INTRODUZIONE
Con la sentenza n. 77/2007 la Corte costituzionale ha chiarito che la nostra Carta
fondamentale “ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111)
all’intero sistema giurisdizionale la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e
degli interessi legittimi”.
Anche se da un punto di vista strutturale, il sistema si presenta articolato in una
pluralità di vie giudiziarie, ciò è perché ognuna di esse possa, sulla base di distinte
competenze, assicurare la miglior realizzazione della funzione giurisdizionale che
però, nel suo complesso, resta unitaria.
Il principio di effettività della tutela giurisdizionale esige, peraltro, che tale pluralità di
Giudici non si risolva in un pregiudizio della possibilità stessa di un esame nel merito
della domanda di tutela giurisdizionale.
Ed è proprio per scongiurare la possibilità di tale pregiudizio che la Corte
costituzionale, con la suddetta pronuncia, ha dato ingresso nell’ordinamento al
meccanismo della trasmigrazione delle cause anche nei rapporti tra giudici
appartenenti ad ordini diversi.
Viene, pertanto, espunto dall’ordinamento il principio, “non formulato espressamente
in una o più disposizioni di legge ma presupposto dall’intero sistema dei rapporti tra
giudice ordinario e giudici speciali e tra giudici speciali”, secondo cui la sentenza
declinatoria di giurisdizione “comporta l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio
senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente
proposta si conservino nel nuovo giudizio”.
Dopo la pronuncia n. 77/2007 la sentenza declinatoria di giurisdizione è divenuta,
quindi, una sentenza non definitiva resa entro il medesimo rapporto processuale
destinato, perciò, a proseguire identico presso il giudice dichiarato munito di
giurisdizione.
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La giurisdizione, intesa in senso stretto, non è più, dunque, una condizione di valida
trattabilità della causa. Essa non è più, in altri termini, un presupposto processuale.
L’indebolimento del peso specifico della questione di giurisdizione appare, in effetti,
opportuno in considerazione del fatto che nel contesto attuale la cognizione del
giudice ordinario e del giudice amministrativo sembrano sovrapporsi e la consueta
distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi sembra ormai indebolita. Anzi, si
può dire che, da un lato, la vicenda relativa alla risarcibilità dell’interesse legittimo e
dall’altro, la smisurata dilatazione della giurisdizione esclusiva hanno posto, in
qualche misura, le premesse affinché venisse meno, nella percezione generale,
l’assolutezza della distinzione qualitativa tra diritti e interessi, nonché quella tra
giurisdizione ordinaria ed amministrativa.
Sotto questo profilo è importante sottolineare che il caso esaminato dalla Corte
costituzionale concerneva una controversia in cui l’oggetto del processo era
perfettamente identico, per parti, petitum e causa petendi, sia davanti al giudice
ordinario sia davanti al giudice speciale. Un fattore di complicazione può, dunque,
essere rappresentato dal fatto che, nel passaggio, si prospetti un mutamento della
domanda. La trasmigrazione del processo presuppone, infatti, l’identità dell’oggetto
del contendere.
Tale identità, peraltro, deve intendersi sussistente ogniqualvolta l’attore faccia valere
la medesima pretesa sostanziale sia pure mediante la proposizione di domande
formalmente diverse, dedotte sotto profili giuridici differenti, ognuno dei quali devoluto
ad una diversa giurisdizione. La translatio iudicii conseguente alla declinatoria di
giurisdizione non è impedita dalla necessità di mutare la veste formale della pretesa
nella riproposizione della domanda innanzi al giudice munito di potestà decisoria. Ed
infatti, proprio il principio in forza del quale la Corte costituzionale è pervenuta alla
declaratoria di illegittimità dell’art. 30 della l. Tar – ossia il principio di unità funzionale
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della giurisdizione collegato a quello di effettività della tutela – impone di attribuire
rilievo, per ottenere tutela, non già alla domanda giudiziale identificata in base ai
tradizionali criteri (e quindi con rilievo essenziale del petitum), bensì alla domanda di
giustizia, ossia all’atto in sé di chiedere protezione giurisdizionale di una propria
situazione giuridica soggettiva, di cui si prospetti la lesione per determinate cause.
La trasmigrazione delle cause anche tra giudici appartenenti a diversi ordini
giurisdizionali ha prodotto, inoltre, una sorta di assimilazione nella disciplina della
questione di giurisdizione e di competenza. Il difetto di giurisdizione infatti, al pari di
quello di competenza, non comporta più la chiusura in rito del processo.
Quest’impostazione è stata valorizzata in una recente pronuncia delle Sezioni Unite,
sentenza n. 24883/2008, con cui è stato drasticamente ridimensionata la portata
precettiva dell’art. 37 c.p.c. che consente il rilievo del difetto di giurisdizione in “ogni
stato e grado” del processo.
La Suprema corte ricorda infatti che l’art. 38 c.p.c. non consente la rilevabilità del
difetto di competenza “forte” oltre la prima udienza di trattazione, pur trattandosi di
criteri di attribuzione della cognizione dettati da esigenza di ordine pubblico, al pari di
quelli relativi alla giurisdizione. Il segnale che ne deriva è, secondo la Cassazione,
nel senso che i criteri di ripartizione della competenza, anche quando siano dettati da
ragioni di ordine pubblico devono essere conciliati con le esigenze di celerità del
processo. Orbene, secondo la Corte, dal momento che l’affermazione del
meccanismo della c.d. translatio iudicii ha fortemente assimilato il difetto di
giurisdizione a quello di competenza, l’art. 37 c.p.c. ha subito un’erosione di principio,
nel senso che il contenuto letterale della norma, che consente la rilevabilità del
difetto di giurisdizione in ogni stato e grado, deve cedere il passo all’odierna
intenzione del legislatore frutto dell’evoluzione storica del sistema che impone termini
perentori per la verifica della potestas iudicandi.
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Secondo tale pronuncia l’art. 37 c.p.c., interpretato alla luce dell’art. 111 Cost., va
letto nel senso che il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione, ma
solo fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato interno, esplicito o,
addirittura, implicito. Le Sezioni Unite, nella suddetta sentenza, hanno infatti
affermato che qualsiasi decisione di merito implica la preventiva verifica della
giurisdizione e che tale verifica, in assenza di formale eccezione o questione
sollevata d’ufficio, avviene comunque de plano ovvero implicitamente, mentre è
oggetto di una pronuncia espressa soltanto nel caso in cui la giurisdizione del giudice
adito venga negata.
La pronuncia delle Sezioni Unite prende le mosse dalla precedente, fondamentale,
sentenza della Corte costituzionale n. 77/2007. Quest’ultima precisava che l’erronea
individuazione del giudice non può risolversi per la parte nel pregiudizio irreparabile
della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela
giurisdizionale. Con ragionamento non dissimile, la sentenza della Cassazione ha
ritenuto, dunque, che l’erronea individuazione del giudice dotato di giurisdizione non
possa consentire, dopo tre gradi di giudizio, la regressione del processo dinanzi al
giudice di primo grado consentendo in tal modo un’irragionevole dilatazione dei tempi
del procedimento. In sostanza, nel bilanciamento dei contrapposti interessi: quello
pubblico al rispetto del riparto di giurisdizione quello privato ad ottenere giustizia in
tempi rapidi, deve ritenersi prevalente quest’ultimo. Secondo quanto affermano le
Sezioni Unite, dunque, si è attenuato nell’ordinamento il principio, un tempo ritenuto
intangibile, della inderogabilità della giurisdizione.
La sentenza delle Sezioni Unite costituisce sicuramente un importante passo in
avanti verso l’obiettivo di assicurare ai cittadini la garanzia della ragionevole durata
del processo. Inoltre, superando il principio di inderogabilità assoluta della
giurisdizione, tale pronuncia potrebbe offrire un interessante spunto per risolvere
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alcuni problemi di riparto di giurisdizione derivanti dalle recenti innovazioni normative,
facendo ricorso all’istituto della connessione.
In effetti, si ritiene generalmente che l’istituto della connessione non operi al di fuori
del singolo comparto giurisdizionale. In dottrina, peraltro, molti hanno rilevato che la
sentenza n. 77/2007 della Corte costituzionale abbia dato vita ad una nuova forma di
litispendenza, definita “trans-giurisdizionale”. Di conseguenza nessun ostacolo si
frappone più al riconoscimento di una giurisdizione per connessione (a somiglianza
della competenza per connessione): identica è, infatti, oramai, l’esigenza di
realizzare anche nei rapporti tra diversi ordini di Giudici il processo simultaneo che
corrisponde del resto a precisi valori costituzionali (giusto processo, parità delle armi,
ragionevole durata, ecc.).
Il fenomeno della giurisdizione per connessione si è manifestato in una pronuncia
della Cassazione, n. 4636/2007, in cui due cause devolute a distinte vie giudiziarie
sono state attratte alla competenza di un unico giudice in virtù di un principio di
concentrazione delle tutele, inteso come mezzo imprescindibile al fine di realizzare la
ragionevole durata del processo. Ad avviso delle Sezioni Unite, infatti, la devoluzione
a due distinte giurisdizioni delle diverse domande – aventi ad oggetto i medesimi fatti
ed originate dalla medesima situazione sostanziale e proposte in via subordinata
l’una all’altra – concreterebbe una “tecnicalità processuale” avente inaccettabili
“effetti devastanti sulla durata del processo” (connessi alla necessaria sospensione
della domanda subordinata), sì da imporre soluzioni interpretative maggiormente
conformi al canone costituzionale della ragionevole durata.
Il principio di diritto espresso dalla Corte è, in realtà, molto specifico, perché parla di
due domanda fondate sui medesimi fatti ed in rapporto di alternatività l’una con
l’altra. Peraltro, a ben vedere, non pare possibile una sua interpretazione rigorosa e
restrittiva, tale da escludere tutti i possibili casi di connessione. Se si è convinti che la
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regola della trattazione e decisione congiunta delle cause connesse discenda da una
garanzia costituzionale, come la Cassazione afferma, sembra difficile poi pensare
che ciò valga per un caso di connessione e non per gli altri.
I principi del giusto processo, della parità delle armi e della ragionevole durata, cui
ben si possono ricondurre le esigenze di economia processuale e di coordinamento
decisorio sottese agli istituti riconducibili al simultaneus processus, sono tali da
consentire analoga evoluzione per tutte le domande subordinate che potranno farsi
rientrare per ragioni di connessione nella giurisdizione del giudice adito con la
domanda principale, ancorché rientranti ex se nelle attribuzioni di altro ramo della
giurisdizione.
Questa lettura in chiave unificante dei rapporti tra giurisdizioni deve, peraltro, essere
coordinata con l’importante arresto della Corte costituzionale n. 204/2004 (seguita da
n. 191/2006) che ripropone, all’interno del sistema dei rapporti tra giurisdizioni, una
riedizione del criterio del petitum come vero elemento di discrimine tra le
giurisdizioni: sicché, la giurisdizione finisce con l’incardinarsi in questo o in
quell’ordine di giudici a seconda del tipo di provvedimento richiesto nell’atto
introduttivo del giudizio.
La Corte, con la suddetta pronuncia, sconfessa il criterio di riparto fondato sulla
materia. Per poter essere inquadrata nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, la singola fattispecie, rientrante nelle materie attribuite a tale
giurisdizione, deve, infatti, riguardare “comportamenti (…) riconducibili, almeno
mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere”.
A prima vista potrebbe addirittura ritenersi che, con tale pronuncia, si sia
implicitamente abrogato l’istituto della giurisdizione esclusiva (esito, peraltro,
palesemente incostituzionale). Infatti, se ci si riferisce soltanto alla materia, non si
esclude che possa costituire oggetto di giurisdizione esclusiva una controversia
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relativa alla tutela dei soli diritti soggettivi (e la casistica, in tema ad esempio di
pubblico impiego è stata vastissima nel passato); mentre, se ci si riferisce
specificamente alla singola controversia, la tutela dei diritti soggettivi in sede di
giurisdizione esclusiva finisce per vanificarsi, essendo pacifico che di fronte
all’esercizio del potere autoritativo sussiste una posizione di interesse legittimo e non
di diritto soggettivo.
Si pone dunque all’interprete il problema della sopravvivenza stessa dell’istituto, con
un proprio ambito cognitivo e decisorio autonomo e distinto dalla giurisdizione
generale di legittimità: tenuto conto che quest’ultima ha “conquistato” anche la tutela
risarcitoria (c.d. consequenziale), con l’avallo della Corte costituzionale.
Ebbene, uno spazio di operatività residuo può ancora essere individuato, se non (o
non più) nella possibile tutela dei soli diritti soggettivi afferenti ad una data materia,
quanto meno, nella tutela “anche” dei diritti soggettivi tutte le volte che le relative
domande risultino connesse con quelle sull’esercizio del potere: in altri termini, tutte
le volte che, accanto all’impugnazione di atti di esercizio del potere, sussistano cause
oggettivamente connesse, che di per sé – e, dunque, in mancanza di detta
connessione – sarebbero di competenza del Giudice ordinario.
Deve essere considerato infine, perché possa dirsi compiutamente realizzata quella
concezione unitaria della giurisdizione che emerge dalla recente evoluzione
giurisprudenziale, il fenomeno del riutilizzo del materiale istruttorio formatosi in
processi appartenenti a giurisdizioni distinte.
Nel sistema del processo civile è presente una norma, l’art. 310, comma 3, c.p.c.,
potenzialmente idonea a giustificare, da un punto di vista generale, la circolazione
della prova nei processi civili. Tale norma dispone che in caso di estinzione del
processo le prove raccolte nel giudizio estinto conservino efficacia dovendo essere
valutate alla stregua di argomenti di prova.
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La norma rappresenta l’unica disposizione, nell’ambito della disciplina del processo
civile, a dare valore in modo diretto ad elementi istruttori formatisi in un processo
distinto rispetto a quello in cui le vecchie prove vengono, di fatto, ad essere utilizzate.
L’art. 310 c.p.c., dunque, legittimando l’utilizzazione nel processo civile di prove
formatesi in altri e distinti ambiti processuali, è espressione della volontà legislativa di
consentire il recupero dei risultati di attività istruttorie ed il loro riutilizzo innanzi ad un
giudice diverso rispetto a quello presente alla loro formulazione.
Quanto al processo penale, l’art. 238, comma 2, c.p.p. consente di utilizzare i risultati
dell’accertamento compiuto in sede civile tramite l’acquisizione dei relativi verbali
istruttori. L’acquisizione di verbali di prove assunte in sede civile è, peraltro,
subordinata alla condizione che il giudizio di provenienza si sia concluso con una
sentenza irrevocabile a garanzia dell’attendibilità delle acquisizioni probatorie
raccolte in tale sede.
In generale, il fenomeno della circolazione probatoria risente del fatto che i processi
in cui la prova può circolare possono avere caratteristiche molto diverse anche sotto
il profilo istruttorio, con limiti più o meno restrittivi stabiliti in funzione della situazione
sostanziale tutelata, sicché occorre comprendere se ed in che misura siffatte
peculiarità possano precludere l’utilizzo di prove provenienti da distinti ambiti
giurisdizionali.
La questione è venuta in primo piano nel momento in cui si è affermata la
trasmigrabilità del processo tra diverse giurisdizioni. Il fenomeno della circolazione
della prova in questi casi non riguarda processi differenti, bensì lo stesso processo,
che continua però in un distinto alveo giurisdizionale, la cui fase istruttoria può
essere regolata in modo assai dissimile, con cataloghi probatori di ampiezza non
coincidente e caratterizzati da una ratio peculiare.
Si pone dunque il problema di individuare i limiti di compatibilità del mezzo istruttorio
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da recuperare rispetto alle caratteristiche del processo o dell’ambiente giurisdizionale
che l’accoglie.
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1 LA TRASMIGRAZIONE DELLE CAUSE DAL GIUDICE ORDINARIO AL
GIUDICE SPECIALE (E VICEVERSA).
1.1 IL DIVIETO TRADIZIONALE DELLA TRANSLATIO IUDICII E I TENTATIVI PER
UN SUO SUPERAMENTO.
1.1.1 L'indirizzo tralaticio che nega la translatio iudicii nei rapporti tra giudice
speciale e giudice ordinario e il pregiudizio conseguente alla declinatoria di
giurisdizione.
Il codice di procedura civile vigente, a differenza di quello del 1865, ha previsto che
nell'ipotesi in cui è adito un giudice incompetente, emanata una pronuncia
declinatoria da parte dello stesso, non si realizza una chiusura in rito dello stesso,
potendo il processo trasmigrare, ai sensi dell'art. 50 c.p.c., dinanzi al giudice indicato
in sentenza quale competente, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali
correlati all'originaria proposizione della domanda giudiziale
1
.
1 In proposito Cipriani F., Riparto di giurisdizione e «translatio iudicii», in Rivista trimestrale di diritto e
procedura civile, 2005, fasc. 3, 729 ss. ricorda che “l'irrazionalità delle norme che impedivano la
prosecuzione del processo davanti a giudice effettivamente competente fu avvertita da Giuseppe Chiovenda,
il quale osservò che il principio Kompetenz – Kompetenz, per il quale ogni giudice è giudice della propria
competenza e, quindi, non può mai essere obbligato a dichiararsi competente e a giudicare sul merito, aveva
un senso quando vigeva la concezione patrimoniale della giurisdizione, ossia quando il potere giurisdizionale
spettava al capo politico ed era ereditario, sì che ogni giudice era non solo geloso delle proprie prerogative,
ma anche comprensibilmente portato ad ampliare la sfera della propria competenza”. Nello Stato moderno, al
contrario, il potere giurisdizionale appartiene esclusivamente allo Stato e pertanto per i giudici non ha alcuna
ragion d'essere un problema di reciproche gelosie. Pertanto , Chiovenda, nell'art. 73 del suo progetto di
riforma del c.p.c., che risale al 1919-20, propose una soluzione in base alla quale l'autorità giudiziaria (ma
non, egli tenne a precisare nella relazione illustrativa, il giudice speciale) che si dichiarava incompetente
non dovesse limitasi a dichiarare la propria incompetenza, ma dovesse anche indicare il giudice che, a suo
avviso, era competente. L'insegnamento di Chiovenda fu poi parzialmente accolto dal legislatore del 1940, il
quale, nel varare il nuovo c.p.c., stabilì che, dopo la declinatoria di incompetenza, si diparte un termine per la
riassunzione, nonché che il processo, se tempestivamente riassunto “continua davanti al nuovo giudice” (art.
50 c.p.c.). Peraltro, mentre Chiovenda aveva proposto di prevedere non solo il principio della continuazione
del processo, ma anche, una volta esaurite le eventuali impugnazioni avverso la declinatoria, il vincolo per il
giudice ad quem, nel 1940 il vincolo fu previsto nel caso di incompetenza per territorio o per valore, ma non
anche quando la competenza fosse stata declinata per ragioni di materia o di territorio inderogabile, atteso
che in quest'ultimo caso si concesse al giudice ad quem il potere di chiedere il regolamento d'ufficio alla
Cassazione (art. 45 c.p.c.). “Bisogna , però, tener conto del fatto che all'epoca vi erano tre giudici civili di
primo grado (conciliatore, pretore e tribunale), e probabilmente si trovò eccessivo che, per esempio, un
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