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AVVERTIRE LA MANCANZA
Desideravo la saggezza? Non so indicare con precisione quando ho
scoperto il bisogno di „sapere tutto‟, i sintomi dell‟irrequietezza si
manifestavano in modo irregolare e imprevedibile: ero insonne, sudavo
sentendo freddo, credevo di non sopportare coloro che per il solo fatto di
essere bipedi si dichiaravano miei simili, ma frequentavo assiduamente
tutti i locali più popolosi, osservavo persone e cose come assistendo ad
uno spettacolo in cui nessuno mi vedeva, non capivo se facevo parte del
„cast‟, volevo che mi vedessero eppure mi nascondevo. Ma cosa volevo che
vedessero? Ho taciuto per settimane, quando in realtà volevo ripetere:
“Mi farò tagli per tutto il corpo, mi tatuerò, voglio diventare orrendo
come un Mongolo: vedrai, urlerò per le strade. Voglio diventare proprio
pazzo di rabbia. Non mostrarmi mai gioielli, striscerei e mi contorcerei
sul tappeto. La mia ricchezza, la vorrei macchiata dappertutto di
sangue. Non lavorerò mai…”1.
Soffrivo. Non potevo comunicare con nessuno perché sapevo che non
sarei stata compresa, inoltre non conoscevo quali parole usare per dire il
mio male. Per molto tempo ho creduto si trattasse dell‟adolescenza e mi
rallegravo che un giorno quelle tempeste si sarebbero placate e mi sarei
ancorata alla terraferma. Tornavo nel „giorno‟, nella salute dell‟azione e
del „progetto‟indossando un vestito umano, persuasa che il fare guarisce i
viandanti del pensiero. Dormivo.
Presto mi resi conto che non potevo fare a meno del mio malessere.
Se non avevo mal di testa lo ricercavo disperatamente, dovevo restare
inquieta per non „dormire‟. Volevo possedere un sapere totale.
Mi immaginavo aristocraticamente isolata e soddisfatta della mia
1 A. Rimbaud, Una stagione all‟inferno, Roma, Newton Compton, 1995.
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„saggezza‟. La situazione però era imbarazzante in quanto avevo dato un
nome al mio perenne stato di alterazione mentale senza conoscerne il
significato. Mi sentivo come se i nervi stessero sempre per saltare.
Ho cercato di scappare dalla follia in diversi modi, rendendomi ebbra,
leggendo tutti i libri che potevo… “Mi troverei molto male in un mondo
senza libri, ma non è lì che si trova la realtà, dato che non vi è per
intero”2, a parte qualche momentaneo annebbiamento restavo
consegnata alla vertigine e alla disperata ricerca di un sapere fatale.
Cercare la saggezza dà le vertigini e spesso getta nella disperazione
perché in realtà nel momento in cui individuiamo cosa stiamo cercando
già dovremmo essere saggi. Soltanto un saggio può fornire una
definizione esaustiva di saggezza chiarendo in cosa consiste il sapere
„assoluto‟.
Il filosofo non può far altro che tendere verso la conoscenza per amore
del sapere, amore che per quel che mi riguarda viene sentito più come un
„pathos‟ di sapere. Il filosofo è un essere malato che non vuole guarire, è
un naufrago che invece di cercare la riva si spinge eroicamente al largo,
lui è la sua stessa condanna e non può annientarsi, sa scrivere
l‟„Enciclopedia‟, ma non si sa collocare perché è una „tensione-verso‟.
Ammettere che esiste la saggezza comporta rinunciare al filosofo e al
mutamento e a molto altro ancora. Se è possibile concludere il „discorso‟
con una consapevolezza valida per tutti ed immutabile per il resto del
tempo dell‟Uomo cosa ci resta?
Desideriamo la saggezza?
2 M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1988, p. 22.
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INTRODUZIONE
Cosa significa essere saggi? Cosa l‟uomo può sapere? In cosa consiste la
verità autentica dell‟essere umano? La filosofia ci può portare alla
sapienza? Lo scopo della filosofia è realmente raggiungere un sapere
definitivo? Spesso mi è stato detto: «Attenta a ciò che desideri, potresti
ottenerlo»; questa specie di avvertimento mi ha fatto riflettere. Quando
voglio ottenere qualcosa è conveniente valutarne le conseguenze
possibili.
Cosa accadrebbe qualora la filosofia potesse deporre il proprio nome di
„amore del sapere‟ per essere „sapere reale‟? Se la filosofia ha come scopo
la saggezza questa deve essere in qualche modo possibile e deve
consistere in un sapere valido universalmente. Se la filosofia non tende
al sapere è insensata e dovrebbe essere chiamata in un altro modo.
Lo scopo della filosofia è il sapere. “La gemma scompare quando sboccia
il fiore, e si potrebbe dire che ne viene confutata; allo stesso modo,
quando sorge il frutto, il fiore viene, per così dire, denunciato come una
falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come
sua verità. Ora, queste forme non sono semplicemente differenti l‟una
dall‟altra, ma l‟una soppianta l‟altra in quanto sono reciprocamente
incompatibili”3. E il sapere in quanto saggezza giunge quando giunge il
suo tempo.
Sul rapporto tra saggezza e filosofia, sulle condizioni della
trasformazione della seconda nella prima il commento di A. Kojève ha
lavorato sul testo di Hegel, Fenomenologia dello spirito, fino a operarne
importanti trasformazioni. Ma non è il problema filologico che qui a me
interessa, bensì il paradigma e le condizioni del divenire-saggi che
3 G.W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Milano, Bompiani, 2001, p.51.
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Kojève ha indicato nella storia moderna come compimento dell‟ideale,
rimasto in Grecia tale, del saggio. E mi interessa perché Saggezza
significa „vita sintetizzata nel pensiero‟, e vita finalmente programmata
dal pensiero.
L‟intenzione sarebbe quella, partendo dal paradigma di Kojève, di
attestare, attraverso l‟esplicita e motivata contrapposizione che vi ha
pensato Blanchot, sia di indicare come, se la manifestatività
dell‟immediato e la sua rivendicazione sono il luogo dell‟arroganza che si
eccettua dal pensare la forza che nella parvenza dell‟immediato subisce,
il pensiero non può che „mediare‟, senza pervenire mai a „sintetizzare‟, ciò
che lo obbliga a scegliere tra una pretesa alla saggezza in cui si risolve la
rimozione dell‟affetto e, quantomeno, la riduzione della razionalizzazione
forzata dell‟esistenza, secondo una operazione infinita che è insieme
giustificazione del pensiero che si compie nella mediazione letteraria e
dissipazione della saggezza in quanto pretesa di comprensione del
mondo, dell‟essere e degli uomini che vi appartengono.
La decisione di scrivere, di dar voce all‟incessante, all‟interminabile
mormorio, risata sibillina, a volte sinistra eppure sempre familiare, lo
sorprese in un tardo pomeriggio connotato semplicemente da
un‟incapacità più marcata del solito, quell‟agitazione febbrile, ma già
stanca che lo porta a soste incomprensibili al centro della stanza, di
fronte allo specchio, senza però soffermarsi sulla sua immagine, ma
avvertendo la sensazione di essere riflesso, come se sentisse un‟ombra,
una presenza dentro casa e sapesse che si tratta sempre di lui, ma del
„fuori‟.
Quella strana frana di parole dal suo corpo lo stupiva, come soltanto le
persone che perdono il mondo, che lo sentono scomparire, possono
stupirsi. La necessità di immobilizzare anche in modo apparente lo
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scorrere della sua disperazione lo rese fecondo proprio nel momento di
maggior inettitudine. Così le sentiva, lo attraversavano da tutte le parti,
ma come una processione lenta di scarafaggi giganti, con la loro
invadenza, con il loro disgustoso frinire silenzioso, che sensazione
orribile, l‟esistenza dentro, che non se ne va, che non tace dentro e fuori,
banchetto di insetti.
L‟altro rischio sempre in agguato è quello dell‟inebetimento, sentiva la
difficoltà nel mantenere l‟attenzione in mezzo alla gente, sapeva di
essere poco capace di interagire onestamente, nel senso di essere
presente, essere lì e non altrove, proprio mentre l‟altrove continuava il
suo interminabile logorante lavoro di richiamo e rigetto. Ma
l‟impossibilità di impadronirsi del mondo diventava sempre più chiara,
talmente abbagliante a volte da creare l‟eterno buio, quando buio è
ancora luce, quando non vedere nell‟oscuro è l‟unica possibilità di
salvezza, di illusione, di allontanamento dalla verità nel fondo della
disperazione. Una verità terrificante.
Si fa strada sotto la pelle il rischio estremo dell‟abbandono del mondo,
forse perché al mondo non è mai appartenuto, non saprebbe neppure
indicare il momento della condanna, perché è esattamente di condanna,
esilio, errore che si tratta. Quindi appartiene disperatamente ad un
altrove che è per chi vive nella salute e nel giorno inattingibile, ma il
richiamo del tempo reale è affascinante, il desiderio di lavorare, di
sposarsi e darsi un nome fa sì che saltuariamente mette in pratica
qualche patetico tentativo di „mondità‟.
Per poi sentirne il peso e il fastidio, con tutte le conseguenze di
fallimenti e fughe.
É il pensiero della pazienza di fronte all‟impossibilità della realizzazione
della saggezza che in Blanchot afferma una sorta di meta-critica della
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teoricità filosofica e dei suoi limiti, ma una pazienza che non tollera
rinvii nel rispondere alla pressione dell‟affetto in una sorta di „follia
dolce‟ che costituisce l‟ironia che avvolge ogni pretesa di fondazione della
teoria.
La tesi prenderà in esame, dapprima, le condizioni della realizzazione
della saggezza in Kojève, e la sua condizione, che vi sia „una fine della
storia‟ a cui corrisponde una saggezza solo „desiderata‟; quindi
l‟approfondimento delle condizioni che rendono a suo modo „folle‟ questo
progetto, secondo la risposta che Blanchot dà a Kojève, denunciando da
un lato l‟impossibilità di comprendere la „follia dello scrivere‟ nel
paradigma di Kojève, d‟altro canto la difficoltà stessa di potere concepire
tale paradigma da un mondo in cui continui a vivere questa „follia‟;
infine, in opposizione alla volontà di distruzione del senso della pratica
letteraria, l‟operazione che compie Blanchot nel rilevare nel progetto
teorico della filosofia una pretesa filosofica che si acceca se non sa di
dovere la sua stessa possibilità alla mediazione senza sintesi che
costituisce l‟operazione letteraria.
Nella pratica letteraria verrà evidenziato il tema della solitudine
essenziale dello scrittore, quindi, sulla base di una scrittura che, si dice
al neutro, perché non dà giudizio, si analizzerà il problema dell‟inter-
soggettività in Blanchot a partire dal tema del dialogo.
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CAPITOLO PRIMO:
UN MODELLO „INTOLLERABILE‟ DI SAGGEZZA:
IL MITO DEL LIBRO ASSOLUTO IN KOJEVE
Tra il ‟33 e il‟39 Alexandre Kojève4 legge e commenta riga per riga
l‟intera Fenomenologia dello spirito durante i seminari che tenne
all‟Ecole Pratique des Hautes Etudes. Gli uditori non erano anonimi
studenti, ma alcuni dei più bei nomi della cultura francese dell‟epoca,
studiosi già affermati, in specie filosofi, scrittori, psichiatri e sociologi
che avrebbero lasciato un‟impronta duratura anche oltre il loro specifico
terreno di indagine: Gorge Bataille, Jacques Lacan, Raymond Aron,
Roger Caillois, Jean Hyppolite, Maurice Merleu-Ponty, Pierre
4 Kojève, Alexandre (Mosca 1902-Parigi 1968), filosofo francese di origine russa.
Leggendo l‟ultima intervista rilasciata a Nicola De Sanctis per il quindicinale Le
Quinzaine qualche giorno prima di morire improvvisamente scopriamo un uomo
„provocante, petulante, sovversivo, pieno di paradossi, grave e profondo, astuto,
ingenuo‟. L‟intervista avviene in occasione del suo nuovo libro, ha sessantasei anni ed è
un alto funzionario dello stato. Nel 1920 lascia la Russia per trasferirsi in germania per
evitare le conseguenze del regime comunista; è ad Heidelberg, poi a Berlino. Segue i
corsi di Jaspers, impara il buddismo, il tibetano, il sanscrito, il cinese. Legge quattro
volte la fenomenologia dello spirito , dirà “senza capire nulla”. Va a Parigi. Nel 1933
Koyrè, che teneva corsi su Hegel, deve interromperli e gli propone di succedergli.
Commenta Hegel sino al 1939, quando scoppiò la guerra e fu mobilitato come soldato di
seconda classe.Dopo la guerra passa agli affari economici. Dall‟incarico statale dichiara
di avere enormi soddisfazioni, ha la stima di finanzieri e altre figure fondamentali per
lo stato. E‟ un „uomo d‟azione‟. Si rabbuia quando gli si domanda dei filosofi. Sottolinea
che Hegel aveva ragione: il discorso filosofico, come la storia, è chiuso. Lui era il primo
saggio e i saggi sono molto rari o inesistenti. I saggi giocano, non hanno bisogno di
reagire, sono dei fannulloni. Conclude l‟intervista con un : “Sì, sono uno sfaticato e mi
piace giocare…in questo momento per esempio”.
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Klossowski, Henry Corbin, Alexandre Koyrè, Jean Wahl, Eric Weil, Jean
Paul Sartre e, più saltuariamente, André Breton; mentre l‟allievo che
prendeva gli appunti preziosi da cui poi ha tratto origine il libro in
questione era Raymond Queneau. Tutti ad ascoltare un Kojève che
faceva del dialettico rapporto tra Servo (in tutta l‟ambiguità della doppia
etimologia tradizionalmente attribuita al termine: „servus‟ da „servire‟ e
„servus‟ da „servare‟, proprio nel senso che gli è stata conservata la vita) e
Signore il cuore della speculazione hegeliana; apportando alla lettura di
Hegel la traduzione della nozione di sapere assoluto in termini
dell‟assoluto del sapere (solo questa traduzione esaurisce l‟esteriorità
dell‟immagine, che suscita un rilancio della sua interpretazione, nella
apparizione, quando il materiale immaginario del pensiero si esaurisce,
della morte come verità della natura produttrice di percezioni
interpretabili come immagini quando la natura sia interrogata
letterariamente). E che, mentre prendevano appunti o discutevano con il
Maestro, fumavano, dopodiché andavano tutti a cena in un ristorante
greco… Quindi per sei anni il pensatore russo naturalizzato francese, il
suo vero nome era Alexandr Kozevnikov, tenne ogni lunedì alle 17.30 un
seminario sulla Fenomenologia dello spirito, segnando in modo
indelebile la cultura filosofica europea del Novecento.
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1. Il riconoscimento del sé animale generato dalla morte e risolto in
una vita portata dalla morte come Desiderio antropogeno fondamentale.
Nella prima parte del libro, intitolata “A guisa di introduzione”, Kojève
delinea i tratti fondamentali che caratterizzano l‟essere umano
autocosciente, cioè l‟uomo che è tale in quanto si è creato nella dinamica
storica della negazione in vista della propria affermazione.
L‟uomo si crea; questo presuppone un‟azione. Nella contemplazione
siamo immersi nell‟oggetto, non siamo richiamati a noi stessi, bensì
assorbiti dalla cosa contemplata, rischiamo di essere „risucchiati da
essa‟: “Ciò significa che nel tipo d‟essere che si chiama il conoscere, il solo
„essere‟ che si può incontrare, e che è continuamente „là‟, è il „conosciuto‟.
Il conoscente non è, non è percepibile. É solo ciò che fa che vi sia un
„essere-là‟del conosciuto, una presenza – perché per parte sua il
conosciuto non è né presente né assente, è semplicemente. Ma questa
presenza del conosciuto è presenza a „niente‟, perché il conoscente è puro
riflesso di un non essere, e si presenta attraverso la trasparenza totale
del conoscente conosciuto, come presenza „assoluta‟. L‟esempio
psicologico ed empirico di questa relazione originaria ci è fornito dai casi
di „fascino‟. In questi casi, infatti, che rappresentano il fatto immediato
del conoscere, il conoscente non è assolutamente nient‟altro che pura
negazione, non si trova, né si recupera da nessuna parte, „non è‟.La sola
qualificazione che possa sopportare, è che „non è‟, proprio, quell‟oggetto
affascinante. Nel fascino, non vi è niente altro che un oggetto gigante in
un mondo deserto”5. Il momento in cui siamo richiamati a noi è quando
avvertiamo una mancanza, quando il nostro pensiero si rivolge a
qualcosa che non c‟è. É nel desiderio che possiamo dire „Io‟. Nel Desiderio
(„Begierde‟) l‟uomo giunge al „Sentimento di Sé‟. L‟assenza di ciò che
5 J. P. Sartre, L‟essere e il nulla, Milano, Il Saggiatore, 1997, p.218.