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INTRODUZIONE
L’origine del dominio coloniale inglese in India risale alle attività della Compagnia delle
Indie Orientali che nel XVII secolo, grazie alla creazione di vari avamposti commerciali, gettò
le basi per la conquista della futura colonia. Nel corso del 1700 la presenza inglese in India
divenne sempre più invasiva e la Compagnia cominciò ad amministrare direttamente il paese.
Nel 1858, infine, il controllo del Raj britannico passò direttamente alla corona, che si trovò
così a governare su un vastissimo impero coloniale dal quale l’India ottenne l’indipendenza
solo nel 1947.
Per comprendere le complesse dinamiche storiche e politiche che portarono alla creazione del
dominio inglese in India, bisogna analizzare il contesto culturale che giustificò e rese
possibile la conquista della colonia più importante dell’impero inglese.
Nel XVIII secolo diversi intellettuali inglesi si interessarono alla cultura indiana e diedero vita
alla moderna disciplina dell’indologia. Nel giro di pochi anni vennero inaugurate cattedre di
indologia, di filosofia e di lingue indiane in svariate università europee. L’attenzione
accademica per i discorsi sull’India riflette l’evoluzione storica dell’allora nascente
colonialismo perché la comprensione della realtà ‘orientale’ era essenziale per la costruzione
dell’impero britannico. Quindi lo sguardo dello studioso europeo, per quanto a livello
puramente culturale fosse guidato solo dalla brama di conoscenza, era rivolto a definire
l’alterità asiatica in modo strumentale all’acquisizione del controllo politico da parte degli
stessi europei.
E’ solo recentemente, grazie alla fondamentale opera di Edward Said Orientalismo
(nonostante il suo studio sia rivolto quasi interamente all’atteggiamento europeo verso
l’Islam), che i moderni indologi hanno cominciato a ridefinire gli studi dei loro antenati alla
luce di una contestualizzazione storica che non può prescindere dall’analisi del colonialismo
britannico. Fonte di ispirazione principale per il presente studio è proprio il testo del critico
letterario palestinese, in quanto la sua lettura ha instillato in me il desiderio di fornire il mio
modesto contributo all’acceso dibattito interno alla ricerca indologica anglosassone
riguardante la necessità di rileggere le vicissitudini del Raj britannico in chiave orientalista ed
eurocentrica.
Devo ammettere, però, che ho riscontrato enormi difficoltà nel reperimento di testi critici e
saggi su questa tematica nell’ambito accademico italiano, fatto che solo non mi ha fatto
desistere, ma mi ha confermato la necessità che una strutturale critica all’orientalismo vada
intrapresa anche nella ricerca indologica italiana. Perciò, nel redigere il presente studio ho
dovuto ricorrere all’ausilio di parte della vasta saggistica britannica presente sull’argomento,
dovendo però far fronte ai limiti del sistema bibliotecario italiano per il reperimento delle
4
fonti originali, altro elemento che ha avvalorato la mia constatazione del mancato
approfondimento di questo tema in Italia.
Ho ritenuto perciò interessante trattare questa tematica, immeritatamente trascurata nel nostro
paese, al fine di tentare di riallacciare la ricerca indologica italiana alle sue espressioni
anglosassoni, più rigorose e meticolose nell’analisi di temi post-coloniali. Nonostante sia
consapevole che il mio lavoro sia solo un’introduzione ad un tema che merita ulteriori e più
puntuali approfondimenti, ripongo la mia speranza nel fatto che possa comunque fungere da
spunto di riflessione e da fonte di interesse per nuove ricerche in tal senso.
Tornando al merito della questione, negli studi post-coloniali, a partire dalle ricerche di E.
Said, con il termine Orientalismo si definisce la concezione di un Oriente ontologicamente e
dicotomicamente contrapposto all’Occidente, secondo tutta una serie di paradigmi
eurocentrici che ha contraddistinto i primi studi indologici e parallelamente l’ideologia
coloniale. La legittimazione del dominio coloniale necessitò di definizioni e categorizzazioni
dell’alterità indiana, atte a dare giudizi di valore e a ordinare le società non occidentali
presupponendo l’egemonia culturale europea, giustificando così la missione civilizzatrice, il
celeberrimo ‘fardello dell’uomo bianco’.
Scopo di questo saggio è condurre un’analisi critica di alcuni stereotipi e preconcetti culturali
prodotti dagli studi indologici e orientalisti in epoca coloniale, riassunti attraverso una
prospettiva particolare, quella cioè della letteratura di viaggio di alcuni autori inglesi che,
riportando il racconto dei propri viaggi in India, palesavano questa ideologia orientalista nelle
descrizioni di tradizioni, usanze e culture considerate a volte come semplicemente diverse,
altre come inferiori e incivili. Considerata la complessità dell’argomento e le considerevoli
implicazioni filosofiche, culturali e storiche che la rilettura del colonialismo in chiave
orientalista comporta, ho ritenuto utile contestualizzare il discorso critico inquadrandolo
nell’analisi dei resoconti di viaggiatori inglesi, affidando alle loro esperienze e alle loro
descrizioni dell’India la dimostrazione di tale ideologia orientalista. Infatti l’opera intellettuale
dei primi indologi ha forgiato una concezione dell’India che è entrata a far parte del sapere
collettivo dei loro contemporanei e ha delineato una vulgata dell’India che (purtroppo)
abbiamo ereditato anche in epoca post-coloniale, in un meccanismo di introiezione culturale
le cui radici si possono far risalire proprio ai primordi del discorso orientalista.
Il saggio sarà articolato in due parti, la prima dedicata al necessario inquadramento storico-
culturale dell’Orientalismo nel suo impianto puramente teorico, mentre la seconda parte
contestualizza e palesa quanto analizzato attraverso la rilettura e la citazione di memoirs,
epistolari e resoconti di viaggio di autori inglesi, i quali a vario titolo descrivono la loro
personale immagine di India, marcata dal proprio background culturale di tipo eurocentrico.
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In particolare, nella prima parte ho ritenuto opportuno introdurre innanzitutto il pensiero di
Said, seguito poi da una panoramica sui primordi della ricerca indologica, per poi passare alla
contestualizzazione storica e filosofica di parte del periodo coloniale, per concludere infine
con una disamina di alcuni tra i principali stereotipi orientalisti sviluppatisi in ambito
intellettuale.
Riguardo al secondo capitolo, ho illustrato brevemente la letteratura di viaggio, prestando
particolare attenzione agli aspetti concernenti la narrazione dell’incontro con l’alterità,
analizzati nella critica letteraria grazie ai contributi offerti dalle ricerche imagologiche. Dopo
questo dovuto preambolo, ho rivolto la mia indagine allo studio delle testimonianze di alcuni
viaggiatori inglesi in India, cercando di trovare delle costanti comuni che potessero far
evincere come determinati stereotipi fossero speculari agli assunti orientalisti prodotti in
ambito accademico. Ho attribuito particolare importanza ai resoconti femminili, dando loro
spazio in un sotto-capitolo a sé stante, al fine di mostrare come l’esigenza di legittimazione
del Raj britannico, operata attraverso la riproposizione di pregiudizi di stampo eurocentrico in
molti testi, sia stata sentita maggiormente dagli uomini, in quanto l’esercizio del potere è stato
da sempre prerogativa unicamente maschile. È per questo che le donne dimostrano di aver
introiettato gli assunti orientalisti in misura minore rispetto agli uomini del Raj, malgrado
anch’esse siano ricadute in parte della retorica imperialista, assurgendo a simbolo principale
del sistema valoriale coloniale, in qualità di detentrici delle virtù e della morale occidentali.
Considerando il venir meno dell’obiettivo di giustificare gli interventi civilizzatori del Raj
nella mentalità femminile, reputo le loro testimonianze maggiormente scevre da paradigmi
eurocentrici rispetto alle loro controparti maschili. Ciò nonostante, resta il fatto che anche loro
fossero espressione del loro tempo, quindi si possono individuare anche nei loro resoconti
alcuni stereotipi orientalisti, con la differenza che questi appaiono più come il frutto di
suggestioni derivate dalla lettura di romanzi o di disagio e difficoltà di comprensione, che di
veri e propri progetti di legittimazione culturale dello sviluppo politico coloniale.
Non posso non esprimere il mio disappunto riguardo alla totale assenza di fonti primarie nel
sistema bibliotecario italiano, motivo per il quale non ho potuto approfondire dovutamente la
disamina dei resoconti di viaggio inglesi, dovendo optare, invece, per le raccolte delle
testimonianze presenti nelle fonti secondarie da me consultate, quasi interamente
anglosassoni.
In definitiva, pur essendo consapevole che questo studio meramente introduttivo non potrà
esaurire debitamente le tematiche affrontate, lo ritengo comunque un approccio interessante
per poter vedere il Raj britannico sotto una luce originale, dove la storia e la politica si
intrecciano con la cultura e la letteratura.
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1. L’impianto teorico dell’Orientalismo in rapporto all’ideologia coloniale
1.1. Definizione del termine Orientalismo in E. Said
L’intellettuale Edward Said con la sua opera Orientalismo. L’immagine europea
dell’Oriente
1
, ha rivoluzionato gli studi orientali, attribuendo un nuovo significato alla parola
Orientalismo. Infatti tradizionalmente il termine Orientalismo designava “l’insieme delle
discipline che studiano i costumi, la letteratura, la storia dei popoli orientali”
2
. In Said,
invece, l’Orientalismo viene indissolubilmente legato al contesto storico nel quale è nato
come disciplina accademica, andando a definire un’idea del mondo diviso in due realtà
antitetiche, Occidente e ‘Oriente’. Non a caso il termine è qui posto tra virgolette, in quanto la
concezione orientalista di un Oriente unico è quantomeno semplicistica, dato che tra loro i
paesi orientali presentano differenze tali che la sola ipotesi di raggrupparli in un’unica entità
dimostra un imperdonabile e strumentale pressapochismo.
Said associa gli studi accademici e culturali sul mondo orientale alle vicissitudini del
colonialismo europeo, rendendo interdipendenti la conoscenza e il potere. Gli intellettuali
europei del XVIII e XIX secolo, infatti, erano pienamente consci delle dinamiche politiche
che portarono all’avvento dell’imperialismo e costruirono un corpus di ideologie riguardanti
la lingua, la cultura e la storia dei popoli colonizzati. L’attività orientalistica era strutturata in
“una complessa serie di interventi conoscitivi e trasformativi con cui l’ovest dà un’identità
all’Oriente. [...] la conoscenza dell’Oriente, nata da una posizione di forza, in un certo senso
crea l’Oriente, gli orientali e il loro mondo”.
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La dicotomia tra Occidente e ‘Oriente’ rispecchia una lunga serie di paradigmi eurocentrici
che hanno caratterizzato l’approccio aprioristicamente egemone degli studiosi europei verso
l’alterità asiatica. In particolare risaltano le coppie dicotomiche moderno/antico,
civilizzato/barbaro e razionale/irrazionale, le prime attribuite all’Occidente e le ultime
all’Oriente in toto. Questi assunti eurocentrici divennero lo strumento principale per asserire
l’egemonia culturale europea, grazie alla quale gli studiosi orientalisti poterono ordinare le
culture del mondo su base gerarchica, implicando l’intrinseca superiorità epistemologica
occidentale. L’eurocentrismo, inteso come atteggiamento specifico del più ampio
etnocentrismo, prevede che la categorizzazione qualitativa delle culture presupponga una
netta distinzione tra l’Europa e l’alterità asiatica. La scoperta dell’altro orientale aveva
disorientato le credenze e le concezioni morali, sociali e culturali europee.
1
E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999 (Ed. orig. con titolo
Orientalism, Vintage Books, New York, 1978).
2
Ivi, p. 12.
3
Ivi, p. 46 (corsivo in originale).
7
La sfida rappresentata dai diversi modelli orientali pose gli intellettuali europei sulla difensiva
e li costrinse ad un’opera di categorizzazione ed ordinamento delle culture altre.
Questo processo di scoperta e contatto tra modelli culturali diversi può essere esemplificato
nel concetto di “ ‘dialogismo identitario’: un processo dinamico in virtù del quale un ente –
individuale o collettivo – cerca di definirsi per contrasto, sfruttando l’occasione offertagli
dall’incontro con l’alterità”.
4
D’altronde “il rivolgersi all’altrove è da sempre via maestra, rischiosa quanto proficua, per
definire e legittimare il qui”
5
. Il problema è che questa necessità di rapportarsi all’alterità
orientale è stata lo strumento sia di intellettuali critici dei modelli occidentali che di coloro
che strumentalmente hanno definito ontologicamente inferiori le culture orientali, proprio
grazie al confronto con il mondo europeo, confronto la cui oggettività era irrimediabilmente
minata dai paradigmi eurocentrici. Infatti “solo l’ontologicamente ‘altro’ consente [...] lo
stabilirsi delle classificazioni gerarchiche tra enti diversi, la fondazione dei primati e, di
conseguenza, la giustificazione di autentiche gabbie semiotiche di identificazione”.
6
Tornando a Said, l’Orientalismo non risulta essere un mero atteggiamento conoscitivo ed
intellettuale sull’‘Oriente’ caratterizzato da superficialità e pressapochismo, ma un vero e
proprio progetto di conquista culturale, parallelo all’avanzata della conquista politica del
colonialismo. Lo si può dunque definire come una sorta di imperialismo culturale, imposto
dall’egemonia europea.
L’‘Oriente’ venne ridotto ad un passivo oggetto di studio, da sottoporre al vaglio scientista ed
epistemologico dello studioso europeo, che vi si rivolgeva non solo non abbandonando i
propri paradigmi culturali, ma anzi basando la sua ricerca proprio su modelli che, pur estranei
all’oggetto di studio, gli venivano applicati acriticamente. In altre parole, era l’‘Oriente’ a
dover rispettare i canoni culturali del soggetto conoscitore occidentale e non il contrario,
come logicamente ci si aspetterebbe.
Questo errore di fondo nell’analisi dell’alterità asiatica, comportò tutta una serie di storture e
di interpretazioni capziose di tradizioni e modelli culturali orientali che dovevano per forza
essere riconducibili a visioni del mondo occidentali.
Il carattere scientifico dell’approccio orientalista al mondo asiatico è uno dei punti di forza di
tale dottrina, in quanto i suoi assunti erano dati per scontati perché assumevano valore di
verità e quindi difficilmente venivano messi in dubbio o articolati in maniera diversa.
4
F. Squarcini (a cura di), Verso l’India, oltre l’India, Mimesis, Milano, 2002, p.10.
5
Ibidem (corsivo in originale).
6
Ibidem.
8
Inoltre la collusione di interessi tra classe intellettuale e coloniale nel voler raggiungere il
medesimo obiettivo di controllo – culturale per i primi e politico per i secondi – negava a
priori ogni tentativo di rileggere ed eventualmente correggere ogni congettura orientalista.
Senza inoltrarci troppo nelle valide argomentazioni di Said, possiamo affermare che la sua
opera è un caposaldo nella ricerca indologica contemporanea e ha inaugurato un fitto dibattito
accademico
7
che si riallaccia a tematiche altrettanto importanti, quali il post-colonialismo e i
subaltern studies. Non pochi sono stati i critici del pensiero di Said, ma ciò nonostante, resta
il fatto che Orientalismo sia un’opera fondamentale per decostruire gli assunti e per
reinterpretare le origini degli studi orientali.
1.2. Origine degli studi orientalistico-indologici
Entrando nel merito della questione orientalistica, è doveroso fornire la contestualizzazione
storica e culturale del periodo nel quale si è sviluppato questo corpus di idee e concezioni
sull’India. Innanzitutto bisogna passare in rassegna la nascita e le prime evoluzioni degli studi
indologici in Europa, offrendo una panoramica sugli studi filologici, religiosi e storici
condotti da svariati intellettuali che, in numero sempre maggiore, si interessarono alla cultura
indiana.
L’importanza e la portata delle prime ricerche indologiche furono tali che, a partire dai primi
decenni del XIX secolo, vennero inaugurate diverse cattedre di indologia e di sanscrito presso
le maggiori università europee, tra cui spiccarono per prestigio quelle di Oxford, Parigi e
Berlino.
L’ambito preminente fu quello degli studi linguistici e filologici, che interessò i più autorevoli
intellettuali dell’epoca. Ovviamente la filologia risultò il campo di studi più rilevante, in
quanto permetteva agli indologi un approccio diretto alle fonti del sapere indiano tradizionale,
anche se, in un periodo successivo, come vedremo, alcuni studiosi non ebbero l’onestà
intellettuale di rifarsi ai testi originali nel formulare i loro giudizi sull’India, dato che non si
presero mai la briga di imparare personalmente il sanscrito e altre lingue indiane.
Ma per fortuna, almeno ai suoi primordi, la ricerca indologica mostrò una relativa accortezza
nel documentarsi sui testi originali prima di pronunciarsi riguardo alla cultura indiana. Ciò
nonostante, l’attività stessa di esegesi è intrinsecamente incline a errori interpretativi, a causa
della discordanza semantica tra termini e concetti elaborati in culture diverse.
Sulla spinta della sempre maggiore circolazione di opere tradizionali indiane in traduzione,
furono molti gli intellettuali europei che vollero analizzare e definire altri aspetti della cultura
7
Per un approfondimento dell’eredità culturale scaturita dal discorso di E. Said, si rimanda al testo M. Mellino (a
cura di), Post-Orientalismo. Said e gli studi postcoloniali, Meltemi, Roma, 2009.