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“La FP si fonda sulla coscienza del parlante di poter passare dalla frase
alla parola e dalla parola alla frase. Disponendo di una base
e avendo la competenza della lingua il parlante
può costruire intere serie di neologismi”
(Dardano 1983: 16)
0. Premessa
Perché –ATA?
A inaugurare la stagione sarà una tranquilla pedalata sul
lungomare per finire con un fresco gelato (La Repubblica – Ed. Bari, 1°
luglio 2010); E così, dopo le saette contro gli scettici, Sabatini prova con
una sorta di carrambata a ritrovare compattezza (La Repubblica – Ed.
Bologna, 9 aprile 2010); E per chiudere in bellezza, seguirà una
spaghettata collettiva (La Repubblica – Ed. Milano, 9 agosto 2010).
Ognuno dei tre precedenti brani contiene un suffissato in –ATA; un
sostantivo, cioè, formato da una base verbale o nominale (ma potrebbe
essere anche aggettivale) a cui viene aggiunto, appunto, il suffisso –ATA.
I tre nomi – pedalata, carrambata, spaghettata – nonostante
l’identica morfologia sono a prima vista molto diversi. Il primo,
deverbale, indica grosso modo l’“atto del pedalare”; il secondo è invece
un denominale: deriva da Carràmba, titolo di un programma televisivo
condotto da Raffaella Carrà, e significa generalmente “incontro inatteso”,
“sorpresa”. Il terzo, spaghettata, anch’esso un denominale, si riferisce a
un evento, in genere collettivo, in cui si consuma un pasto a base di
spaghetti.
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Cosa accomuna questi suffissati, a parte appunto l’essere derivati
tramite lo stesso suffisso? Esiste, in altre parole, un significato comune
apportato da –ATA?
Raffaele Simone (1983) sosteneva che il processo di derivazione,
importante meccanismo di formazione di parola, è solitamente visto
come un fenomeno puramente formale, che riguarderebbe essenzialmente
il piano dell’espressione, con nient’altro che “scarse e generiche allusioni
sul piano del contenuto” (Simone 1983: 40). Secondo Simone invece è
indispensabile guardare ai fenomeni di derivazione sia sotto il profilo
della forma che sotto quello del significato: esistono nelle diverse lingue
possibilità di derivazione per cui a determinati mutamenti formali non
sempre corrispondono gli stessi mutamenti di significato; a volte, si
riscontrano difformità di comportamento del significato rispetto a quello
delle forme.
Il primo intento di questa ricerca è cercare di stabilire se ciò sia vero
anche per il suffisso –ATA; se, insomma, a forma simile corrisponda
simile significato, oppure no.
Si cercherà quindi individuare e definire (o ridefinire) i significati
dei diversi suffissati in –ATA, siano essi denominali, deverbali o
deaggettivali, stabilendo tra l’altro se si tratti di un unico suffisso, o,
come è stato sostenuto da alcuni autori (per esempio, Scalise 1983) di
due suffissi diversi.
Di seguito, a scopo introduttivo, delineeremo sinteticamente storia e
principali significati di –ATA. Verranno successivamente prese in esame,
in una prima sezione, le diverse ipotesi sul suffisso esposte da chi se ne è
occupato a partire dai primi anni del Novecento. In un’altra sezione,
infine, mi baserò su un corpus di neologismi entrati nell’uso nel XX
secolo e nel primo decennio del XXI per cercare di delineare a mia volta
significati e usi del suffisso prevalenti nell’italiano contemporaneo.
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1. Introduzione
1.1 Breve storia del suffisso
Fin dal latino, per formare nomi deverbali veniva sostantivato il
participio perfetto, eliminando l’originario sostantivo da esso
determinato: res, o causa, vengono omessi lasciando ad esempio che solo
repulsa assuma il significato di “sconfitta”; collecta non ha più bisogno
di pars o pecunia per significare “quota, scotto”; sparisce culpa dal
fianco di remissa ma rimane il significato di “perdono”; e così via. Da
questi esempi derivano, anche se in accezioni diverse, parole italiane
come colletta e rimessa; ma mentre i participi erano ancora tali, essi
“hanno provocato la stessa formazione in altri verbi, soprattutto nel
grande e importante gruppo dei verbi in –ARE” (Tekavčić 1972: 49).
Remittere sta a remissa come cantare sta cantata: nascerebbero così i
deverbali italiani identici, dal punto di vista formale, al participio passato
femminile singolare: passeggiata, telefonata, dormita, schiarita, caduta,
battuta, ecc.
Se è indiscutibile che il suffisso risalga a forme latine di questo
genere, non c’è accordo unanime su come si siano sviluppate la sua
forma e la sua funzione. Le due posizioni principali sono quelle di
Meyer-Lübke (1890) e di Collin (1918). Meyer-Lübke sostiene che il
suffisso –ATA si sia sviluppato a partire dal participio perfetto, con
cambiamento di funzione semantica. Di opinione opposta, Collin sostiene
che –ATA abbia assunto su di sé le funzioni di un altro suffisso latino, –
tus, cambiandone a un certo punto la forma.
C’è poi un passo successivo: dal momento che molti verbi avevano
un sostantivo corrispondente (ad esempio, cantare – canto), si sarebbe
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venuto a formare una sorta di triangolo e un rapporto formativo diretto,
ad esempio tra canto e cantata:
Diventa quindi possibile creare derivati in –ATA anche a partire da
nomi: cucchiaiata da cucchiaio, serata da sera, ragazzata da ragazzo e
così via. Solo –ata (e non –ita o –uta) ricorre in questa funzione,
probabilmente poiché i verbi della prima coniugazione sono in italiano i
più frequenti. Tale comportamento sarebbe confermato anche da
formazioni dialettali settentrionali (come ad esempio risada “risata”).
Ritroviamo inoltre lo stesso suffisso di forma participiale in altre lingue
romanze occidentali: in francese (–ée, come in bouchée, “boccata”),
occitano (–ade: boutade, “scherzo”) e spagnolo (–ada: cucharada
“cucchiaiata”).
1.2 Significati generali del suffisso
Dal punto di vista semantico, i derivati in –ATA sono stati
solitamente ricondotti a un comune denominatore: quello di una sezione
delimitata, e quindi discreta, di un continuum. Per quanto riguarda i
derivati deverbali, questo “sezionamento” avverrebbe su un’azione,
permettendo di esprimere azioni semelfattive e terminative: fare una
passeggiata o fare una chiacchierata si oppongono ai neutri passeggiare
o chiacchierare (ma sono diversi anche dagli espressamente durativi
stare passeggiando o stare camminando). I denominali, invece,
sezionerebbero una quantità (boccata, cucchiaiata) o il continuum
temporale (giornata, serata); nei derivati che esprimono “colpo di N” è
cantare
canto
cantata
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assai netto il significato aspettuale. Il significato, primariamente quello di
un astratto deverbale, si concretizza in casi come aranciata, spremuta
ecc.
I significati dei denominali sembrano essere più numerosi è
sfaccettati. Il più importante numericamente è l’ultimo tra quelli appena
citati: il colpo dato con lo strumento indicato dalla base, che “conserva
ancora una chiara somiglianza con i nomi d’azione” (Grossman/Rainer
2004: 253). Oltre a sostantivi come bastonata o martellata, che
presentano peraltro degli omonimi deverbali con un diverso significato
(“il fatto di bastonare”, “il fatto di martellare”: gli ci vuole una buona
bastonata), gli altri denominali appartenenti a questo tipo sono
sostanzialmente indipendenti dall’esistenza di un verbo che sia
effettivamente presente nel lessico italiano: bottigliata, ciabattata,
unghiata, ecc. Possono essere fatti rientrare in questa categoria anche
sostantivi che designano “colpi” di agenti atmosferici: grandinata,
acquata, sciroccata. Altri, più che a un colpo, fanno riferimento a un
movimento brusco e/o improvviso: occhiata, pennellata. In altri esempi
ancora, la base è una parte del corpo e può indicare ciò che sferra il colpo
ma anche ciò che lo riceve: testata, gomitata, nasata. A volte si hanno
anche estensioni metonimiche, come coltellata “ferita risultante da una
coltellata”.
L’altro tipo importante è quello che esprime un atto, spesso negativo
o percepito come tale (cafonata), tipico della persona designata dalla
base. Anche questa categoria è vicina ai nomi d’azione. I campi
semantici a cui si può ricondurre questo tipo sono perlopiù quelli della
stupidità (cretinata, stupidata)
1
, della malvagità (canagliata,
mascalzonata), dell’infantilismo (bambinata, ragazzata), della vanteria
(bravata). In alcuni casi, che analizzeremo nella terza parte, il rapporto
tra base e affisso è diverso: cazzata o vaccata indicano anch’essi un atto
1
Vedremo in seguito come si possano considerare questi esempi deaggettivali piuttosto che
denominali.
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negativo ma non direttamente riconducibile al significato della base. A
questa categoria appartengono anche i neologismi derivati da nomi propri
come berlusconata, cassanata, dalemata e così via: anche qui, come
vedremo più approfonditamente in seguito, è chiaramente presente una
sfumatura negativa. In altri (frassicata, “modo di esprimersi del comico
televisivo Nino Frassica”, fiorellata “modo di esprimersi del presentatore
Fiorello”), questa non sembra invece presente.
Una terza numerosa categoria fa riferimento alla quantità: quella che
può essere contenuta dal referente della base (cucchiaiata, forchettata),
ma anche un “insieme” (figliata). Inserirei per ora in questa categoria, e
spiegherò meglio più avanti perché, anche i nomi che sembrano avere
“un vago senso accrescitivo e collettivo” (Grossman/Rainer 2004: 254)
come balconata, ringhierata, cancellata, gradinata.
Ora, è interessante notare come praticamente tutti gli autori, anche
Grossman/Rainer (la cui opera è del 2004), abbiano trascurato, perché
considerandoli non veramente produttivi, i sostantivi che designano cibi e
bevande (sia nel caso dell’ingrediente indicato dalla base – aranciata,
acciugata – che dell’evento in cui questo cibo in particolare viene
mangiato – cocomerata, spaghettata); formazioni, queste ultime, che
sono accostate a quelle che designano feste e avvenimenti (bicchierata,
fiaccolata, ottobrata, tombolata; anche tavolata, di cui De Mauro colloca
l’ingresso nel XVI secolo, ha un significato simile). Il rapporto tra base e
affisso in questi casi è molto vario.
Un’ultima classe effettivamente chiusa e non più produttiva è infine
quella che designa una durata: nottata, giornata, mattinata.
1.3 Un suffisso trascurato
Nel 1983, Dardano lamentava la scarsità di studi sulla formazione
delle parole in italiano: “mancano analisi sistematiche, vedute d’insieme,
manuali” (Dardano 1983: 9). Ora la situazione è decisamente mutata ed
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esistono impegnative trattazioni della morfologia derivazionale in
italiano. Già allora, comunque, l’autore sottolineava come fosse
indicativo l’interesse “per suffissi come –aggine (…) e –ata” (ibidem:
10).
Eppure, in vari studi fatti nel corso degli anni a proposito della
formazione di parole in italiano, e più in particolare sui suffissati, proprio
il suffisso –ATA è stato, se non ignorato, quantomeno messo in secondo
piano rispetto ad altri suffissi formanti anch’essi nomina actionis.
Ad esempio, –ATA non è nominato da Claudio Iacobini e Anna M.
Thornton in un lavoro sulle tendenze nella formazione delle parole
(Iacobini/Thornton 1992) basato su un corpus di 1120 lemmi
2
. Nel
paragrafo relativo alla suffissazione, vengono presi in considerazione
come suffissi che permettono di formare nomi d’azione –zione, –mento, –
tura e –aggio. Peraltro, solo il primo, –zione, pare mostrare una “forte
produttività progressiva” (Iacobini/Thornton 1992: 38); gli altri appaiono
in regresso o sono scarsamente produttivi di neologismi.
Davide Ricca e Livio Gaeta, in Corpora testuali e produttività
morfologica: i nomi d’azione italiani in due annate della Stampa (2002),
nel prendere in considerazione i cinque suffissi che formano nomi
d’azione, considerano “tra i più produttivi e/o frequenti dell’italiano
contemporaneo (…) –mento, –zione, –tura, –aggio e –(n)za”
(Gaeta/Ricca 2002: 223). In questo caso, però, –ATA rimane escluso per
cause di forza maggiore: “le conversioni in –a e –o dal tema verbale e
quella dal participio passato femminile, cioè i tipi acquisto, rinuncia,
mangiata/corsa” (ibidem: 232) non sono segmentabili con i mezzi
automatici utilizzati dagli autori (che comunque lo considerano un tipo
importante).
2
Corpus da cui peraltro gli autori ricavano l’interessante dato secondo cui la suffissazione
costituirebbe il meccanismo di formazione di parola del 50,6% dei lemmi.
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In controtendenza, per così dire, Monica Berretta inserisce il suffisso
–ATA (che però non chiama esplicitamente così, ma “morfemi di
participio passato (…) in –a” (Berretta 1988: 102)) nel proprio lavoro
Sviluppo di regole di formazione di parola in italiano L2: “nomina
actionis” costruiti con participi passati (1988). Ai soggetti della ricerca
veniva richiesto di produrre oralmente “dei derivati di parole-base date,
secondo esempi e/o spiegazioni esplicite date per ogni categoria di
derivati richiesti” (ibidem: 100) (per gli astratti deverbali, specifica
l’autrice, l’esempio fornito era telefonata). I participi passati sono tra i
morfemi sovraestesi nella formazione di astratti deverbali, preceduti solo
da –mento, dal morfema zero o conversione e da –zione. Una maggiore
importanza assumono se considerati insieme, senza quindi distinguere le
forme in –a (il nostro suffisso –ATA) e in –o (un apprendente produce
forzato per forzatura); le due forme vanno tuttavia tenute distinte “per
capire lo sviluppo di questa strategia di formazione di parola” (ibidem:
102). Berretta nota che i parlanti meno competenti tendono a utilizzare
maggiormente i PP in –o, mentre i più competenti le forme in –a. I
soggetti ancora più competenti abbandonano le forme in –o, mentre
quelle in –a continuano a essere utilizzate.
La predilezione degli apprendenti dell’italiano come L2 per le forme
in –a può essere considerata un sintomo dell’effettiva produttività del
suffisso, che pare invece in molti casi essere stato considerato
scarsamente produttivo? Nell’ultima parte della ricerca si cercherà di
rispondere anche a questa domanda.
1.4 A proposito della notazione
Le scelte degli autori per indicare il suffisso sono diverse: –ata, –
(a)ta, –ATA. In questa ricerca è stata scelta l’ultima notazione, –ATA,
utilizzata tra gli altri, per esempio, da Gaeta (2002) e Acquaviva (2005),
perché più generica e a un maggiore livello di astrazione rispetto alle
altre: essa dovrebbe includere anche –ita, –uta e le nominalizzazioni da
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participi irregolari: in questo modo anche nomi come spremuta, o corsa,
rientrano nella definizione “derivati in –ATA”. Anche se tali nomi non
verranno presi in considerazione nella ricerca, ho preferito comunque
scegliere una notazione più generale. Nel XX secolo, in ogni caso, non
sono entrate nell’uso nuove formazioni in –uta, e solo pochissime in –ita
(differita, ribollita).