Il fondamento della nullità di queste convenzioni è generalmente individuato “nella
esigenza di tutelare ed assicurare la libertà di disporre della propria successione col
testamento, cioè con atto di ultima volontà
4
”.
Per quanto riguarda i patti dispositivi e rinunciativi, l’aggettivo “successori” è dovuto
alla loro caratteristica di avere per oggetto diritti relativi a successioni a causa di
morte; più precisamente essi rientrano tra le convenzioni aventi ad oggetto beni
futuri, con la particolarità che i beni dovrebbero acquistarsi mortis causa, dal
promittente o dal rinunciante.
Si suole addurre a fondamento del divieto delle convenzioni indicate per ultime il
votum corvinum o captandae mortis che vi inerirebbe, ed ancora l’intento di impedire
che “ giovani inesperti e prodighi” dilapidino le loro sostanze prima di venirne in
possesso
5
.
Del resto, la volontà di dare un assetto stabile a determinate situazioni, di individuare
tecniche che permettano ai genitori di avere certezze sull’effettiva attribuzione dei
loro beni a favore di quegli eredi che ritengono più bisognosi o più adatti alla
prosecuzione dell’attività di famiglia, è certamente interesse meritevole di tutela.
Nei trattati dell’Ottocento era consueto richiamarsi a casi come quello, che adesso si
indica, di una famiglia composta da un padre e tre figli: due figli lavorano col padre
la terra, mentre il terzo, che ha potuto studiare anche grazie ai sacrifici degli altri due,
è un affermato medico a Parigi. Quest’ultimo, riconoscente verso i fratelli, vuole
rinunciare all’eredità quando il padre è ancora in vita, per tranquillizzare sia lui che i
fratelli sull’assetto che avranno i beni ereditari una volta apertasi la successione
6
.
Ma la necessità di sistemare il patrimonio post mortem quando il de cuius è ancora in
vita non può certamente avere la forma di un contratto successorio fra lo stesso de
positivo, sia il testamento è “un portato pratico della energica attrazione che sulla materia ha sempre esercitato il tipo
testamentario, al quale esclusivamente sembrano riferiti tanto il paradigma distintivo atti mortis causa-atti inter vivos
quanto la nozione stessa di atto di ultima volontà”: così GIAMPICCOLO G., Il contenuto atipico del testamento, Milano,
1954, p. 40. Sempre per l’affermazione che “nel diritto italiano è riconosciuto un solo atto a causa di morte: il
testamento”, STOLFI G., Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 45.
4
Cfr., per tutti, FERRI L., Successioni in generale, nel Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, libro
II, Delle Successioni (artt. 456-511), Bologna-Roma, 1964, p. 83.
5
FERRI L., op. ult. cit., pp. 85-86.
6
Tale esempio viene utilizzato soprattutto in Francia, dove la rinuncia all’eredità da parte di un erede legittimo in vita
dell’anziano genitore è sempre possibile, senza alcuna particolare forma, cfr. DALLOZ D., Enciclopedie giuridique-
Succession-n. 935-6, Renonciation conventionelle, vol. X, Paris, 1998, p. 435.
2
cuius e quello o quegli eredi consenzienti ad esser pretermessi, stante il divieto di cui
all’art. 458.
L’esigenza dei consociati di anticipare con atti tra vivi la regolamentazione della
successione, senza attendere la morte del disponente e la pubblicazione del
testamento, sembra essere fortemente avvertita e prepotentemente messa in luce dalla
dottrina. Dottrina che non esita a parlare di “crisi” del testamento e a negare che i
patti successori possano ancora essere avvertiti come disciplina che abbia una propria
giustificazione sociale, degna di essere tutelata dall’ordinamento: il principio della
assoluta libertà testamentaria, così come le ragioni poste a fondamento del divieto
delle altre tipologie di patti successori, non appaiono, ai più, sufficienti a spiegare le
ragioni di una proibizione, sconosciuta ad altri ordinamenti
7
, che è volta a
condizionare la validità di convenzioni che risultino collegate con l’evento morte.
Con questa chiave d’apertura dogmatica, vari autori si sono concentrati in un lento
lavorio di sfaldamento del divieto dei patti successori e l’hanno fatto seguendo una
duplice strada: da una parte evidenziando le ragioni che identificano il divieto in
discorso come un impedimento negoziale eccessivo rispetto ad esigenze evolutive
della società, dall’altra individuando gli interessi che premono perché siano
individuate forme di attribuzione della ricchezza alternative al testamento.
Sotto il primo aspetto si è rilevata, in primo luogo, l’eccessiva rigidità del diritto
successorio, settore del diritto civile che numerosi giuristi ritengono, più che ogni
altro, vincolato ad antichi schemi e refrattario ai rinnovamenti
8
.
Considerando come la materia delle successioni, per il suo stretto collegamento con i
temi della proprietà e della famiglia, sia particolarmente sensibile al mutare delle
condizioni politiche ed economiche, della struttura familiare, delle convinzioni
religiose, e, in senso lato, ideali, sono molti coloro che sottolineano l’inattualità del
divieto, non in grado di andare incontro alle esigenze di una società che ha visto una
rapida trasformazione della ricchezza da immobiliare a mobiliare e che
7
Il contratto successorio, in forme più o meno limitate, viene regolarmente applicato in alcuni Paesi europei.
8
SCHLESINGER S., voce “ Successioni (diritto civile): parte generale”, in Noviss. Dig. It., XVIII, Torino, 1971, p. 748;
RODOTA’ S., Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. Comm., I, 1967, p.90. Nello stesso senso
anche PEREGO E., Favor legis e testamento, Milano, 1970, p. 35.
3
necessiterebbe di quella elasticità e flessibilità che solo il contratto, a differenza del
testamento, può offrire
9
.
Sotto il secondo aspetto, non si è mancato di rilevare che i divieti sui patti successori
contenuti nell’art. 458 c.c. “per giudizio sempre più diffuso, appaiono all’osservatore
contemporaneo come una maglia intollerabilmente stretta e ingiustificatamente
limitativa del libero dispiegarsi dell’autonomia privata, come un obsoleto fattore di
blocco frapposto al perseguimento di interessi sostanzialmente meritevoli di tutela”
10
.
Da qui l’intento di sfuggire a tale pressione escogitando strumenti diversi, che si
sottraggano ai meccanismi ed alle regole del diritto ereditario, e che tuttavia riescano
a soddisfare la volontà di disciplinare il destino dei propri rapporti patrimoniali per il
tempo successivo alla morte.
Si prosegue, infatti, nell’opera di individuazione di strumenti negoziali in grado di
fornire una valida alternativa alla delazione testamentaria e che siano in grado di dar
luogo ad assetti patrimoniali che possono così tipizzarsi:
a) conservare l’unità del patrimonio familiare;
b) mantenere la destinazione economica di determinati beni;
c) realizzare la successione anche al di fuori del nucleo familiare
11
.
Per contro, il regime successorio assicura il mantenimento della ricchezza familiare
all’interno del nucleo familiare stesso, senza tuttavia garantire, stante la disciplina
della successione necessaria, la conservazione dell’unità del patrimonio, né, tanto
meno, della destinazione economica dei beni che ne fanno parte.
Il divieto dei patti successori non verrebbe quindi “aggirato” solo per evitare di
pagare tasse di successione alquanto salate
12
; è per conseguire un’allocazione
ottimale dei propri beni rispondente ad una delle finalità sopra elencate che il
disponente sfugge, di regola, al negozio mortis causa, per ricorrere ad un congegno
9
Sul punto BARCELLONA C., Diritto privato e processo economico, Napoli, 1973, p. 272.
10
ROPPO P., Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. Priv., 5, 1997, p. 8.
11
PALAZZO A., Attribuzioni patrimoniali tra vivi e assetti successori per la trasmissione della ricchezza familiare, in
A.A. V.V., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova,
1995, p. 56.
12
MARELLA M.R., Il divieto dei patti successori e le alternative convenzionali al testamento. Riflessioni sul dibattito più
recente, in Nuova Giur. Comm., 1991, p. 463.
4
negoziale che gli consenta in vita di collaudare l’assetto patrimoniale predisposto per
dopo la sua morte.
Per essere tale, un’efficace alternativa convenzionale al testamento deve quindi
realizzare innanzitutto un’attribuzione patrimoniale attuale, nel senso che il bene
deve essere sottratto alla disponibilità del disponente prima della sua morte; gli
effetti negoziali devono essere rimandati ad un momento successivo alla morte, e,
infine, deve consentire al beneficiante di pentirsi attraverso la previsione di una
facoltà di revoca
13
; si è così giunti all’elaborazione della figura del contratto
transmorte
14
quale ideale alternativa al testamento.
La presente dissertazione si prefigge di esaminare i vari orientamenti dottrinali volti a
circoscrivere la portata del divieto, ovvero a tentarne un superamento, non prima di
aver analizzato nello specifico il divieto medesimo, attraverso un’attenta disamina da
un punto di vista storico, al fine di meglio comprenderne le ragioni giustificative.
Dopo l’analisi della fattispecie normativa in chiave sistematica, l’attenzione si
sposterà sull’interpretazione giurisprudenziale, che è andata ad integrare le scarne
disposizioni codicistiche e che meglio permette di comprendere quando un
determinato accordo, anteriore all’apertura della successione, possa essere
considerato patto successorio, e quindi debba ricadere nel divieto dell’art. 458 c.c.
All’esame delle più rilevanti sentenze della Suprema Corte di Cassazione che, a
partire dagli anni ’60, si sono occupate dei patti successori, seguirà un’attenta
riflessione sull’istituto del patto di famiglia, di cui verranno considerati i vari aspetti
problematici e del quale si tenterà di individuare la controversa natura, al fine di
valutare se e in che misura esso costituisca un’espressa deroga al divieto dei patti, una
vera e propria eccezione al disposto di cui all’art. 458 c.c.
Seguirà l’analisi di alcune figure contrattuali post mortem
15
, istituti sui quali dottrina
e giurisprudenza si sono interrogate, per tentare di definirne i connotati, in vista della
13
PALAZZO A., op. ult. cit., p. 58.
14
PALAZZO A., op. loc. ult. cit.; IEVA M., I fenomeni c.d. parasuccessori, in Successioni e donazioni, Rescigno (a cura
di), Padova, 1994, p.235.
15
In linea assolutamente generale, si può affermare che si considerano post mortem le attribuzioni in cui l’evento morte
non diviene elemento causale, ma semplice modalità accessoria.
5
loro liceità in assoluto oppure in collegamento con il divieto dei patti successori,
ovvero per tentare di orientare negozialmente una successione ereditaria, senza
passare per il previsto strumento del testamento, soddisfando, in tal modo, le esigenze
sopra evidenziate.
Scopo del lavoro è fornire le basi per un’attenta riflessione giuridica, che permetta di
guardare con giudizio critico al divieto dei patti, al fine di valutare se e in che misura
tale istituto risulti effettivamente eccessivo rispetto agli intenti originari,
probabilmente non più corrispondenti all’interesse generale; una volta raggiunta una
precisa opinione sul punto, attraverso l’attento esame degli elementi analizzati, ci si
potrà chiedere se gli sforzi dottrinali volti ad un superamento del divieto possano
davvero considerarsi adeguati, ovvero risultino essere una mera forzatura del dato
legislativo. Ma, soprattutto, obiettivo dell’analisi è valutare se effettivamente lo
stesso legislatore, attraverso le recenti riforme introdotte, abbia voluto creare
eccezioni al divieto di cui all’art. 458 c.c., superando definitivamente alcuni principi
che caratterizzano il nostro diritto successorio.
6
1. LA STORIA DEL DIVIETO
1.1 Tradizione romana ed influenze germaniche nella disciplina
degli atti a causa di morte.
E’ affermazione tradizionale che il divieto dei patti successori giunga a noi dal diritto
romano. I patti successori istitutivi, in particolare, sarebbero stati proibiti a tutela del
principio della libertà di testare, gelosamente protetta contro qualunque coazione o
insidia “usque ad vitae supremum exitum”
16
. A conclusioni diverse è giunta la
dottrina che, occupandosi più a fondo del problema, si è proposta di ricercare se mai
il diritto romano abbia conosciuto il divieto dei patti successori sotto forma di
principio generale o come risultante di un complesso di divieti di singole figure
17
.
La ricerca ha messo in evidenza, in primo luogo, come il diritto romano prevedesse
atti bilaterali e irrevocabili a causa di morte, quali la mancipatio familiae mortis causa
e la mortis causa donatio, che sarebbero stati inconciliabili con un atteggiamento di
avversione verso i patti successori.
L’esame delle fonti ha inoltre rivelato che il principio della nullità, sia dei patti
istitutivi d’erede che delle obbligazioni di istituire, non si trova mai sancito in una
formulazione generale ed astratta, ma piuttosto applicato ad ipotesi specifiche, a
singoli casi concreti.
Occorre tener conto che la figura del patto successorio, come categoria generale, è
creazione moderna: l’introduzione del divieto ha infatti provocato sottili
discriminazioni logico-giuridiche per salvare alcune figure, che sembravano rientrare
16
In questo senso, tra gli altri, nella dottrina più antica, FERRARA L., Teoria del negozio illecito nel diritto civile
italiano, Milano, 1914, p. 103 ss.; FERRI L., Successioni in generale, cit., p. 82. I patti rinunciativi sarebbero stati
proibiti perché derogavano all’ordine legale della successione, e quindi ad un regime con carattere di ordine pubblico, i
patti dispositivi perché contrari ai bonos mores, cioè immorali, e non immuni da pericolo anche a causa del votum
corvinum o captandae mortis, inducendo lo stipulante a fare voti perché muoia al più presto la persona della cui eredità
si tratta.
17
VISMARA G., Storia dei patti successori, Milano, 1941, p. 63.
7
nella categoria proibita, dalla sanzione di nullità e per giustificare la ragione stessa
del divieto. Nel diritto romano il patto successorio non fu riconosciuto, ma, più che in
un divieto, la ragione risiedeva nell’estraneità al sistema della stessa possibilità di
simili disposizioni.
Fu soltanto sul finire dell’età classica che giurisprudenza e imperatori, posti di fronte
a consuetudini divergenti della provincia, espressero responsi negativi ai nuovi
cittadini che li interrogavano in proposito, vietando figure concrete di patti
successori, come se ciascuna di esse costituisse un istituto a sé
18
.
La vicenda del diritto successorio nei secoli che seguirono la caduta dell’Impero
Romano può essere intesa alla luce della convinzione di una continuità di base, pur
nelle inevitabili modificazioni, ovvero di un’irriducibile frattura fra i vari momenti
storici.
Senza pretese di affrontare il problema delle reciproche influenze tra diritto romano e
diritti germanici, è certo comunque che vi fu profondo conflitto fra la concezione
individualistica del diritto romano e la concezione germanica, legata all’idea del
gruppo e ad una struttura comunitaria
19
. L’antico diritto germanico conosceva una
sola forma di successione, la legittima, ispirata alla più rigorosa osservanza del
vincolo di parentela, che la natura dispone secondo le linee della discendenza.
Sotto l’influenza della diversa organizzazione germanica della proprietà e della
famiglia, e per il fatto che l’istituzione a causa di morte era ad essa sconosciuta, la
figura del testamento scomparve per più di cinque secoli dall’esperienza del nostro
Paese.
Al testamento fu sostituita una varietà di contratti, e la figura più diffusa sembra
essere stata la donatio post obitum, donazione subordinata alla premorienza del
18
VISMARA G., Storia dei patti successori, cit., p. 109 s. Nel senso che “per tutto il periodo veramente romano la
giurisprudenza è muta in proposito”, in quanto “ignora la possibilità di pensare simili disposizioni”; BONFANTE P.,
Corso di diritto romano, VI, Le successioni. Parte generale, rist., Milano, 1974, p. 169. Che, almeno per l’epoca
classica, la questione dei patti successori non si ponesse neppure, afferma anche BIONDI B., Diritto ereditario romano,
Milano, 1954, p. 169.
19
E’ comune alla storiografia giuridica la convinzione che le “tradizioni barbariche” avrebbero prevalso sul diritto
romano per quanto riguarda la materia delle successioni: cfr. PERTILE A., Storia del diritto italiano, IV, Storia del
diritto privato, Torino, 1893, pp. 3-4; SALVIOLI G., Storia del diritto italiano, Torino, 1921, p. 546.
8
donante
20
. Il disponente si obbligava, di fronte alla persona che voleva beneficiare
dopo la morte, a non disporre in vita di certi suoi beni in modo diverso o a favore
d’altri, riconoscendo al beneficiario il diritto di agire contro di lui o i suoi eredi per il
caso che fosse venuto meno all’impegno.
Il patto successorio, in varie forme, fu per un lungo periodo l’unico strumento
conosciuto per disporre dei propri beni a causa di morte.
Ad incoraggiare il fenomeno contribuì la Chiesa che si servì di questi istituti e li
piegò al conseguimento di una causa pia, insegnando ai Longobardi, freschi della
conversione al Cattolicesimo, la possibilità di provvedere alla salute dell’anima
disponendo delle proprie sostanze.
Giova ricordare, in proposito, come la vita della società medioevale fosse, in tutte le
sue manifestazioni, compenetrata di idee religiose e che nessuna epoca coltivò con
tanta insistenza l’idea della morte. Al problema della morte, che nella concezione
cristiana segna l’inizio della vita, e all’idea di un aldilà che dipenda dai meriti e dalle
colpe acquisiti sulla terra, corrisponde la preoccupazione costante di assicurarsi,
nell’atto a causa di morte, la possibilità di accrescere i meriti e di riparare il male
compiuto
21
.
La disposizione contrattuale, per il suo carattere di irrevocabilità, era lo strumento più
adeguato a garantire il raggiungimento dello scopo da possibili impugnazioni degli
eredi e anche da mutamenti di opinione del soggetto; si faceva ricorso anche a
formule imprecatorie e a sanzioni pecuniarie elevate. La prassi dei patti successori,
sovvertitrice, al medesimo tempo, dei principi del diritto romano, cui era sconosciuta
20
Sull’ignoranza degli atti a causa di morte presso Franchi e Longobardi, i cui successori erano indicati dalla stessa
struttura familiare, cfr., fra gli altri, PERTILE A., Storia del diritto italiano, cit., p. 7 ss.; VISMARA G., Storia dei patti
successori, cit., p. 189 ss.; GIARDINA F., voce “Successioni (diritto intermedio)”, nel Noviss. Dig., it., XVIII, Torino,
1971, p. 727 ss. Sulla donatio post obitum, donazione subordinata alla premorienza del donante, e sulla sua controversa
origine, cfr. VISMARA G., Storia dei patti successori, cit., I, p. 220 ss.; nel volume II, attraverso una larga indagine del
materiale documentario viene tra l’ altro, dimostrata l’adozione della donatio post obitum, come atto più diffuso a causa
di morte, in quasi tutto il territorio italiano. Nel senso che del testamento non vi è più traccia alcuna, in quasi tutta la
penisola italiana, dal secolo VIII sino alla metà del secolo XII, e che alla sua mancanza supplì la donatio post obitum,
anche GIARDINA F., op. cit, p. 324.
21
“Verso la fine del Medioevo l’immagine della morte si spoglia di ogni elemento di trascendenza per risolversi nel
monito della caducità della bellezza e dello splendore umano, e nell’orrore della decomposizione fisica. Gli atti a causa
di morte forniscono una sorta di antologia del pensiero medioevale cristiano sull’aldilà, sia che si risolva
nell’esortazione a vivere nel terrore della morte, sia che affermi l’umana mortalità come conseguenza del peccato
originale”. ( VISMARA G., Storia dei patti successori, cit., p. 35 ).
9
l’idea della successione contrattuale, e di quelli del diritto germanico, che non
concepiva una volontà privata capace di operare dopo la morte, riveste quindi una
funzione mediatrice tra i due mondi venuti a convivere
22
.
22
La breccia aperta per la prima volta nel principio germanico dell’intangibilità dei beni della famiglia fu quindi dovuta,
da un lato, al naturale mimetismo provocato dalla convivenza con la società italica, dall’altro all’influsso della Chiesa
che propagandava l’efficacia purgatrice dei suffragi per l’anima. Il ricorso alla successione contrattuale piuttosto che al
testamento ebbe probabile origine, in un primo momento, dalla necessità di eludere le disposizioni in materia di
successione legittima contenuta nell’editto di Rotari; il contratto, inoltre, era strumento più usuale e facile da capire per
una società non ancora evoluta. Per un esame approfondito del fenomeno, cfr. VISMARA G., Storia dei patti successori,
cit, p. 39.
10
1.2 Il medioevo del diritto italiano: successione legittima,
testamentaria, contrattuale.
Solo nel secolo XII, col rifiorire degli studi di diritto romano e il moltiplicarsi delle
scuole giuridiche, il testamento, atto unilaterale e revocabile a causa di morte, fa la
sua ricomparsa nei territori in cui era caduto in desuetudine. E’ superfluo ricordare
l’opera delle scuole che riproposero, come attività fondamentale del pensiero, lo
studio e la glossa del diritto romano.
Dalla legge romana, sacra e venerabile per antichità, forma e imponenza, che
consentiva varie combinazioni e adattamenti molteplici ai casi della vita quotidiana,
si trassero ancora una volta i principi normativi del vivere civile
23
.
La società del secolo XII era tuttavia troppo diversa dalla romana, per poterne
integralmente applicare le regole alle proprie esigenze. L’antica disciplina della
proprietà, assoluta, esclusiva e perpetua, era incompatibile con l’organizzazione
feudale del dominio, diviso in vari strati sovrapposti e affidati a diversi detentori
temporanei. Su ogni territorio gravava una molteplicità di diritti, ciascuno dei quali,
nella propria sfera, era egualmente protetto. L’idoneità delle disposizioni contrattuali
sulle successioni ad adattarsi alle necessità dell’organizzazione feudale è una ragione
del progressivo loro diffondersi, nonostante il ritorno all’uso del testamento, che
perciò non riacquisterà più l’originaria funzione e l’importanza di un tempo.
Alla perdita di valore del testamento contribuì in misura rilevante l’apporto delle
dottrine canonistiche, ispirate a principi diversi dal diritto romano ed influenti
nell’ambiente sociale.
Per il diritto canonico il contratto di istituzione ereditaria era ammesso liberamente, a
meno che non risultasse in modo particolare la turpitudo del paciscente, e anche le
rinunce delle figlie all’eredità del padre erano considerate valide, purchè il patto fosse
23
Nell’ambito dell’ampia letteratura sul diritto comune, cfr. SOLMI M., Contributo alla storia del diritto comune,
Milano, 1938, p. 94 ; ERMINI N., Corso di diritto comune, I, Milano, 1962, p. 87; SALVATORELLI S., L’Italia
medioevale, II, L’Italia comunale, Milano, 1940, p. 91.
11
confermato da giuramento. Era inoltre consentito al testatore l’uso della c.d. “clausola
derogatoria”, per mezzo della quale si escludeva qualsiasi possibilità di revoca o
modifica dell’atto.
Ad un primo movimento, volto a far rientrare nel concetto di testamento anche
l’istituto del codicillo, si affiancò la tendenza diretta a creare una nozione più ampia e
comprensiva dell’atto di ultima volontà.
Nella categoria vennero fatte rientrare, tra l’altro, anche la donazione mortis causa e
le varie specie di patti successori. La facoltà, riconosciuta alla persona, di disporre
nelle maniere più varie del proprio patrimonio per il tempo successivo alla morte, e
senza le formalità necessarie per il testamento, spogliò quindi l’istituto della sua
antica importanza. Aver ammesso, inoltre, che un atto di ultima volontà potesse
contenere anche solo disposizioni particolari, o addirittura un contratto testamentario,
portò alla distruzione dello stesso concetto romanistico di testamento, e
particolarmente del suo carattere di istituzione di erede
24
.
La successione contrattuale venne pertanto, accanto alla successione legittima e
testamentaria, a costituire dal XII secolo in poi una terza forma per attribuire i beni
ereditari, ed altri tipi di patti successori fecero la loro comparsa nell’età nuova. Patto
successorio fu quello, ad esempio, col quale due famiglie si costituivano
vicendevolmente eredi; patti successori diversi per natura e scopo si stipulavano tra
coniugi, sia nell’atto nuziale che con atto posteriore; furono anche patti successori le
rinunzie che le donne facevano, a favore dei fratelli o di altri maschi della famiglia, di
ogni diritto sul patrimonio familiare
25
.
Nell’Italia dell’ancien règime, all’interno della grande famiglia, una molteplicità di
istituti presidiava l’assoluta preminenza dei maschi e la concentrazione nelle mani di
un unico erede, di regola il primogenito, di tutto il patrimonio e, con esso, della
direzione del gruppo familiare. Di qui il moltiplicarsi delle forme di rinuncia ai diritti
24
Cfr. LEICHT L., Storia del diritto italiano, II, Il diritto privato, diritti reali e di successione, Milano, 1960, p. 169;
GIARDINA F., voce “Successioni (diritto intermedio)” cit., p. 747.
25
Il periodo “offre una delle più plastiche illustrazioni di quel più vasto fenomeno della storia italiana ed europea che si
ricollega alla dottrina delle rinunce, in cui la debolezza dello Stato e degli ordinamenti pubblici rendeva possibile il
sistematico schiacciamento dei contraenti più deboli, e in questo caso delle figlie di famiglia…”: UNGARI U., Il diritto
di famiglia in Italia, Bologna, 1970, p. 49.
12
successori futuri, prima fra tutte per importanza la rinuncia che la donna, al momento
della costituzione della dote, faceva di qualunque suo diritto, anche a nome dei
propri discendenti, sulla sostanza familiare.
La condizione di inferiorità della figlie di famiglia contrastava con i principi,
formalmente vigenti, del diritto romano-cristiano-giustinianeo, e allora si provvide a
sostenere con vari espedienti la validità delle rinunce descritte. Negli stati sardi, ad
esempio, i fratelli, purchè in grado di reggere e continuare la famiglia, potevano
escludere le sorelle dalla successione attraverso il conferimento della dote.
13
1.3 L’esperienza francese.
La stessa situazione si ritrova in Francia, dove quasi tutte le coutumes obbligarono la
donna a rinunziare alla successione paterna e materna al momento della costituzione
di dote, a profitto dei maschi della famiglia
26
.
Come è noto, fino alla pubblicazione del code civil, si distinguevano, in Francia, i
pays de droit ècrit e i pays de droit coutumier. Nei primi, in pratica nel Mezzogiorno,
predominava il diritto romano; nei secondi, invece, si seguivano prevalentemente le
coutumes, che variavano di provincia in provincia, o, addirittura, di città in città, ma
avevano come tratto comune la fedeltà allo spirito germanico.
Si spiega quindi che, in materia di successioni, nei pays de coutume, eredi della
tradizione familiare germanica, intesa a conservare il patrimonio nell’ambito della
famiglia, la successione ab intestato fosse considerata il modo normale di
trasmissione mortis causa. L’evoluzione della famiglia e l’influenza del diritto
romano operarono tuttavia in modo che nella maggior parte delle coutumes fosse
lasciato uno spazio sia pure esiguo alla volontà del de cuius.
Distinguendo i beni a seconda della loro origine, da una parte gli immobili
provenienti dalla famiglia (propres) e dall’altra i beni acquistati dal de cuius (acquets)
e i beni mobili, la maggior parte delle coutumes fissò a quattro quinti dei propres la
quota indisponibile, denominata in seguito rèserve dalla dottrina. Il de cuius poteva
quindi disporre di un quinto dei propres, dei beni mobili perché considerati di modico
valore, e degli acquets perché non provenivano dalla famiglia. Sotto l’influenza del
diritto romano si stabilì inoltre una lègitime sui beni mobili e gli acquets, a favore dei
parenti in stato di bisogno.
Il posto lasciato alla volontà del de cuius e alla successione testamentaria era quindi
ristretto.
26
Cfr. POTHIER C., Oeuvres, contenant les traitès du droit français, IV, nouvelle edition, Bruxelles, 1830, p. 396 ss.; si
dà conto, nelle pagine menzionate, delle differenze tra le coutumes in relazione all’entità della dote da costituire al
momento della rinuncia. Alcune escludevano le figlie dotate dalle successioni dirette, ma non dalle collaterali, altre le
escludevano. Il fine delle rinunce era, naturalmente, la conservazione dei grandi patrimoni familiari, così sostenendosi
“la splendeur du nom”.
14