella tra la nozione di campo come attività di ricerca e quella di campo
come luogo. Ibidem, p. 13.
10
Ibidem, p.20.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
14
geografico, sia come lo specifico luogo dove si svolge la ricerca etnografica, sia con
l‟oggetto stesso della ricerca (ad esempio nell‟espressione, il “mio campo”).
Così, il “lavoro di campo” è l‟elemento chiave dell‟immagine che l‟antropologia elabora di
se stessa; ma la ricerca sul campo come nucleo centrale dell‟epos antropologico è a sua volta
un‟immagine composta attraverso il ricorso ad alcuni costituenti che ritornano con
insistenza: il viaggio, l‟avventura, l‟intrusione in una realtà esotica, “l‟epopea solitaria
dell‟antropologo – moderno Ulisse – che oltrepassa i confini entro i quali il resto
dell‟umanità consuma i suoi giorni, l‟incontro con l‟altro, l‟esaltazione dell‟Io che trascende
se stesso”
11
. Parlare di campo implica allora parlare tanto dei suoi ingredienti, quanto delle
premesse epistemologiche che hanno costruito la cornice teorica sulla quale la nozione
stessa fonda la propria irriducibilità disciplinare. Rivers la fa coincidere con il lavoro
intensivo di un ricercatore che vive per un anno o più in una comunità di quattro o
cinquecento individui e studia ogni dettaglio della loro vita e della loro cultura; che arriva a
conoscere personalmente ogni membro della comunità; che non si accontenta di una
conoscenza generica ma studia ogni aspetto della vita e dei costumi nei loro dettagli concreti
per mezzo della lingua indigena
12
.
Sebbene l‟origine di questo approccio sia generalmente attribuita a Malinowski,
l‟osservazione partecipante non è una sua invenzione, né tantomeno lo è la produzione di
testi etnografici basati sulla permanenza sul campo di lunga durata, durante la quale la
raccolta dei “dati” veniva svolta interamente in lingua indigena. Pioniere lo è in un altro
senso, la sua peculiarità è da ricercarsi nella destrezza nel trasformare strumenti concettuali e
metodologici volti a produrre pura e semplice etnografia, in mezzi mediante i quali produrre
11
Scarduelli, Pietro. Antropologia. Orizzonti e Campi di Indagine. Torino, Il Segnalibro, 2002.
12
Rivers, cit. in Holy, Ladislav. “Theory, Methodology and the Research Process”. Ethnographic research : a
guide to general conduct / edited by R. F. Ellen ; with a foreword by Sir Raymond Firth
London : Emerald, 2007.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
15
“specifico sapere antropologico”
13
. Come già accennato all‟inizio del capitolo, egli realizza
la sintesi di elementi sino ad allora separati. Il lavoro di campo, per lo scienziato polacco,
non era indirizzato a una descrizione dei costumi locali, quanto piuttosto a una verifica di
una particolare teoria - la teoria funzionalista - secondo la quale la cultura è un insieme di
elementi correlati, ognuno dei quali mantiene la coesione e la coerenza interna della società
tramite una funzione specifica. Le pratiche e le istituzioni sociali integrate nel grande
sistema complessivo “cultura” concorrono reciprocamente alla reiterazione del sistema
stesso, riequilibrandolo e garantendone il funzionamento. La sussunzione teoretica guidava
così la metodologia empirica, dove il concetto di cultura, senza scomodare la nota
definizione che ne diede Edward Taylor, si presentava come onnicomprensivo:
If cultural anthropology is methodologically distinctive, it is first of
all because of what it grants topical or thematic pride of place, not
because of what it defines fieldwork to be. Among such nineteenth-
century anthropological pioneers as Edward Taylor and Henry Louis
Morgan (and still, indeed, for Malinowski) “culture” was, well, just
everything from hunting implements to chiefdoms.
14
I lavori di Radcliffe-Brown ampliarono la prospettiva funzionalista, ponendo l‟accento sulla
struttura, identificata con l‟insieme delle relazioni sociali. Le singole istituzioni, così come i
singoli organi nel loro rapporto con l‟organismo, concorrono al mantenimento e alla
riproduzione degli assetti sociali, mantenendoli così “in stato di vita”. Il modello
organicistico di società che utilizzò Radcliffe-Brown fu acquisito dalla tradizione
sociologica Durkheimiana, che aveva prodotto un modello di società euristico fondato
prevalentemente sulla zoologia e la biologia. Qui, la totalità è sinergeticamente realizzata da
13
Ibidem pp.15.
14
Faubion, James D. “Currents of Cultural Fieldwork” in Handbook of Ethnography, Londra, Sage, 2001,
pp.40.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
16
singole unità, che solidificano e sostengono, nella rassicurante cornice che dispensa il
simbolismo biologico-scientifico, l‟organismo sociale. Negli anni Venti, e fino agli anni
Cinquanta, ci fu uno stretto rapporto in ambito europeo fra lo sviluppo del metodo
dell‟osservazione partecipante e le teorie funzionaliste e srtttural-funzionaliste, tanto che il
metodo scientifico divenne il punto di riferimento per un‟intera generazione di antropologi,
in cui la sfera della pratica era subordinata a quella della teoresi.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, i boasiani erano probabilmente i teorici culturali più
coerenti e profilici, anche se non proprio i migliori ricercatori sul campo, secondo quanto
riferito da James D. Faubion:
The Boasians had a healthy respect for the natural science. Yet
thinkers or theorists from whom they derived their understanding of
culture had preceded Taylor, and were almost all Germanic,
Historicist and (one would now call) Hermeneutical. […]
Taylor had, of course, himself written of culture as “complex
whole”, but the Boasians were not simply reproducing his precedent.
For the anthropologist of the nineteenth century, “culture” was a
near synonym of civilization, and civilization was a human unity,
low or crude in its “primitive” manifestations, high and refined in
modern ones. […] For the Boasians, in contrast, “culture” was
importantly plural, no one but instead many things, if sometimes
more simple, sometimes more complex. For the social
anthropologists, there were “societies”. For the Boasians,
analogously, there were “cultures”
15
.
Ma l‟antropologia non emulò la scienza della natura solo nella sua struttura e nei suoi
obiettivi. Se infatti Radcliffe-Brown proponeva che lo studio di casi individuali fosse
orientato solamente al sussumere regole di funzionamento generali e illustrazioni
15
Faubion, D. James. op. cit.
Per un’etnografia virtuale
problemi metodologici e prospettive di ricerca
1
17
panoramiche delle società, e Boas proponeva come possibile lo scientismo nella conoscenza
antropologica solo una volta conclusa la sistematica raccolta di artefatti e di accurate
trascrizioni testuali in lingua indigena che propose e impegnò il suo lavoro di campo e
quello dei suoi studenti (e qui non smentiva la sua precedente formazione in fisica, in quanto
era della convinzione che lo sviluppare l‟elaborazione teorica fosse subordinato a una
preliminare collezione di gran quantità di materiali e campioni), era perché la scienza sociale
ambiva a una struttura analoga alla “scienza da laboratorio”: ciò imponeva ai suoi praticanti
che i propri oggetti di studio dovevano essere concepiti come aventi il medesimo statuto di
quelli rigorosamente analizzabili all‟interno dei contesti sperimentali, si sentiva in altri
termini l‟urgenza di ottenere qualcosa dalle proprie osservazioni che legittimassero le
scienze umane, ovvero dei dati grezzi comparabili a quelli ottenibili dallo scienziato in
camice bianco.
Se l‟oggetto di studio doveva essere reale, fattuale, doveva pur risiedere nei fenomeni
empirici che accadono “là fuori” nel mondo
16
. Doveva essere disponibile tanto quanto gli
oggetti della scienza naturale lo erano per lo scienziato. Così, inevitabilmente, i dati
sensoriali, le informazioni raccolte attraverso la propria esperienza e la concretezza del
mondo sociale acquisirono la massima rilevanza. Parallelamente, solo con l‟osservazione
diretta dei fenomeni questi dati erano affidabili e utilizzabili. Gli antropologi, al pari degli
uomini di scienza, non si potevano più affidare a informazioni di origini profane, quelle cioè
condotte da figure sul campo senza nessuna formazione professionale. Fu quindi la volontà
di dotare l‟antropologia di uno statuto scientifico che condusse allo stabilimento della ricerca
sul campo come requisito indispensabile al quale ogni antropologo doveva (e deve)
attenersi.
16
Holy, op. cit., pp. 21.