Introduzione
Il presente vuole delineare i più importanti contributi che sono stati apportati alla
storia della psichiatria e della psicologia in Italia negli anni 800 primi del 900.
Partendo dalle origini del S. Lazzaro utilizzato inizialmente come luogo di
accoglienza per i lebbrosi e poi anche per i poveri e i malati vediamo come
questo complesso dopo la prima comparsa di un malato di mente intorno al 1534
si trasforma da un semplice luogo di accoglienza a un istituto di ricovero per
malati di mente. V ogliamo soffermare la nostra attenzione sulla figura dei medici
che si sono succeduti, in questi anni, alla direzione del frenocomio, partendo da
Galloni, il quale sotto il governo della famiglia estense e le direttive del duca
Francesco IV di Modena, inizia ad apportare le prime modifiche ed innovazioni
di ristrutturazione esterna e organizzazione interna nel frenocomio, fra cui,
l’abolizione degli strumenti di contenzione e terapia, usati fino ad allora.
Tratteremo poi brevemente la figura di Luigi Biagi successore di Galloni con il
quale inizia un periodo di decadenza del rigore clinico, dell’efficacia terapeutica
e delle condizioni di vita complessive sull’istituto che porterà per motivi di
prevenzione a riassumere gli strumenti di contenzione anche quando non ce ne
sarà bisogno. Appare invertito anche il rapporto architetto-medico, per cui è il
primo a dare direttive per la ristrutturazione del manicomio, al secondo; mentre
con Galloni avveniva il contrario. Questo rapporto viene ripreso sulla stessa linea
di Galloni, con la direzione di Ignazio Zani grazie al quale, il S. Lazzaro
riprenderà un clima più “allegro”ed efficiente. Ci soffermeremo soprattutto agli
anni ‘70 quando alla direzione del S. Lazzaro si susseguono prima Carlo Livi e
poi Augusto Tamburini, grazie ai quali la psichiatria italiana presenterà dei
progressi in campo sperimentale scientifico e la psicologia cercherà di affermarsi
come scienza autonoma. Con la ristrutturazione manicomiale e la
riorganizzazione scientifica il manicomio non è più solo un luogo di cura e
custodia dei malati di mente, ma diventa anche un luogo di osservazione e di
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ricerca scientifica. Tamburini spiega la scelta di aver impiantato i laboratori
scientifici in un manicomio, perché convinto della inscindibilità tra progressi
teorici e pratici della medicina e quelli della batteriologia, della chimica,
dell’istologia e conseguentemente del rapporto che si sarebbe dovuto instaurare
tra queste discipline e la psichiatria alle quali questa avrebbe attinto per risolvere
molti suoi importanti problemi, e nel 1880 fonda anche un Laboratorio di
psicologia sperimentale, il primo in Italia. Luogo di ricerca e di sperimentazione
psichica a livello universitario, centro di ricerca scientifica e clinica, era anche l’
università di Modena, dove Tamburini insegnava, dotato di mezzi e di uomini in
grado dal lato teorico e pratico di far sentire la loro voce a livello nazionale e
internazionale. La psichiatria positivistica si affermava così anche attraverso
l’insegnamento svolto negli ospedali, dove veniva formata la nuova classe dei
medici psichiatri legati strettamente al maestro.
L’istituto acquistava così un importanza di primo ordine per la modernità
dell’organizzazione, i mezzi e l’impulso dedicati alla ricerca e alla
sperimentazione che si divulgavano attraverso i Periodici del fondo Antico,
posseduti dalla biblioteca dell’ex Ospedale Psichiatrico “San Lazzaro”, oggi
biblioteca “Carlo Livi”. La collezione, nascerà in piena epoca positivistica nel
1875 quando, sotto la direzione di C. Livi, viene fondata la «Rivista
Sperimentale di Freniatria e delle Alienazioni mentali» e la «Gazzetta del
Frenocomio». Pubblicando rassegne, bibliografie, notizie e Congressi, la
Rivista riassumerà in pratica tutto il movimento scientifico della Psichiatria,
della Neurologia, della Medicina Legale dell’ultimo venticinquennio del 1800 e
del primo decennio del ‘900, grazie anche agli scambi nazionali ed internazionali
avvenuti con editori di altre testate, ecc…Vengono segnalate poi le sezioni di
criminologia tra cui la «Rivista di Antropologia Criminale» fondata da Cesare
Lombroso e - come conseguenza dell’istituzione della Biblioteca Degenti – la
grande varietà delle raccolte (non strettamente psichiatriche) evidenziate nella
seconda parte. Pubblicata ininterrottamente, fino a diventare uno dei più
importanti laboratori culturali e scientifici nell’ambito delle discipline
neuropsichiatriche, in Italia e in Europa, essa pubblica lavori nell’ambito della
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salute mentale superando le angustie di una logica strettamente disciplinare e
privilegiando il dialogo fra saperi contigui, accomunati dall’interesse per la
persona e la società, con l’intento di contribuire in tal modo alla ricerca del
senso e del significato delle condizioni di sofferenza e benessere psichici. Viene
dato poi maggiore interesse alle recensioni, alle rassegne generali e alle
bibliografie dei lavori più importanti. Inizia un indice bibliografico delle riviste
italiane e straniere, affidato a G. C. Ferrari, che lo curerà fino al 1903, in cui
vengono illustrati brevemente i lavori più importanti, mentre le recensioni sono
demandate alla Rivista di Patologia nervosa e mentale. È in ogni caso alla grande
clinica tedesca che gli psichiatri della scuola di Tamburini cominciano a riferirsi
a partire dalla fine degli anni settanta, privilegiando la ricerca neurologica, sulla
base del presupposto, ampiamente condiviso dalla gran parte degli psichiatri
italiani, secondo cui le cause della malattia mentale vanno ricercate nelle
eccitazioni localizzate dei centri nervosi. Ma a fianco di tale campo di ricerche
cliniche, si segnalano i contributi di Tamburini e dei suoi collaboratori allo
studio delle localizzazioni cerebrali, alla patologia del linguaggio, al problema
delle allucinazioni, all’analisi della psicosi paranoide, influenzati oltre che da
Kraepelin, anche dalla dottrina lombrosiana. La psichiatria si avvia così a
diventare una “scienza sociale”, destinata a formare la base di una “funzione di
Stato”. E del resto la legge di riforma “sui manicomi e gli alienati” del 1904 si
era incaricata di sanzionare tale funzione pubblica della psichiatria, ridefinendo
completamente le tecniche e le politiche di assistenza psichiatrica, ed istituendo
inoltre una connessione sempre più difficile da sciogliere tra malattia mentale e
pericolosità sociale. Successivamente ci soffermeremo a descrivere il comitato di
redazione, la struttura, le tematiche trattate e le recensioni presenti nella rivista,
tra cui quelle di Giulio Cesare Ferrari, che vanno dal 1893 al 1907. Abbiamo per
questo motivo ritenuto importante delineare anche la biografia e la bibliografia
delle recensioni da lui stilate nella Rivista sperimentale di freniatria e gli
importanti contributi che diede anche alla Rivista di psicologia da lui fondata nel
1912. Infine chiuderemo l’argomento descrivendo anche qui la struttura e le
tematiche presenti nelle sue recensioni: lavori originali e innovativi di psichiatri
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italiani contro la sottovalutazione e l’ ignoranza da parte della cultura psichiatrica
europea e specialmente di quella tedesca con la quale instaura dei rapporti di
collaborazione, grazie anche alla conoscenza delle lingue e alla sua formazione
culturale. Tra le recensioni più importanti e più numerose ricordiamo quelle fatte
a Binet, Möbius, Kraepelin, Lombroso, Patrizi, Sergi, Antonini ed altri, per cui
la critica e i giudizi espressi in esse ce ne fanno capire il pensiero.
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Capitolo 1
Il San Lazzaro di Reggio Emilia da lebbrosario a
manicomio
Origini storiche
Ritengo che possa essere utile alla comprensione del nostro discorso soffermarsi
molto succintamente su alcuni elementi storici riguardanti lo sviluppo e le
trasformazioni che ha subito il “San Lazzaro” nei secoli anteriori al 1800.
Risalgono infatti al 1178 le prime notizie riguardanti un luogo dedicato al San
Lazzaro e destinato ad accogliere i lebbrosi, quando Gerardino Adamo de
Donella lascia 12 denari «ad misellos (i lebbrosi) et ad ecclesiam ipsorum»1
soldo, ma è solo nella seconda metà del XII secolo che l’ospedale sorge come
lebbrosario, situato in un luogo detto «alla braida del vescovo», tra Porta
Castello e Porta S. Pietro. Il S. Lazzaro è citato espressamente oltre che nel
secondo testamento di Ugolino da Budrione del 1183, in quello di Giovanni de
Fulconibus del 1209 e i lebbrosi sono definiti «cristiani».
Nel 1217 venne trasferito lungo la Via Emilia a S. Maurizio, sulla direttrice di
strade di grande traffico, in una posizione quindi estremamente idonea ad
accogliere i pellegrini, molti dei quali lebbrosi, di ritorno dalla Terra Santa,
ubicato nell’area che occupa ancor oggi e che progressivamente si estenderà.
Col passare degli anni vi trovò ospitalità un numero sempre maggiore di poveri
ed invalidi di ogni sorta e così l’ospedale perse la sua funzione originaria di
lebbrosario e divenne un ricovero per malati e mendicanti. Sappiamo inoltre che
in occasione della pestilenza del 1348 il San Lazzaro funzionerà da luogo di
ricovero per i contagi. Nel 1442 vengono ristrutturati l’edificio dell’ospizio, che
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accoglieva 53 “pauperes et infermi”, il tetto e il portico della chiesa. Dalle fonti
notarili si deduce che le decisioni riguardanti le scelte di gestione venivano prese
in comune dal rettore e dagli ospiti in “assemblee”, in una posizione quasi
paritaria e che i malati potevano vantare una certa influenza nella scelta dei
rettori o nella censura del loro operato, tenuto conto che i lebbrosi risultavano
titolari diretti di lasciti che ricoverati abbienti o benefattori esterni, destinavano
all’ospizio. I lebbrosi, ai quali sempre più si univano i poveri, invalidi e infermi,
attuano una forma di autogestione di antica origine dovuta all’isolamento nel
quale era tenuto il S. Lazzaro, altro mondo rispetto alla città, posto al di fuori
delle mura, ma ancora in una zona intermedia fra centro urbano e piena
campagna. Il lebbrosario segue le proprie regole, si autoamministra, rappresenta
quasi l’immagine speculare della città, in un ottica esaltata, mitica,
incomprensibile per coloro che vivevano dentro le mura, dove al contrario le
poche libertà e i momenti assembleari concessi all’inizio del Comune
oligarchico, alla fine del XII secolo, andavano sempre più sfumando o
disgregandosi. Il lebbroso che si ritirava al S. Lazzaro, sapeva di abbandonare il
mondo civile, il normale quotidiano per divenire un morto tra i vivi, consapevole
di intraprendere un viaggio che anche se breve, lo staccava definitivamente dal
mondo civile. A tale riguardo sono significativi i testamenti di alcuni infermi con
i quali lasciano prima di ritirarsi nel S. Lazzaro, i propri beni ai familiari o a pii
istituti. All’interno del lebbrosario gli ammalati respiravano un atmosfera
totalmente diversa da quella lasciata alle spalle, un senso di licenza e di
permissività sembrava regnare all’interno del S. Lazzaro, mentre le leggi
vietavano loro di andare in giro per Reggio o per i paesi vicini, obbligandoli a
rimanere in «hospitali e loco Sancti Lazzari extra civitatem Regii versus mane
per unum militare», per evitare di essere espulsi e banditi dal territorio reggiano
per sempre. A partire dal 1453 la giurisdizione sul S. Lazzaro e sull’ospizio di S.
Pietro viene sottratta al vescovo e il comune di Reggio Emilia se ne impossessa.
Sono gli anni in cui il S. Lazzaro va trasformandosi accogliendo oltre ai lebbrosi
veri e propri anche i pazzi, ma bisognerà attendere il 1536 perché nella
popolazione che il San Lazzaro accoglie faccia la sua comparsa la prima figura –
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un “pazzerello” – che annuncia la sua futura destinazione ad accogliere quella
vasta ed eterogenea popolazione “sragionevole” che i nascenti stati moderni si
occuperanno di controllare e governare. È infatti a partire dalla prima metà del
XVI secolo che, di fronte alla progressiva diminuzione dei lebbrosi, il San
Lazzaro viene destinato ad accogliere anche “invalidi, decrepiti, storpi, epilettici,
sordomuti, ciechi, paralitici”, entrando di diritto così a far parte, all’inizio
dell’età moderna, del più generale processo di controllo della povertà, del
vagabondaggio, della mendicità, di fronte ai quali il potere politico e religioso,
reagisce con l’isolamento e la ghettizzazione, i lazzaretti, da strutture temporanee
in tempo di epidemie, si trasformano in permanenti al fine di dare ospitalità a tale
massa di gente. Così anche il S. Lazzaro, si prestò al tentativo di ricacciare tutta
quella massa affamata nei luoghi che avevano accolto in precedenza i lebbrosi
perché vi potessero trovare una zuppa calda, un po’ di calore, della solidarietà,
dove avrebbero atteso anche la morte dovuta a stenti, disgrazie e miseria. Per
frenare l’eccesso degli infermi e dei pazzi nei ricoveri, furono emanate regole
come quella di consegnare i propri beni all’economo del S. Lazzaro per essere
spesi prima a beneficio dei degenti e poi per lo stesso luogo. A metà del ‘700
appare l’elenco dei defunti i quali vengono catalogati come insani di mente, e
poveri sani di mente.
Nasce così il sistema delle Opere Pie, che raggruppa “Ospitali”, “Ospizi”e
“Ricoveri”, che verranno unificati, nel 1754, all’interno di un’unica
amministrazione, e di cui farà parte anche il San Lazzaro, ma che durerà fino al
1755 quando il Duca Francesco III nell’ambito di una riforma tesa a
riorganizzare le opere pie, emana un decreto con il quale ordina che il S. Lazzaro
debba accogliere solo i malati di mente, e ospitare anche quelli di Modena. In
questo periodo emerge il carattere di cronicario del S. Lazzaro in cui i cronici
sono assimilati ai folli in quanto si era diffuso il concetto che dallo stato di follia
si poteva avere solo un temporaneo miglioramento, ma non una regressione. Tale
concezione sarà capovolta con Antonio Galloni, il quale in linea con gli
psichiatri del primo ottocento, pur mantenendo la distinzione tra pazzi curabili ed
incurabili, proverà a sperimentare le possibilità di recupero ad una vita normale
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degli alienati, mentre il dibattito intorno al tema della cronicità e
conseguentemente dell’affollamento dei manicomi, sarà ripreso a partire dagli
anni 70 da Tamburini ed altri che lamenteranno l’evoluzione in negativo del
manicomio da ospedale a cronicario.
Questo complesso dispositivo, in modo tutt’altro che lineare ed obbedendo ad
istanze e strategie sovente contrastanti (in un’epoca che va dal governo
napoleonico alla restaurazione estense) si inserirà in una vera e propria
rivoluzione architettonica nel movimento di riforma e trasformazione della
pubblica assistenza (1808) che elabora nuovi procedimenti di gestione e
controllo del fenomeno di ciò che verrà chiamata “devianza” in genere, e che
promuove, nel ventennio che va dal 1819 al 1839, nel XIX secolo, la riforma
dell’assistenza sanitaria, grazie alla volontà di rinnovamento e di riforma di
Francesco IV , duca di Modena, e alla presenza di Antonio Galloni alla direzione
del San Lazzaro. Il Duca infatti visitando il S. Lazzaro dopo la restaurazione che
seguì al Congresso di Vienna rimase impressionato dal fatto che esso non fosse
in grado di garantire ai ricoverati di condurre una vita meno felice, in quanto
mancante di quei provvedimenti atti a tentare la guarigione.
Nel 1820 il Duca volle che Galloni facesse un viaggio di studio per approfondire
le sue conoscenze e specializzarsi nelle più moderne tecniche terapeutiche,
presso i principali manicomi italiani, tra cui quelli di Lucca, Firenze, e in
particolare quello di Aversa, diretto da Linguiti, che si presentava
all’avanguardia nel settore. Egli era stato attratto dai metodi terapeutici e dal
fatto che fra i molteplici mezzi di distrazione che servivano a curare i pazzi
spiccavano la forma del locale che favoriva la massima comodità della
suddivisione dei pazzi al suo interno, una grande proprietà e nettezza della
servitù sempre presente, una salubrità per quanto riguarda il luogo in cui era
situato l’istituto e quindi l’aria sana che lo circondava. Inoltre tutto ciò era
favorito anche dalla temperatura degli ambienti che si poteva innalzare e
diminuire, dalla libertà dell’aria, dall’umanità e l’amore con cui trattavano i
malati e dal modo di farli divertire con i giochi più semplici e la ginnastica. Sulla
base di questi elementi nel 1821 il Duca Francesco IV d’Este emana una serie di
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decreti che trasformano il San Lazzaro in “Stabilimento Generale delle Case de’
Pazzi degli Stati Estensi”, mettendo in atto una serie di iniziative per rinnovare
integralmente il manicomio, riformando gli organi amministrativi dell’opera pia
allo scopo di farlo diventare uno stabilimento generale per gli stati estensi, dove
sarebbero stati ammessi solo pazzi veramente tali, o quelli la cui pazzia poteva
essere dannosa per la società, quali frenetici, convulsivi abituali e periodici che
nell’eccesso del loro male diventavano furiosi e bisognosi di cure.
Il duca era del parere che il S. Lazzaro si dovesse autofinanziare attraverso il
sistema delle dozzine, e che fosse rivisto l’organico; . volle farsi carico di tutte le
spese straordinarie per ristrutturare completamente gli edifici. Nel luglio del
1821, su mandato del duca, Galloni stilò il regolamento del manicomio,
riorganizzò il personale, emanò nuove direttive per l’ammissione, e insieme
all’architetto Giovanni Paglia cominciò a lavorare al progetto di ristrutturazione
e riorganizzazione generale dell’ospedale, sulla base di quello che aveva visto e
maturato ad Aversa. In questo modo Galloni entrava nel numero di coloro che si
erano impegnati nel processo di riforma delle istituzioni manicomiali e che
aveva avuto tra i suoi protagonisti, alcuni decenni prima, Tuke in Inghilterra,
Pinel in Francia, Reil in Germania, Daquin in Savoia, i quali avevano iniziato
una dura battaglia per abolire i sistemi di contenzione fino ad allora utilizzati.
Galloni, pertanto, ispirandosi alle nuove terapie sostenute dagli autori inglesi e
francesi, abolisce tutte le antiche forme di costrizione, dalle catene di ferro alla
colonna nella camerata alla quale si legavano i malati durante gli eccessi del loro
male, riveste gli alienati che erano sdraiati nudi sulla paglia, da loro un letto,
elimina tutto ciò che crea violenza e disordine. Il manicomio diventa un centro
dove voler curare curabili e incurabili, dove vengono utilizzati tutti i mezzi a
scopo terapeutico: l’organizzazione del manicomio, il rinnovamento delle
strutture edilizie. L’architetto infatti, ridefinì gli spazi, separando gli uomini dalle
donne e realizzando reparti per la vita in comune, creò nuove stanze piene di
luce e aria, con finestre aperte verso il verde dei campi, corridoi per i passaggi
d’inverno, portici per il passeggio e attività all’aria aperta, cortili destinati a
palestre per la ginnastica per l’estate, l’igiene con l’eliminazione dei bagni nelle
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camere, la riduzione delle celle, ma soprattutto ideò delle strutture che fossero
disponibili a qualsiasi modifica e ristrutturazione futura.
Alla fine dello stesso anno, parte del complesso era già terminato, ma Domenico
Marchelli, due anni dopo, nel 1824, progettava gli interventi da farsi nell’ala
lasciata incompiuta dal Paglia. Al cortile degli uomini, doveva corrispondere un
cortile per le donne, i fabbricati dovevano rispecchiare la differenziazione di
coloro che gli avrebbero utilizzati: cortili per i sucidi e le sucide, e cortili
separati da un muro per i chiassosi e le chiassose. L’architettura diventò quindi
funzionale ad un discorso clinico psichiatrico, creando spazi riservati a tipi di
malati differenziati, tenuti tra loro isolati, e strumentale alla medicina per cui
ogni modifica venne fatta in base alle nuove teorie psichiatriche, mettendo in
preventivo eventuali rifacimenti futuri, conseguenti allo sviluppo della
psichiatria.
Galloni forte delle visite compiute ai più moderni ospedali europei poté
realizzare nel 1828 nuovi lavori tesi alla funzionalità dei vari reparti, mentre nel
1844 l’unico intervento fu puramente estetico e celebrativo consistente nel
rifacimento della facciata, sempre su progetto del Marchelli.
La Direzione del Galloni avviava un processo, già avanzato fuori d’Italia, grazie
al quale nuove forme di conoscenza, di presa in carico e di trattamento della
follia avrebbero consentito di sottrarre la follia alla eterogeneità della sua
precedente coabitazione (non senza che questa l’avesse caricata dei suoi poteri
immaginari) e di oggettivarla nella malattia mentale.
Con il nuovo regolamento organico approntato da Galloni comincia a essere
messa in atto una rigida selettività nei procedimenti di ammissione: solo i pazzi
curabili – secondo una vocazione e destinazione eminentemente terapeutica più
volte sottolineata dal medico-direttore – «e quelli specialmente la cui pazzia
riesca più incomoda e dannosa alla società».
Il San Lazzaro muta profondamente il proprio assetto politico-amministrativo:
attraverso il sistema delle dozzine si garantisce in parte l’autofinanziamento
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dell’istituto; nuove norme regolano rigidamente l’assunzione del personale;
l’edificio si amplia per adattarsi alle nuove esigenze del trattamento medico.
Si viene delineando un complesso meccanismo di cui il medico-direttore
costituisce l’architrave: «Il direttore è il centro d’autorità all’interno
dell’ospedale, non si saprebbe fare niente senza di lui; è lui solo che fa le
assegnazioni dei malati alle diverse sezioni, che ordina i medicinali, le
compagnie, le occupazioni, i lavori, le diete; assegna le ricompense, le pene ed i
mezzi di coercizione».
E se tale funzione esercita un influsso benefico sulla vita dei ricoverati, grazie
all’abolizione dell’uso indiscriminato di detti mezzi di contenzione e di
coercizione, alla “umanizzazione” delle condizioni di vita dei malati attraverso il
miglioramento dell’organizzazione materiale degli ambienti di vita e delle
strutture architettoniche ed alla applicazione dei principi del “trattamento
morale” che ricorre anche a villeggiature, visite a teatro, ad una libertà di
movimenti insospettata, all’edificazione religiosa, all’attività fisica che fanno del
San Lazzaro “non più oscuro carcere” bensì “provvido ospizio, ove la scienza
caritatevole offriva ricovero, sollievo, salvezza”, resta tuttavia il fatto che essa
definisce l’architettura di una gigantesca operazione pedagogica che mira alla
rieducazione ed alla normalizzazione dei comportamenti, ottenuti essenzialmente
grazie al lavoro, alla disciplina, all’esempio, al gioco delle ricompense e delle
punizioni, e all’addestramento “all’ordine ed all’obbedienza”.
Per usare le parole dello stesso Galloni, si tratta di assoggettare “tutti gli alienati
ad un governo e ad una disciplina domestica generale”. Le punizioni
consistevano principalmente nel privare il malato di ciò che più gli stava a cuore.
Fa una netta distinzione tra punizioni morali e mezzi di contenzione da usare
durante gli eccessi del male, come la camiciola di Wills che per le sofferenze di
respirazione e le ferite era ridotta spesso alle sole maniche, i pantaloni, i letti, le
sedie di contenzione, cinture d’Haslam senza ferro, con cuoio, il bagno freddo
generale, il magnetismo, le immersioni fredde, i bagni di sorpresa e la rotazione.
Con Galloni sono gli stessi degenti a fabbricare le camicie di forza, secondo gli
obbiettivi dell’ergoterapia. Si trattava di tenere occupati i pazienti con il lavoro o
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altre attività, affinché potessero essere ripristinati l’ordine, il senso della
socialità, la coscienza della dignità e una certa parvenza di normalità. Il valore
terapeutico come trattamento morale delle malattie mentali era stato teorizzato
da Pinel, il quale dopo aver visto gli alienati lavorare per i mercatini di Parigi e a
Sagarozza, dà credito al lavoro svolto all’aria aperta a contatto con la natura
piuttosto che a quello meccanico e ripetitivo. Quindi anche Galloni concependo
il manicomio come luogo di guarigione nel 1822, introduce al S. Lazzaro
l’ergoterapia.
La follia viene ridefinita come campo di esperienze scientifiche e applicazione
dei diritti universali dell’individuo, anche se viene racchiuso in uno spazio
segregante, e il lavoro viene teorizzato come una possibilità di recupero per il
malato.
L’ergoterapia, i divertimenti, la ritrovata libertà dalle catene, la riscoperta della
dignità personale, il valore educativo dell’esempio, il senso della pulizia, il
silenzio e l’organizzazione diventano modelli di recupero e di socializzazione. Il
lavoro viene inteso da Galloni come strumento di terapia e va associato al
trattamento morale della malattia mentale, fa parte della terapia morale e come il
divertimento aiuta il malato a distoglierlo dalle idee fisse, a farlo uscire dal suo
isolamento, a fargli rivolgere l’attenzione verso l’esterno, verso uno o pochi
oggetti esterni che non si rapportano alle cause della demenza o della mania,
occupare o divertire gli ammalati diventavano in questa ottica sinonimi.
L’attività lavorativa entra in stretto rapporto col senso della disciplina, con la
cura di sé e dell’ambiente, con il sistema dei premi e delle punizioni morali. I
lavori vengono svolti all’interno dell’istituto, alcuni sono commissionati anche
all’esterno, il risultato di ciò è un miglioramento e un sollievo e nello stesso
tempo un guadagno sotto l’aspetto delle entrate. L’applicazione dell’ergoterapia
fa nascere una nuova classe di infermieri, i quali alla funzione di sorveglianti
associano quella di maestri artigiani e passano da infermiere a maestro d’arte, a
capo di laboratorio. L’infermiere si assume la responsabilità di inserire
concretamente il malato nel gruppo di lavoro, ne incoraggia l’attività, ne
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