regionali (Guarrasi V., 1994, pp. 9-12). Di un bene culturale e ambientale non
andranno analizzate le sole caratteristiche visibili, ma soprattutto le dimensioni
soggettive della percezione, quindi i valori simbolici attribuiti dalla comunità, le
valenze e l’organizzazione. Nello studio del patrimonio storico e ambientale si tende
a superare la dicotomia tra bene ambientale e naturale, poiché la stessa natura ha
subito, nel corso dell’evoluzione storica, trasformazioni ad opera dell’uomo e dei suoi
complessi culturali (salvo le pochissime aree, spesso anecumeniche, che conservano
pressochè intatte le conformazioni naturali, benchè risentano indirettamente della
pressione antropica). Inoltre i beni culturali intesi come oggetti materiali sono
sottoposti alle dinamiche evolutive dell’ambiente e quindi ai processi di degrado.
L’approccio al patrimonio culturale e ambientale non può non essere considerato da
quell’indirizzo di ricerca denominato geografia culturale, definito nel 1925 da Carl
Sauer, che ne delineò i contenuti ed i campi di studio, e riscoperto negli anni Ottanta,
di fronte ad inquietudini epistemologiche che in quel periodo, suggestionate
dall’insorgere della sensibilità sociale verso la natura e la cultura, stavano
caratterizzando il percorso scientifico e le riflessioni sulla funzione della geografia.
L’obiettivo era quello di allontanare quest’ultima dal paradigma dello strutturalismo,
fortemente impregnato di concezioni deterministiche, e di rivolgere l’attenzione verso
le condizioni esistenziali dell’individuo. L’indirizzo più recente della geografia
culturale, la cui spinta proviene dagli indirizzi fattisi strada nel secondo Novecento in
antropologia e nelle scienze sociali, si occupa dello studio delle connotazioni
simboliche proprie di luoghi e spazi e dei significati ad essi attribuiti, dove la cultura
5
di una comunità si identifica nel suo patrimonio di simboli costruiti nel corso della
storia. Non quindi studio della realtà territoriale in quanto tale, ma di simboli che le
comunità umane hanno attribuito ai luoghi e dei valori e dei significati strettamente
connessi con questi simboli, attraverso i quali si risale all’identità culturale di una
comunità. In questo modo si viene a creare un ponte tra geografia culturale e
semiotica, in cui la costruzione di rappresentazione e di conoscenza si snoda
attraverso un triangolo a cui vertici si dispongono: il luogo, ossia “il referente
dell’impostazione semiotica” (Vallega A., 2002); il simbolo, che intrattiene con il
luogo un rapporto metaforico in quanto sta al posto dell’oggetto e rappresenta il
luogo costituendone il senso, valore e circostanza che lo rendono allo stesso tempo
segno-significante, e, nell’espressione di senso attribuito all’oggetto, segno-
significato; il significato, elemento che si comporta come segno per produrre altri
significati, in modo da produrre il processo di semiosi.
In un percorso tematico costruito su base semiotica l’individuo diventa costruttore di
simboli, significati e valori, dando da solo senso alla realtà. La geografia culturale,
ponendo il soggetto al centro della rappresentazione geografica della cultura, si
articola in tre ragioni tematiche, basate sui valori attribuiti dai rapporti con la natura,
alla vita sociale e all’immaginazione della trascendenza, che costituiscono il trittico
di condizioni esistenziali dell’umanità.
Il percorso che prevede lo studio del rapporto con la natura si riferisce all’individuo
in quanto homo ecologicus, pertanto l’attenzione è rivolta verso i simboli attribuiti
alle realtà fisiche e biologiche del territorio ed il senso che la natura ed i suoi luoghi
6
hanno acquisito per l’esistenza umana. In questo indirizzo di ricerca la geografia
culturale sviluppa interdisciplinarietà con la geografia fisica, la geologia e le scienze
naturali. Per quel che concerne la vita sociale dell’individuo, andranno considerati i
rapporti di quest’ultimo con gli altri membri della comunità, a vari livelli di
complicazione e scala geografica (dalla famiglia alla comunità nazionale), mentre del
rapporto con la trascendenza si esamineranno non i comportamenti nei confronti della
religione in sé o di un credo, ma i simboli e i valori con cui definisce i luoghi dove
conduce la sua esistenza nei riguardi del soprannaturale, generando forme in grado di
contrassegnare e modificare il paesaggio, nonché di conferirgli una forte
umanizzazione.
Immaginando di dover produrre una rappresentazione cartografica della cultura su
base semiotica, lo spazio potrebbe essere rappresentato con simboli ricalcanti
l’iconografia delle culture locali, riferiti a un insieme di luoghi selezionati per la loro
rilevanza a identificare valori esistenziali. Ma nei territori in cui convivono più forme
di cultura i simboli verrebbero a sovrapporsi, pertanto sarà compito dell’osservatore
costruirsi un proprio discorso sulle culture dello spazio rappresentato basandosi sulla
personale base spirituale e la creatività immaginativa. Tuttavia, considerando nel loro
insieme il rapporto dell’individuo con la natura, la società e la trascendenza, sarà
necessario creare una visione unitaria della cultura di una determinata comunità,
identificando degli “aggregati geografici” (Vallega A., 2002 pag.7), cioè insiemi di
luoghi in cui le comunità attribuiscono, o hanno attribuito, valore simbolico a degli
elementi presenti sul territorio. Tali simboli, uniti ai valori assegnati dall’elemento
7
antropico, formano la personalità di un determinato spazio, che si caratterizza per il
suo paesaggio culturale, il quale si differenzia dal paesaggio geografico, anche se
quest’ultimo include elementi culturali. Il paesaggio culturale è una rappresentazione
del modo di proiettarsi del soggetto nella realtà, ed è caratterizzato da forte
connotazione intellettuale e spirituale, che porta a collegare memoria e progetto,
esistenza e trascendenza, natura e società, osservandone sia le forme passate sia le
probabili forme del futuro. L’indagine del geografo culturale pertanto va oltre la
semplice rappresentazione cartografica, spingendosi a considerare lo spazio, i valori
ed i simboli nella loro globalità.
Affine alla geografia culturale per contenuti e metodi è la geografia della
percezione, un indirizzo che propone “un rovesciamento di dei termini tradizionali
con cui si concepisce e si rappresenta il rapporto tra comportamento sociale e
territorio” (Vallega A., 1989, pag.312) e pone al centro dell’analisi il soggetto, in
modo tale che la conoscenza parta da quest’ultimo e si diriga in un secondo momento
verso la realtà. In questo modo viene introdotto nella geografia umana un indirizzo
behaviourista, che tiene conto del comportamento umano derivato dalla cultura e il
rapporto con l’ambiente naturale. La percezione della realtà avviene mediante
l’acquisizione di significanti, in questo caso definiti come indicatori percettivi. Ad
esempio, la percezione del territorio avviene mediante l’acquisizione di quali siano le
forme fisiche, le tipologie di insediamento, i dissesti ambientali e così via. Il rapporto
tra il soggetto che percepisce e l’insieme dei significanti costituisce il primo passo per
l’analisi behaviourista in geografia. Successivamente, una volta percepita la realtà, si
8
entra nella seconda fase, momento in cui entrano in gioco i significati, cioè le
immagini, le idee che il soggetto trae dai significanti. La rappresentazione avviene
nelle forme più varie, e la carta geografica si trasforma in carta mentale, che
naturalmente non è in grado di raffigurare la realtà così com’è. Dal punto di vista
pratico, l’individuo, o meglio l’osservatore, messo di fronte ad un determinato
ambiente, è soggetto a specifiche sensazioni e particolari impressioni che fanno in
modo che si stabilisca una sorta di dialogo tra l’uomo e la natura e si lasci campo
libero all’immaginazione e all’esperienza del territorio dell’elemento antropico.
Pertanto ogni tipo di conoscenza avviene in modo metaforico e non convenzionale. Il
principale oggetto di studio della geografia della percezione è senza dubbio il
paesaggio: in particolare questo settore della geografia umana si inserisce nel
dibattito, scaturito intorno agli anni Settanta, tra coloro i quali assegnano al paesaggio
la valenza di cosa in sé (concezione oggettiva) o di qualcosa che varia a seconda della
percezione dell’osservatore (concezione soggettiva). Il punto di partenza della
controversia è la crescente consapevolezza delle problematiche ambientali derivate
dalla vertiginosa crescita economica mondiale e dall’incontrollabile espansione
edilizia e industriale che avviene a danno dell’ambiente. I cultori della concezione
oggettiva, suggestionati dal linguaggio dell’ecologia e del diritto ambientale,
giungono a definire il paesaggio come un ecosistema, o meglio un geosistema, una
combinazione di elementi fisici, biologici ed antropici, che, in continua reazione sia
tra di loro, sia con l’ambiente esterno, rendono il paesaggio un insieme unico,
indivisibile ed in perpetua trasformazione. Al contrario le concezioni soggettive di
9
paesaggio derivate dalla geografia behaviourista pongono attenzione anche alla
cognizione della gente comune, (singoli individui o intere comunità) che fa leva
soprattutto sull’apprezzamento di alcune forme che si caratterizzano per il loro valore
estetico e sull’influenza che sul soggetto esercitano la letteratura, l’arte, i mezzi di
comunicazione. Essendo queste influenze relative, si introduce il concetto di punto di
vista, e ne deriva pertanto che il soggetto diviene parte inseparabile del paesaggio. In
questo modo il territorio diviene “spazio vissuto”, ove, attribuendo nuove funzioni e
rinnovati ruoli è possibile riattivare con le componenti territoriali quel rapporto stretto
e dinamico che assegna alle strutture formali particolari valori simbolici ed identitari.
Pertanto il rinnovamento funzionale “è in grado di adeguare le forme al dinamismo
dell’ambiente geografico rivitalizzandone i contenuti con il pieno reinserimento nella
complessità territoriale” (Mautone M., 1994, pag.113).
Entrambi gli indirizzi sopra descritti propongono alternative diverse alla
rappresentazione geografica tradizionale, a tal punto che ci si chiede se la geografia
abbia risentito di quella corrente denominata postmodernismo.
1
Si tratta di una
tendenza, che considera inaccettabili e superate le certezze ideali, filosofiche,
scientifiche ritenute proprie della modernità e, in polemica con l’ideologia del
progresso e muovendo da una visione pessimistica dell’età postindustriale, persegue
la commistione di modi e forme eterogenee del passato con elementi e spunti
innovativi. In geografia il termine è introdotto per la prima volta da Michael Dear nel
1986, da cui si svilupperà un dibattito volto a definire i contenuti e delle valenze della
1
Il termine “postmodernismo” sarebbe apparso verso la fine dell’Ottocento per indicare correnti d’avanguardia nel
campo delle arti figurative, per indicare quelle correnti della pittura che si dispongono su posizioni di più avanzata
avanguardia rispetto agli impressionisti
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geografia postmoderna, intesa come il complesso degli atteggiamenti geografici
assunti in opposizione alle caratteristiche della geografia della modernità, dominata
dal positivismo e dallo strutturalismo. Di fronte al relativismo, la frammentazione e
l'instabilità dei soggetti e degli oggetti, la sfiducia nelle grandi cornici teoriche e il
rifiuto dei principi che hanno retto il pensiero moderno hanno incoraggiato la
geografia a “inserirsi nel mainstream delle scienze sociali, grazie soprattutto
all'adozione dei principi e dei metodi della cosiddetta social theory, un'adozione che
ha consentito l'apertura di un prolifico dibattito interdisciplinare" (Minca C., 2001,
pag.3). L’indirizzo geografico postmoderno si è sviluppato prevalentemente nel Nord
America, soprattutto grazie ai saggi di Michael Dear, e si concentrata su un ampio
campo di temi: i paesaggi culturali e il pace-making, con particolare riferimento agli
studi sulla città e sullo spazio urbano; i paesaggi economici, espressione dell'era
postfordista e dell'accumulazione flessibile; le dispute teoriche e filosofiche, basate
sul concetto di spazio e sui problemi posti dal linguaggio geografico; la crisi della
rappresentazione nel discorso geografico/etnografico; la politica del/nel postmoderno
e l'influenza che su di essa hanno esercitato i discorsi femminista e postcolonialista;
la costruzione dell'individualità e la questione ambientale intesa come problema
culturale. La questione della rappresentazione, che costituisce il fulcro del discorso
sul moderno e sul postmoderno, ha visto la geografia intensamente impegnata
soprattutto nel confutare "definitivamente tutte le teorie della rappresentazione che
pretendono di assurgere a validità universale e per superare la funzione mimetica (far
passare per naturale ci che sociale) che la modernità ha attribuito alla
11
rappresentazione” (Minca C., 2001, pag.38). La geografia postmoderna ha dimostrato
che quando ci troviamo di fronte a una rappresentazione, dobbiamo conoscere il
contesto sociale in cui il testo viene elaborato e fatto circolare, il setting istituzionale
di riferimento (scuola di pensiero, ambiente accademico, momento culturale, ecc.), il
genere di cui fa parte, la posizione politica che sta dietro all'Autore e, infine, il
contesto storico che rende questi fattori legati in un particolare luogo e in un
particolare momento. Il discorso sulla rappresentazione conduce a quello del rapporto
tra testo e contesto, caro ai post-strutturalisti: il testo va inquadrato nelle cornici del
contesto e va inteso come una costruzione sociale, priva di valore oggettivo e
meritevole di essere esplorata. Tra gli obiettivi del postmodernismo, infatti, rientra
quello di superare l'atteggiamento della geografia moderna che, attraverso sedicenti
rappresentazioni neutrali e oggettive, descrive l'identità dei luoghi e, muovendo da
questa base, ne coglie le differenze. La posizione post-strutturalista e postmodernista
inverte i termini dell'atteggiamento. Converte, infatti, l'equazione identità/differenza
nell'asimmetria differenza/identità, dimostrando, attraverso l'analisi della prassi
geografica, la natura costitutiva, oltre che descrittiva, delle rappresentazioni. Di
fronte all'onda postmoderna, ormai articolata in una miriade di posizioni e di
indirizzi, i geografi, soprattutto il geografo europeo, potrebbero reagire
negativamente perchè potrebbero temere di "perdere il controllo e l'autorità sul
discorso disciplinare" (perplessità strategica)(Minca C., 2001, pag. 371), o perchè ha
la sensazione che venga alla luce confusione e "mancanza di progettualità "
(perplessità nostalgica). Ambedue le posizioni sono da superarsi perchè non
12
condurrebbero ad alcun risultato. In fondo, la caratteristica saliente della geografia
postmoderna americana consiste nel proporre la strada della differenza e della
polivocalità. Fare geografia postmoderna quindi vuol dire anche non smettere mai di
denunciare, e di combattere se il caso, il taken-for-granted, cioè quelle
rappresentazioni di noi e degli altri (anche dei geografi 'altri') che considerano
naturale e ovvio un sistema di relazioni dato per scontato e invece palesemente
asimmetrico.
Nella stagione della crisi dello strutturalismo si registra la nascita di un altro
indirizzo di ricerca, basata sul paradigma del sistema generale, che presenta
l’ambizione di proporre un modello generale di descrizione della realtà – qualunque
tipo di realtà – e di creare un terreno di incontro tra le scienze naturali e quelle
sociali. Il pensiero sistemico conduce a rappresentare la realtà come “qualcosa che
all’interno di qualche cosa (l’ambiente) in vista di qualche cosa (scopo del progetto)
compie qualche cosa (funzionamento) per mezzo di qualche cosa (struttura stabile)
che si trasforma nel tempo” (La Moigne J.-L., 1977-1984, pag.61-62). In sostanza la
realtà viene immaginata come un aggregato di oggetti, attivi e stabili, che,
evolvendosi in un ambiente e stabilendo relazioni con l’ambiente esterno, vanno
incontro a trasformazioni e si dirigono verso un obiettivo. L’ambiente esterno è una
componente essenziale della rappresentazione della realtà, poiché in prima battuta è
necessario comprendere come un oggetto interagisca con esso e a quali dinamiche
evolutive è sottoposto. Il paradigma sistemico è apertamente incompatibile con la
logica disgiuntiva cartesiana propria dello strutturalismo, dal momento che
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quest’ultima tende a scomporre l’oggetto in parti, descrivendo dettagliatamente
ciascuna di esse, pertanto si basa sulle alternative proposte dalla logica congiuntiva.
In questo contesto l’attenzione non è più rivolta a mostrare cosa sia l’oggetto, ma che
cosa faccia, come si trasformi durante la sua evoluzione nel tempo e come si
comporti in relazione al risultato che raggiunge attraverso l’azione. Ai quattro
principi cartesiani di evidenza, riduzione, causalità ed esaustività la logica
congiuntiva ne contrappone altri quattro, ovviamente antitetici, vale a dire pertinenza
(l’oggetto non viene descritto in è e per sé, ma in rapporto alle intenzioni dichiarate
dell’osservatore), olismo (viene considerato nel suo insieme e in rapporto
all’ambiente esterno), teleologia (non viene rappresentato in base a relazioni causali
tra i propri componenti, bensì in base al comportamento che assume), aggregatività
(non viene percepito in rapporto alla totalità dei propri componenti, ma in rapporto ai
gruppi di componenti che sono funzionali ai fini che si vogliono raggiungere con la
descrizione). Essendo ogni territorio un sistema bimodulare, composto da ecosistema
e comunità umana, il paradigma sistemico è il più adatto a concepire la regione in
termini coerenti con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, che fa della tutela
dell’ecosistema, insieme all’efficienza economica e all’equità intra ed
intergenerazionale, uno dei suoi obiettivi portanti. Il concetto di sviluppo sostenibile è
stato enunciato per la prima volta all'attenzione dell'opinione pubblica e degli studiosi
nel rapporto della Commissione Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo nel 1987
(Rapporto Brundtland, Nazioni Unite, 1987). Dopo la Conferenza di Rio de Janeiro
del 1992 (Conferenza delle Nazioni Unite riunitasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14
14
giugno 1992), lo sviluppo sostenibile è divenuto un obiettivo dichiarato delle
politiche economiche e ambientali dei vari Paesi, da perseguire a tutte le scale
geografiche, da quella locale a quella del grande spazio. Tuttavia, per il
raggiungimento dell’obiettivo, è necessario preservare la diversità, un concetto che la
Conferenza di Rio aveva affrontato sopratutto con riferimento alla biologia e
all’ecologia. L’Agenda 21, derivata dagli atti della conferenza, conteneva numerose
disposizioni e linee guida finalizzate a proteggere la diversità sia negli ambienti
naturali che nei contesti sociali, mostrando quindi una certa attenzione ai fattori
umani e naturali che intervengono nell’organizzazione del territorio. Sviluppare una
politica della diversità fu inteso come il dispiegamento di azioni simultaneamente
orientate a conservare la proprietà degli ecosistemi e delle identità culturali, le prime
poste a rischio dalla crescente pressione umana e le seconde dalla diffusione dei
modelli standardizzati di vita. Nonostante l’idea sia nata nelle discipline geologiche,
nei documenti elaborati a Rio non mancano riferimenti al contesto sociale. In seguito,
in un’accezione più generale, il concetto di diversità è stato progressivamente riferito
alle culture della comunità, considerate nell’insieme delle loro manifestazioni naturali
e spirituali. L’attenzione è stata rivolta soprattutto verso i processi di reazione dei
sistemi locali di fronte alle sollecitazioni e alle influenze provenienti dalla scala
globale, come ad esempio lo sfruttamento di massa delle risorse e l’imposizione a
sostituire modelli tradizionali di organizzazione economica congeniali alle loro radici
culturali, con modelli ad alta tecnologia miranti soltanto ad ottimizzare i profitti. Il
concetto di diversità è stato proiettato su tre livelli: ecologico, sociale e culturale,
15
livelli speculari rispetto ai tre cardini dello sviluppo sostenibile, pertanto si è
prefigurata una stretta connessione tra la rappresentazione della realtà, incluse le
realtà territoriali, in rapporto all’idea di diversità e all’azione politica finalizzata al
conseguimento dello sviluppo sostenibile. L’adozione di un concetto esteso di
diversità può mobilitare una collaborazione intersettoriale tra le varie impostazioni
geografiche. L’integrazione tra geografia fisica, umana e culturale riflette l’esigenza
di integrare le scienze della natura con le scienze dell’uomo, inoltre può accrescere la
qualità della ricerca scientifica e, da un punto di vista sociale, organizzare un
territorio in base a criteri non settoriali, bastati dunque sulla logica congiuntiva
propria della teoria sistemica.
Nella lettura del patrimonio ambientale e naturale, un’indagine palesemente
descrittiva, volta a catalogare o a descrivere mediante carta geografica la
distribuzione di “fatti culturali” (Guarrasi V., 1994 pp.9-12) sul territorio,
risulterebbe estremamente riduttiva. Quando si analizzano dei beni culturali e
ambientali non si studiano delle “cose” o “rapporti tra cose”, ma i significati e i valori
che queste “cose”, operando come segni assumono all’interno dei rapporti sociali.
Compito dei geografi è considerare i sistemi di relazioni sociali entro cui si formano i
valori nelle loro articolazioni spazio-ambientali, situandoli dentro contesti territoriali
specifici (Dematteis, 1998 pag.26) e a diverse scale, da quella locale a quella del
grande spazio. Per cui il bene è visto allo stesso tempo come segno materiale
localizzato (Dematteis, 1998, pag. 26), facente parte di un sistema di relazioni sociali
che gli conferiscono il significato di “bene” I geografi non dovrebbero fermarsi alla
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sola classificazione analitica dei beni, ma assumere ciò come punto di partenza per
mostrare come beni culturali e naturali con caratteristiche identiche possano essere
oggetti geografici molto diversi in quanto, a seconda del contesto territoriali in cui
sono inseriti, possono assumere ruoli diversi sia all’interno di questi che in rapporto
all’ambiente esterno. Di conseguenza il bene non appare come una cosa in sé munita
di una valenza assoluta, ma assume significati geografici diversi. Ad esempio un
monumento storico o una riserva naturale possono comunicare emozioni diverse a
seconda che vengano osservati da un “insider” ossia un abitante di quel luogo, o da
un “outsider”, un visitatore che si giova della fruizione turistica. Naturalmente
valutazioni diverse possono reperirsi anche all’interno della stessa comunità, non solo
per quel che riguarda gruppi diversi. Passando all’analisi sistemica, non basta
considerare il sistema locale su cui insiste il bene, ma anche i sistemi di pari livello
che con esso interagiscono. Il riconoscimento della natura relazionale dei beni e della
molteplicità di valutazioni implica rappresentazioni, descrittive o cartografiche,
parecchio complesse, in cui lo stesso oggetto da esaminare può allo stesso tempo
essere e non essere un bene culturale, e quando lo è può avere delle valenze diverse.
La mappa odierna dei beni culturali e ambientali deriva senza dubbio da una mappa
di spazi relazionali che, intersecandosi e talvolta sovrapponendosi, non sono
rappresentabili con le due o tre dimensioni della carta geografica tradizionale ma
richiederebbero un’organizzazione ipertestuale da ottenere con l’ausilio delle
moderne tecnologie informatiche Un apparato teorico che consideri il rapporto tra le
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variabili componenti di un sistema è un più che valido strumento cognitivo per
accedere alle dinamiche dei processi che si susseguono senza interruzione.
Una geografia dei beni culturali e ambientali che riconosca la loro complessità
contestuale si inserisce nella crisi del paradigma della geografia neoclassica, che
pretende di mostrarci il mondo così com’è, mentre invece lo rappresenta da un certo
punto di vista (Dematteis, 1998, pag.27). E’un indirizzo di ricerca di carattere
anacronistico in quanto si cristallizza su forme ritenute tali non soggette al divenire
storico. Tale concezione riduce i beni ad entità puramente oggettive, privati delle
multiformi valenze che possono assumere. E’lo stesso fluire del tempo invece a
mutare inesorabilmente i significati ed i valori. Per comprendere questi ultimi e
rappresentare i beni come principi attivi dell’organizzazione territoriale è necessario
che la geografia dei beni culturali assuma un progetto ed entri a farne parte. Un
progetto rigoroso non deve muoversi su politiche passive di semplice conservazione e
tutela, ma orientarsi verso indirizzi di valorizzazione. Una geografia progettuale,
prima di intraprendere l’analisi descrittiva, deve innanzitutto considerare come, in
certi contesti territoriali differenti si formano i “significati” ed i valori culturali sia
all’interno del medesimo territorio, sia in relazione con altre comunità e quindi quali
progetti possano derivare da tali attribuzioni di valore, analizzando a quali interessi
corrispondano. In ultima analisi bisognerà valutare quali effetti questi progetti
produrranno sul territorio. La geografia dei beni culturali e naturali non rimane fine a
sé stessa, ma è caratterizzata da una spiccata connotazione civile. I filoni di indagini
che legano i beni al territorio sono rappresentati dagli studi sui milieux urbani, sulle
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identità locali e sullo sviluppo locale autosostenibile. Solo in questo modo la
conoscenza oggettiva dei beni culturali, cioè quella della loro origine, storia e
costituzione fisica, può diventare sapere progettuale (Dematteis G., 1998).
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