2
Nel corso della storia del Giappone, ad eccezione del periodo
Heian, la pena capitale ha caratterizzato la punizione per i crimini
ritenuti crudeli, passando dalla tradizione alla modernità come
un’eredità pesante.
Nel Codice Penale giapponese, la pena capitale viene comminata
attualmente nei casi previsti da 13 capi di imputazione, ed è
prevista, dall’articolo 9, come il massimo della pena imposta da un
giudice.
Pochi aspetti della vita pubblica giapponese sono circondati da tanta
segretezza come l’applicazione della pena di morte. Le esecuzioni
non sono pubblicizzate se non da un secco comunicato del
ministero della Giustizia in cui si legge che il giorno precedente sono
state effettuate delle impiccagioni, senza che vengano divulgati i
nomi dei condannati. Ai familiari dei criminali giustiziati la notizia
viene data solo dopo l’esecuzione, perché possano andare a ritirare
la salma, se lo desiderano. Il condannato stesso non viene
informato in anticipo di quando avverrà né se avverrà.
Salvo che la causa non sia all’esame di una corte d’appello, chi si
trova nel braccio della morte si sveglia ogni mattina senza sapere se
vivrà abbastanza da vedere il tramonto.
Molti cittadini giapponesi preferiscono non parlare del fatto che nel
loro Paese vige la pena di morte: l’unica occasione in cui ciò viene
loro rammentato è quando un killer, le cui gesta hanno fatto notizia,
viene condannato all’impiccagione.
3
E’ accaduto di recente, quando il tribunale distrettuale di Tōkyō ha
comminato la pena capitale ai responsabili dell’attentato alla
metropolitana di Tōkyō del 1995 imputato ai membri della setta Aum
Shinrikyō
2
.
Il governo giapponese sostiene da tempo che le esecuzioni capitali
vengono condotte in segreto per rispetto dei sentimenti dei familiari e
degli stessi condannati. Ma è più probabile che questa consuetudine
faccia semplicemente l’interesse dello Stato, che preferisce evitare che
si aprano dibattiti tra l’opinione pubblica.
Non si può certo accusare il Giappone di accanimento eccessivo
nell’applicazione della pena di morte.
Dopo un breve periodo, all’inizio degli anni Novanta, in cui nessuno
è stato giustiziato, le impiccagioni sono proseguite al ritmo di cinque
l’anno e la condanna a morte sembra essere riservata a coloro che
sono imputati di reati più gravi. Se si svolgesse un vero dibattito,
potrebbe darsi che la grande maggioranza dei cittadini giapponesi si
pronuncerebbe, come per altro dimostrato nei sondaggi condotti dal
governo e riportati all’interno di quest’analisi, a favore del
mantenimento della pena capitale. D’altra parte si tratta di
un’opinione che sembra essere prevalente in gran parte delle
culture asiatiche. C’è chi afferma che, visto il basso numero di
esecuzioni, il Giappone potrebbe dare un esempio a tutta la regione
abolendo la pena di morte.
2
La vicenda processuale è stata portata all’attenzione anche dell’opinione pubblica occidentale, alla quale erano stati resi noti gli
episodi di terrorismo compiuti dalla setta.
4
Il Giappone, la cui entrata nell’ONU come membro permanente è
stata caldeggiata dagli Stati Uniti in tempi recenti, si è rifiutato di
ratificare il Secondo Protocollo Opzionale finalizzato all’eliminazione
della pena di morte dalle Costituzioni di tutti i Paesi, e ha votato
contro la Risoluzione sulla pena di morte approvata dalla
Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite del 28 aprile
1999.
Come negli altri Paesi mantenitori, l’opinione prevalente è che tale
pena sia importante come valore deterrente.
Tuttavia, come si cercherà di dimostrare nel corso del presente
lavoro, sembrerebbe che in Giappone essa abbia in primo luogo un
valore retributivo, che funga cioè come mezzo per eliminare dalla
società chiunque si sia macchiato di un reato che abbia intaccato il
bene pubblico, andando contro uno dei precetti fondamentali della
Costituzione stessa. Ciò che sta dietro all’argomento della giusta
punizione perciò è spesso un desiderio di vendetta mascherato da
un principio di giustizia. L’osservazione più comunemente fornita è
che, per quanto terribile essa sia, la pena di morte è necessaria,
dato che si pensa sia l’unica pena in grado di soddisfare il bisogno
di ristabilire l’ordine infranto della società.
5
1. L’applicazione della pena di morte nella storia
del diritto tradizionale giapponese
All’origine la pena, come valore essenziale dell’individuo e del
gruppo, ha carattere sacro: è la divinità che regola automaticamente
il giusto e l’ingiusto.
1.1.Il diritto classico giapponese
Verso il III – IV sec. a.C., quando la legge e l’ordine si erano sviluppati
in Cina e nella penisola coreana, cominciò, verso il Giappone, un
esodo di tecnici, amministratori, eruditi taoisti, confuciani e buddhisti
che durò per secoli. Della struttura organizzativa sociale e legale
dell’epoca Jōmon e della proto storia sappiamo molto poco, se non
quello che possiamo attingere dalle storie dinastiche cinesi e dalle
opere letterarie autoctone
3
, che ci offrono un’immagine vaga delle
istituzioni dell’antico Giappone.
3
Le opere che ci permettono di esaminare il costume dell’epoca sono le cronache come il Kojiki (712
a.c.), il Nihongi (720 a.c.), i Fudoki: rapporti topografici che ciascuna provincia redigeva su ordine
imperiale, o i norito. (Carl, STEENSTRUP A history of law in Japan until 1868, Kohln, ed Tuta Sub
Aegide Pallas, 1991, pag. 4)
Leggendo la storia, non sui testi di scuola o su quelli
usati dagli studenti svogliati, ma consultando le fonti
originali di ogni epoca, si resta veramente disgustati,
non per i crimini commessi dai cattivi, ma per le
punizioni inflitte dai buoni. Una comunità è molto più
violenta per l’impiego ruotinario delle punizioni che
per i crimini sporadici che vi avvengono.
O. Wilde
6
Nell’epoca arcaica il costume e la consuetudine erano il fondamento
dell’attività giuridica affidata ai capi dei vari uji che ricoprivano, in una
commistione di magia e religione, tutti i ruoli sociali di preminenza.
Si presume che il concetto di legge abbia fatto la sua apparizione in
Giappone non prima del IV sec. d.C. e che abbia coinciso con un
insieme di regole orali e popolari piuttosto che codificate per iscritto.
Nella stessa epoca venne introdotto il diritto cinese e, due secoli dopo,
iniziarono le codificazioni giapponesi di cui non ci restano che le notizie
e i frammenti ricavati da commentari successivi che, anche se limitati,
rivelano quanto fedelmente i testi giapponesi avessero ricalcato i
modelli cinesi, ammirati per la loro perfezione.
Verso il 500 d.C. con l’introduzione della scrittura cinese penetrò in
Giappone il Buddhismo che si affermò rapidamente convivendo con gli
altri due culti: il Confucianesimo, ormai naturalizzato, e lo Shintō, il culto
autoctono che contava quarantamila divinità e cui spettava il governo
dei monti e dei villaggi e il compito di regolare il destino degli uomini
4
.
Quello che successe in Oriente fu molto simile alla sorte toccata alle
tribù germaniche con la legge romana: in entrambi i casi la lingua
attraverso la quale si era proposta una nuova religione
trascendentale, il Cristianesimo in Occidente e il Buddhismo in
Oriente, aveva permesso la ricezione di nuove leggi, idee, concetti
ed istituzioni straniere in un modo quasi naturale
5
.
4
Ruth, BENEDICT, Il crisantemo e la spada, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1991, p.103.
5
Carl, STEENSTRUP, A history of law in Japan until 1868, Kohln, ed Tuta Sub Aegide Pallas, 1991,
p.5
7
Prima dell’introduzione della scrittura, il diritto era limitato alle
consuetudini locali ed era legato alla memoria dell’uomo e alle sue
capacità espositive. La scrittura risolse perciò il problema della
conservazione delle norme consuetudinarie, la cui formulazione venne
fissata definitivamente.
Finché il Giappone restò attaccato all’efficacia dei riti tradizionali
continuando a risolvere le controversie su un piano individuale,
questo piccolo mondo antico continuò a presentarsi con un aspetto
pacifico, ma come sempre accade quando i rapporti all’interno di
una società si complicano e superano i confini della famiglia o del
clan, cominciò a formarsi a poco a poco la necessità di un’autorità
sovrana e di una coscienza legale.
Dal VI secolo, la Corte imperiale cominciò ad avvalersi dell’operato
di stranieri (coreani e cinesi) cui offrì incarichi ufficiali civili e militari
al fine di potenziare la posizione del proprio Paese.
La figura più importante di quest’epoca fu sicuramente il famoso
principe buddhista Shōtoku Taishi al quale va il merito di avere
redatto e promulgato, nel 603, una serie di regole di corte, la
cosiddetta “Costituzione di 17 articoli” (Jūshichijō no kempō).
Non si trattava in realtà di una Costituzione vera e propria, poiché
non aveva il compito di organizzare alcun complesso di leggi alla
base di un qualsivoglia ordinamento giuridico ancora esistente, ma
non era nemmeno uno Statuto, poiché nulla poteva essere deciso o
cambiato senza il volere della dinastia Soga.
8
Il contenuto consta di un insieme di massime moraliste intrise di
pietà buddhista, proibizioni confuciane e obbedienza ai precetti
enunciati dai legisti cinesi
6
. Un contributo importante dato da
Shōtoku Taishi consiste nell’aver mandato in Cina ambascerie prive,
per la prima volta, di una finalità militare e volte invece ad attingere,
dai testi buddhisti e confuciani, il sapere e le conoscenze dalle quali
nacquero seri studi sulla giurisprudenza cinese.
Fu in questo momento della storia nipponica che si misero in luce le
prime strutture di uno Stato, e di conseguenza le leggi necessarie a
gestirlo: crimini capitali erano riconosciuti nell’assassinio,
nell’incendio doloso e nell’adulterio, i ladri venivano puniti in base a
ciò che avevano rubato e venivano resi schiavi qualora non
avessero avuto la possibilità di risarcire il furto. In tema di procedura
penale veniva fatto appello al giudizio divino, come si confaceva alla
tradizione nazionale, ma si ricorreva anche all’esilio, alla
fustigazione e non per ultima alla tortura, il metodo cinese usato per
estorcere testimonianze e confessioni. Tuttavia questi regolamenti,
che costituivano la prassi, non erano contenuti in alcun codice
scritto che sia giunto sino a noi.
6
I legisti erano parte di una scuola di pensatori cinesi che collocavano l’utilità e l’efficienza sopra il
concetto di moralità, e avevano pianificato la strada per la forzata unificazione della Cina durante il
periodo della dinastia Ch’in. (Mario, LOSANO, I grandi sistemi giuridici, Torino, Piccola biblioteca
Einaudi, 1978, pag.246.)
9
1.2. Dalla riforma Taika al governo militare
Nel 645 venne redatta la riforma Taika, che sembra costituire la
realizzazione del disegno iniziato da Shōtoku nella creazione di una
struttura governativa adatta ad uno Stato nascente. La Cina era
stata presa a modello con una giurisprudenza sviluppatasi nel corso
di mille anni, durante i quali esperti giuristi erano riusciti, tra tentativi
ed errori, ad organizzare le leggi scritte classificandole sotto 4
grandi filoni: diritto penale (giapponese: ritsu; cinese: li ), diritto
civile, che consta di diritto amministrativo e privato (giapponese: ryō;
cinese: ling), editti imperiali e ordinanze.
In Cina il li (ritsu) era stato il primo ad essere codificato e da questo
si evince un’attitudine generale nei confronti della legge nata per
reprimere e quindi associata a concetti come tortura, amputazione,
fustigazione. Così, sebbene importato dopo il ryō, il diritto penale
rimase, anche in Giappone, legato alle misure draconiane che
segnarono la storia giapponese dal tempo dei governi militari, fino
all’adozione di un moderno Codice Penale alla fine del XIX secolo.
Solo le punizioni, sotto l’influsso del buddhismo, vennero applicate
in modo meno cruento rispetto a quanto avveniva in Cina e
addirittura, nel periodo Heian, si arriverà alla commutazione della
pena di morte in carcere a vita.
Secondo i principi teorici cinesi, l’imperatore avrebbe potuto, nella
sua posizione supra leges, imporre punizioni più o meno dure o, ex
post, decidere quando si trattasse di un atto criminale.
10
Nella pratica invece questi poteri erano appannaggio del Ministro
della Giustizia, che raramente, nel periodo del Ritsuryō
7
, ne abusò.
Come un Codice Penale moderno, il primo capitolo del ritsu inizia
con i principi generali. I governatori provinciali e i funzionari
distrettuali erano anche giudici e veniva richiesto loro di attenersi
alle leggi pedissequamente e di citare l’articolo al quale avevano
fatto appello per applicare una sanzione.
Gli ufficiali erano puniti per i crimini commessi nell’esercizio delle
loro funzioni da colleghi che fossero estranei all’accaduto. Per alcuni
delitti particolarmente efferati, i parenti dell’attore venivano puniti
solo per il fatto di essere congiunti (renzahō). Se qualcuno veniva
riconosciuto incapace di intendere e di volere al momento
dell’evento, ma sano nel corso del dibattimento processuale, veniva
punito come se fosse stato sano anche al momento dell’azione.
Coloro che facevano parte della famiglia imperiale, le persone molto
anziane, quelle molto giovani, coloro che avevano compiuto azioni
valorose a favore dello Stato, venivano puniti in modo blando o non
puniti affatto. Contrariamente a ciò, coloro che agivano contro i
principi confuciani venivano esemplarmente castigati, nei casi più
gravi assieme alla propria stirpe.
Il resto del Codice si occupa di crimini individuali ai quali si fa un
riferimento meno astratto di quanto non avvenga nella prima parte.
7
Codice legale del VIII sec composto da leggi penali (ritsu) e leggi amministrative (ryō), compilato per
ordine imperiale su modello del codice T’ang. Prende il nome dall’era in cui fu promulgato, Taihō ed è
il primo codice giapponese. (Carl, STEENSTRUP, A history of law in Japan until 1868, Kohln, ed
Tuta Sub Aegide Pallas, 1991, pag.35).
11
Le pene erano molto aspre: percosse con fronde di bambù più o
meno spesse, e lavori forzati che costituivano l’aggravante
dell’esilio. La morte era inflitta in forme che venivano considerate
miti, strangolamento (il corpo del condannato restava tutt’intero), o
più brutali come la decapitazione.
Una volta entrati nel meccanismo legale, ci si trovava soli,
impossibilitati ad appellarsi all’aiuto di qualcuno, poiché non esisteva
nemmeno la figura del difensore: gli esperti legali erano a servizio
dello Stato, o eruditi cortigiani che nulla avevano a che fare con
l’attività pratica. L’unica struttura legale indipendente era costituita
dal Censore che però si interessava solo a casi di crimini ufficiali.
L’imperatore formalmente rappresentava il giudice supremo, ma in
pratica le sue funzioni giudiziarie erano espletate dall’ufficio del
“Gran Consiglio di stato“ Dajōkan. Esso costituiva l’unica possibilità
di giustizia equa nell’intero Paese
8
. I casi potevano prendere molto
tempo, poiché l’atteggiamento comune tra pubblici ufficiali era di far
ritornare il caso alle autorità inferiori perché lo riesaminassero.
Le autorità agivano nei confronti di un crimine solo qualora questo
fosse stato regolarmente denunciato con un reclamo formale,
attraverso una lettera (sebbene pochi sapessero scrivere) che doveva
esplicitamente evidenziare la commissione di un reato e il nome di un
sospetto. Nei casi in cui non fosse stato evidente il nome di un
sospetto, la denuncia cadeva in prescrizione. Se l’imputato non poteva
provare la propria innocenza, veniva condannato e, se non
confessava, veniva torturato.
8
STEENSTRUP, A history…, op- cit. p.71.
12
Il segretario di Corte annotava ciò che le parti dichiaravano anche in
sede di tortura, e faceva loro “sottoscrivere” la dichiarazione raccolta,
pena una nuova tortura. La persona condannata poteva chiedere una
riesamina del caso ma, nonostante questo fosse previsto, poteva
spesso accadere che il richiedente morisse in carcere prima di aver
potuto beneficiare di un ricorso. Se il capo d’imputazione iniziale non
veniva confermato, poteva succedere che venisse incolpato di un altro
crimine, oppure che fosse accusato di non essere chiaro nella
deposizione dei fatti che lo riguardavano, e perciò poteva subire
punizioni o torture inflitte con motivazioni diverse da quella originaria.
Tuttavia poco dopo l’Ottocento, l’imperatore su consiglio del
Dajōkan cambiò il sistema: magistrati di polizia (kebiishi)
erano
adesso addetti ad ascoltare le accuse senza trattare la parte civile
come un altro sospetto; queste autorità avevano il compito di
investigare anche senza che fosse emessa una denuncia. Perciò
l’imprigionamento della parte civile e la pratica di condannare sulla
base di un capo di imputazione diverso da quello originario, o di
infliggere una sentenza più leggera in caso di dubbia colpevolezza,
fu abolita.