2
nell’ambito dei rapporti di lavoro, non solo al di fuori dell’impresa
capitalistica ma specialmente all’interno dell’impresa privata. Questa
non doveva realizzarsi in modo indiretto ma propriamente attraverso
la partecipazione responsabile, deliberativa o almeno consultiva, alla
gestione dell’impresa privata, ossia in qualche modo
“socializzandola”.
Il tema della cogestione è stato oggetto di un vasto dibattito, con
connotazioni prevalentemente sociali e politiche, per essere stato
questo argomento un punto di scontro e di incontro tra politici ed
intellettuali della provenienza più diversa e secondo aggregazioni
talora inattese che fanno intuire come spesso si dia allo stesso termine
contenuto assai diverso.
Lo scopo principale di questo lavoro è di riprendere, dandone
dei nuovi e più adeguati connotati, un tema che in certi momenti ha
simboleggiato speranza di sviluppo e prosperità economica non
dimenticandosi però dell’elevazione sociale del cittadino inteso
nell’accezione più alta della sua personalità. In un panorama così
eterogeneo si è cercato di fornire alcune essenziali chiavi di lettura e
indispensabili indicazioni onde consentire, dopo uno studio
approfondito, un’analisi attenta e critica in modo da riproporre, nel
3
caso in cui si presentino le giuste condizioni, una soluzione al
problema economico che attanaglia in questi tempi le imprese,
ostacolandone la florida espansione.
Deve confidarsi il fatto che si tratta di un istituto giuridico che
non ha avuto attuazione in Italia ma ha avuto molteplici attuazioni,
integrali o parziali, nei paesi europei e rispetto al quale si pongono
problemi non semplici di qualificazione giuridica, di distinzione da
figure apparentemente affini (autogestione, azionariato operaio,
commissioni interne) e del quale controversi sono i contenuti (potere
di decisione, diritto di controllo, di informazione, di consultazione
preventiva, ecc.); vi è inoltre il problema della titolarità del diritto ed
altresì il nesso davvero molto stretto con la stessa natura dell’impresa
oltre che, beninteso, con i poteri dell’imprenditore.
Data l’evidente connessione di molti dei cennati problemi si è
cercato di inquadrare il tutto cercando di vederlo da una visione
pubblicistica del diritto, secondo un percorso logico-cronologico ma
avente sempre come via maestra l’articolo 46 della Costituzione,
norma complessa e complicata per il difficile e “ostruzionistico” iter
che l’ha caratterizzata.
4
Dopo una introduzione storica con i primi approcci alla materia
partecipativa, si è cercato di documentare le linee fondamentali
secondo le quali il dibattito si è sviluppato, soffermandosi
particolarmente sul significato che ha permeato la norma
costituzionale, ricordando l’esperienza dei “consigli di gestione”,
diversi dalla cogestione sebbene, secondo alcuni autori, con questa
identificata. Il dibattito politico svoltosi nell’Assemblea, nella III
sottocommissione nell’ottobre del 1946 e nel maggio del 1947, è
sembrato tuttora indispensabile per comprendere il clima nel quale la
norma era stata ideata, ancorché la stessa Costituzione abbia vissuto in
questi anni e si sia arricchita di contenuti spesso molto diversi rispetto
a quello che avevano concepito i nostri costituenti (gli artt. 39 e 40 ne
sono una dimostrazione). Fatto sta che qualsiasi ricostruzione
sistematica dell’istituto non può prescindere dal dato fornito da quei
lavori preparatori, con riferimento dell’art. 46 ai principi
d’uguaglianza, al principio lavorista e dello sviluppo del lavoratore e
al principio dell’intervento pubblico in economia.
I richiami della giurisprudenza sono particolarmente esigui ed
estemporanei, trattandosi di norma meramente programmatica.
5
Altra documentazione è quella riguardante i disegni di legge
formulati in Italia. Alla fine si è dato un panorama dei diversi
interventi dottrinari e politici secondo le diverse tendenze.
Utile è parso, inoltre, non tanto un excursus nella legislazione
straniera, ma attingere un riferimento diretto dalla Costituzione
Francese della V Repubblica ed in particolare dal Preambolo della
stessa. Giustificazione di questa presa di posizione va cercata in un
periodo di studi trascorso in Francia (presso l’Universitè de Savoie)
durante il quale è stato possibile approfondire direttamente il tema.
Dopo oltre 50 anni, una norma inapplicata
Nel dibattito sviluppatosi in Assemblea Costituente, le varie
correnti ideali si preoccuparono non solo e non tanto di tradurre in
norma costituzionale i principi che ridiscendevano dalle rispettive
ideologie, quanto di «ricercare punti d’incontro con altri gruppi», per
cui si pervenne alla formulazione ed approvazione di una norma
costituzionale (che era l’emendamento sostitutivo proposto dagli
onorevoli Gronchi, Pastore, Storchi e Fanfani) che è stata, a caldo,
definita ambigua, non concretamente praticabile, lontana dalla
6
progettualità morandiana, tributaria per metà della figura e della
ideologia dei consigli operai, secondo l’immagine gramsciana, e per
metà della diversa struttura collaborativa, di tipo vagamente
corporativo, ispirata dal generale principio dell’art. 165 della
Costituzione di Weimar.
Il testo definitivo dell’art. 46 della Costituzione (già art. 43 del
progetto, discusso ed approvato nella seduta del 14 maggio 1947) così
recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in
armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il
diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle
leggi, alla gestione delle aziende». Questa norma raccoglie
sostanzialmente l’altra, forse più categorica, approvata all’unanimità
dalla terza Sottocommissione per la Costituente nella seduta dell’11
ottobre 1946, e che recitava: «Lo Stato assicura il diritto dei lavoratori
di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera.
La legge stabilisce i modi e i limiti di applicazione del diritto».
Dopo più di cinquant’anni, la norma costituzionale non ha
ancora ottenuto la sua attuazione attraverso una legge ordinaria; la
possibilità del controllo della gestione, presupposto per una più piena
partecipazione ai risultati della produzione, non ha trovato ingresso
7
nel nostro diritto positivo, malgrado il processo di trasformazione
della struttura aziendale in senso collaborativo e partecipazionistico
abbia registrato una netta evoluzione e concrete fasi di attuazione in
campo europeo.
Vi è chi, a prescindere dalle vicende politiche, critica per
imprecisione la formula adottata dal costituente
2
, posto che ben
diversamente sia l’art. 165 della Costituzione di Weimer, sia gli artt.
17 e 18 della Costituzione di Bonn erano nel senso della “cogestione
delle maestranze”. In Italia, invece, sia il D.P.C.M. 27 novembre 1947
(G.U. 2 dicembre 1947 n. 277, p. 3553) che istituiva una commissione
di studio per l’attuazione dell’art. 46 non aveva alcun esito, sia il
progetto di legge Morandi non era approvato. Stessa sorte sarebbe
toccata nel seguire degli anni ad altri disegni di legge.
D’altra parte non può dimenticarsi che l’ordinamento
costituzionale afferma il diritto-dovere del lavoro, lo tutela nelle sue
varie forme, si preoccupa di garantire sicurezza sociale, impone
all’attività pubblica ed a quella privata degli obiettivi sociali proprio
attraverso le articolate affermazioni di principio contenute negli artt.
da 41 a 47, ma non attua una scelta chiara e netta fra sistema
2
BARILE, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Cedam, Padova, 1953, pag. 147
8
economico capitalista (liberale) e sistema collettivista (socialista)
3
.
Questa indeterminatezza di sistema, tuttavia deve essere valutata entro
limiti rigorosi: le diverse possibili soluzioni alla questione sociale per
essere costituzionalmente legittime devono per un verso tutelare le
esigenze sociali dell’individuo, ma al contempo devono iscriversi
armonicamente in una reale democraticità dell’ordinamento.
A differenza degli artt. 39 e 40, l’articolo 46 non ha neppure
avuto una validità di fatto, e questo in quanto, nello svolgimento delle
vicissitudini sindacali, è stato riguardato da entrambe le parti sociali
con un atteggiamento sostanzialmente di sfiducia. Gli imprenditori
hanno temuto di vedere ridotta la loro autonomia organizzativa
nell’impresa, i sindacati hanno avuto la preoccupazione che il
coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte imprenditoriali potesse
minare la loro combattività in sede di conflitto.
Tuttavia, periodicamente e con alterne vicende corrispondenti
alla situazione di prevalenza di una delle parti, non si è mancato di
invocarne l’applicazione concreta pur essendo evidente che proprio
tale situazione induceva l’altra ad una difesa ad oltranza della
situazione di stallo.
3
LAVAGNA, Costituzione e socialismo,Il mulino, Bologna, 1977
9
ORIGINE DEL FENOMENO E LA SUA EVOLUZIONE
STORICA FINO ALLA COSTITUZIONALIZZAZIONE
DEL PRINCIPIO
1.1 Precedenti storici
In un primo approccio ai problemi connessi alla partecipazione
dei lavoratori al processo produttivo dell’impresa, non può
prescindersi da un ricognitivo panorama del pensiero politico-sociale
del secolo scorso ed esattamente dell’epoca in cui cominciarono a farsi
strada, con maggiore frequenza e convinzione, non solo talune teorie
ma anche timide ed atipiche forme di concreta partecipazione.
Se si attribuisce al termine partecipazione il significato
mazziniano «capitale e lavoro nelle stesse mani»
1
, si può affermare che
1
In merito, va ricordato un passo di Mazzini non molto noto: «Il riordinamento del lavoro sotto la
legge dell’associazione sostituito all’attuale del salario sarà la base del mondo economico futuro, e
implica che un capitale indispensabile all’impianto di lavoro e alle anticipazioni necessarie debba
raccogliersi nelle mani degli Operai associati. Questo avverrà per vie diverse.Tra queste vie una che
per opera dei buoni delle classi medie potrebbe condurre all’intento è quella d’ammettere i
produttori artigiani alla partecipazione degli utili dell’impresa. Esperimenti di questo genere
furono, sin dal 1830, tentati e riuscirono; provarono una verità economica troppo negletta, che per
aumentare la somma della produzione non basta di aumentare la richiesta o di trovare nuove
sorgenti al lavoro, ma è necessario aumentare il valore produttivo di ogni individuo e che questa
10
essa si realizzava nell’era pre-industriale con la piccola impresa a
conduzione familiare, mentre con l’avvento della rivoluzione
industriale, l’operaio, il vero produttore, rimase estraneo al prodotto
del suo lavoro.
Lo sviluppo della grande industria, dopo il tramonto delle
corporazioni artigiane nelle quali il rapporto di lavoro assumeva un
carattere essenzialmente associativo, aveva spezzato definitivamente i
rapporti di proprietà tra l’operaio e l’apparato di lavoro, provocando la
netta separazione sul piano morale e giuridico tra lavoratori e portatori
di capitale.
1.2 Le prime forme partecipative
Come già in tempi non sospetti una lucida ed attenta riflessione
di Mazzini aveva evidenziato, negli anni seguenti, si cominciò sempre
più a rafforzare la prospettiva partecipativa.
attività produttrice aumenti in ragione diretta della parte che gli è concessa nei frutti della
produzione: il lavoro libero produce più del lavoro servile e nelle condizioni attuali l’operaio che,
senza interesse alcuno materiale o morale nei risultati della produzione non dà, se non quel tanto di
lavoro necessario a rivendicargli il salario pattuito, ha dalla compartecipazione sprone a produrre
maggiormente e meglio». (G. MAZZINI, Interessi e principii, Bompiani, 1944, pagg. 274-275)
11
Sull’onda delle prime costituzioni ed associazioni sindacali,
delle prime rivendicazioni operaie, si tentò, tra l’altro, di proporre un
preistorico ed acerbo modello partecipativo.
Il movimento, manifestatosi tra la fine del secolo XIX e l’inizio
del XX, tendeva a rendere le forze lavoratrici maggiormente
interessate al processo produttivo e, nello stesso tempo, ad instaurare e
legalizzare nella fabbrica un regime di virtù del quale l’operaio e
l’impiegato non fossero considerati più semplici strumenti alla mercé
dell’imprenditore ma fossero invece garantiti, tramite la mediazione di
particolari organismi rappresentativi, contro il suo arbitrio.
I rappresentanti dei lavoratori avrebbero dovuto svolgere una
duplice azione, sul piano sindacale vero e proprio e su un piano
diverso (e anche nuovo per la storia delle forze del lavoro), essendo
autorizzati, per esempio, a suggerire agli imprenditori quegli
accorgimenti tecnici che l’esperienza dell’operaio che vive accanto alla
macchina, consiglia al fine di aumentare la produzione e migliorarne la
qualità. Tale movimento delle forze lavoratrici trova la sua prima
sanzione in liberi accordi tra le parti.
In Italia si riscontrano le prime convenzioni del genere già nel
1906: i Consigli di fabbrica. Ma queste prime intese pongono l’accento
12
quasi esclusivamente sull’aspetto sindacale del problema, tralasciando
quello della partecipazione al processo produttivo.
1.3 La relazione Carli del 1917
Nonostante tutto, però, qualcosa sembrava essersi smosso, suscitando
intorno al problema i primi veri interessi e determinando utili
interventi.
In una relazione, approvata nella seduta del 22 novembre 1917
dal Consiglio camerale della Camera di Commercio di Brescia, il prof.
Filippo Carli scriveva: «La borghesia scherzava col fuoco quando
elargiva a larghi strati della popolazione, e cioè ai lavoratori, delle
libertà politiche senza dar loro nel contempo un adeguato contenuto
economico».
Il prof. Carli dopo aver rimproverato la classe imprenditoriale e
conservatrice di avere il torto di aver trattato con criteri unilaterali il
problema dei suoi rapporti con il lavoro dal punto di vista economico,
individuava nella partecipazione degli operai alle imprese attraverso
l’azionariato sociale, la sola via della soluzione per eliminare la
«materia dei conflitti» ammonendo che «se le classi dirigenti hanno
13
qualche incertezza, qualche ondeggiamento nell’applicazione di questo
principio, sono perdute»
2
.
Il problema dei rapporti tra capitale e lavoro cominciava dunque
ad essere visto non soltanto come una questione di distribuzione del
reddito; veniva infatti focalizzato il contrasto di poteri che imponeva la
necessità di individuare una formula idonea a conciliare gli opposti
interessi delle parti in lotta.
A parte i tentativi di qualche “spirito illuminato”, fu l’asprezza
della lotta che fece profilare qua e là proposte di concessioni da parte
imprenditoriale sotto forma di partecipazione agli utili. Lo spirito di
protesta proletario era la cruda espressione del dissidio che appariva
insanabile tra capitale e lavoro.
Era questa la situazione economico-sociale anche in Italia nel
periodo immediatamente antecedente all’avvento del fascismo: per i
detentori di capitale ogni rinuncia a posizioni di preminenza
rappresentava una capitolazione mentre i lavoratori, anche sull’onda
2
Nello stesso opuscolo era riportato il seguente ordine del giorno approvato nella seduta del 28
febbraio 1918 dal Consiglio della predetta Camera di Commercio: «La Camera di Commercio di
Brescia – presa in esame la relazione del Segretario sulla partecipazione degli operai alle imprese;
ritenendola rispondente ai principi di massima, ai quali si informano i voti già espressi nel prendere
in esame altri studi sull’organizzazione dell’industria nel dopoguerra dal punto di vista dei rapporti
tra capitale e lavoro; ammettendo che il lavoro – fattore principalissimo della produzione e del
conseguente benessere economico – non occupa ancora un posto degno accanto agli altri fattori del
benessere sociale; convinta che la partecipazione degli operai alle imprese può creare l’armonia tra
14
della rivoluzione russa
3
, premevano per un mutamento radicale
dell’ordine economico e sociale esistente.
L’inquietudine del dopoguerra accantonò definitivamente i
pacati modelli dell’Italia umbertina e registrò decise spinte verso nuovi
esperimenti legislativi.
1.4 Tentativo di Giolitti per istituire il controllo sulle industrie da
parte dei lavoratori
La dannunziana Carta del Carnaro, promulgata a Fiume l’8
settembre 1920 (alla cui stesura partecipò il sindacalista Alceste De
Ambris) che in parte si basava sulla socializzazione dei mezzi di
produzione, e il movimento per i Consigli di fabbrica (o degli stessi
consigli operai, secondo l’immagine ideologicamente fornitane da
Gramsci e da “Ordine Nuovo”), culminato nell’occupazione delle
fabbriche soprattutto a Torino, probabilmente convinsero l’allora
queste due classi; fa voti che per opera saggiamente innovatrice del legislatore sia senza indugio
applicata in Italia la partecipazione degli operai alle imprese nella forma più radicale completa».
3
Ruolo determinante per l’interessamento del legislatore a cimentarsi al problema della
partecipazione è svolto dalla Rivoluzione russa. Ma il moto ascensionale dei lavoratori russi
assume un aspetto nuovo ed imprevisto. Esso infatti non si limita a richiedere la partecipazione dei
lavoratori alla gestione delle imprese, ma pretende di mutare radicalmente l’ordine esistente e di
sostituire all’imprenditore privato la collettività dei lavoratori. La partecipazione dei lavoratori si
profila così come strumento di socializzazione e questa socializzazione rappresenta a sua volta solo
una tappa sulla via della nazionalizzazione; già nel 1918, infatti, i consigli operai videro ristrette le
15
Presidente del Consiglio on. Giolitti ad istituire con decreto del 19
settembre 1920, una commissione paritetica formata dai rappresentanti
dei lavoratori e dei datori di lavoro avente l’incarico di formulare un
progetto di legge per il controllo operaio delle imprese.
Il contributo al dibattito che ne seguì fu offerto anche da forze
diverse da quelle socialiste: esso si proponeva l’obiettivo di un
rafforzamento delle commissioni interne esistenti fin dai primi anni del
secolo ma in perenne situazione di debolezza di fronte al ruolo
imprenditoriale.
È giusto sottolineare che se la proposta di Gramsci di
ristrutturare le commissioni interne, secondo la logica marxiana, fallì,
anche perché avversata da quanti temevano che esse avrebbero
soppiantato i sindacati, è doveroso ricordare che Vittorio Emanuele
Orlando si disse convinto «di non ravvisare gravi deformazioni dei
diritti dei proprietari con l’introduzione di forme di controllo operaio
sulle fabbriche
4
».
loro funzioni che, con l’assunzione della gestione diretta delle industrie da parte dello Stato,
rimasero puramente consultive.
4
Intervista su Il Giornale d’Italia del 26 ottobre 1920