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Introduzione
Il tema della partecipazione dei cittadini alle scelte delle amministrazioni pubbliche
locali sta assumendo un carattere sempre più diffuso, sia nelle pratiche di governo, sia,
forse in misura ancora maggiore, nei dibattiti degli studiosi. Da una decina d’anni a
questa parte è stata infatti pubblicata una mole immane di ricerche sull’argomento, con
opinioni varie e spesso in aperto contrasto fra loro. Secondo i più scettici ci si troverebbe
dunque di fronte, più che altro, ad un “concetto ombrello” di gran moda, che raggruppa al
suo interno una congerie di fenomeni anche assai distanti fra loro, in gran parte
preesistenti e non del tutto innovativi, o comunque con scarsa rilevanza effettiva.
Non si può tuttavia non notare il reale mutamento che ha interessato il sistema
amministrativo, a partire dai primi anni ’90. Da allora, infatti, a causa di fenomeni quali
la necessità del contenimento della spesa pubblica, i processi di globalizzazione e la
conseguente competizione fra ambiti territoriali, la crisi delle ideologie, delle strutture
portanti della tradizionale democrazia rappresentativa, del welfare state keynesiano e
delle identità di classe, hanno comportato una serie di mutamenti nel governo delle città.
La diversificazione dei bisogni, che non trovano più adeguata risposta nelle politiche di
stampo tradizionale, e la crescente insoddisfazione nei confronti della “vecchia politica”
lontana dalla gente, hanno portato da un lato ad un nuovo protagonismo della società
civile, e dall’altro ad una necessità da parte delle stesse amministrazioni di integrare tali
spinte all’interno del policy-making, per meglio rispondere alle mutate situazioni.
Dalle prime forme di coinvolgimento, rivolte in primo luogo a quei soggetti che
potessero contribuire con le loro risorse al mero contenimento della spesa pubblica, il
processo di apertura dei confini della politica si è poi spinto via via sempre oltre, sino a
configurare un vero e proprio passaggio di paradigma, da government a governance, da
una visione tradizionale di politica basata sul soggetto decisore ad una attenta al processo
di decisione. La forma che più si spinge oltre in questa direzione, tanto da rappresentare
una significativa rottura con il classico sistema rappresentativo, è quella della democrazia
partecipativa, che configura l’integrazione di tutti coloro siano interessati nel policy-
making locale. A tale accezione è rivolta l’attenzione di questa tesi.
Sembrerebbero due i maggiori contributi delle forme condivise di decisione: da un lato
il miglioramento della qualità democratica, dall’altro la formazione di capitale sociale.
Per quanto riguarda il primo punto, si sottolinea come una maggiore inclusione dei
cittadini, e un loro maggiore controllo e partecipazione a quanto accade tra un’elezione e
l’altra, comportino una più elevata qualità democratica di quanto non avvenga con una
cittadinanza passiva, che si limita ad accettare o al limite a protestare per le decisioni
prese dai rappresentanti. In questo modo sarebbe possibile non solo internalizzare i
possibili conflitti, ma soprattutto garantire decisioni più efficaci, dato il contributo della
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razionalità sociale di associazioni e cittadini che nelle situazioni oggetto di scelta ci
lavorano e ci vivono, conoscendole quindi meglio dei politici.
Al di là delle decisioni effettivamente prese e implementate, poi, si attribuisce grande
valore al processo stesso, nel corso del quale si verrebbero a creare reti di relazioni
altrimenti di difficile formazione, o quantomeno si troverebbero ad essere amplificate e
razionalizzate quelle già esistenti sul territorio. Cosicché la partecipazione è vista come
occasione per incrementare il capitale sociale a livello sia individuale, sia associativo, sia
di comunità locale, facendo incontrare le persone ma anche mettendo allo stesso tavolo
associazioni che altrimenti si richiuderebbero in particolarismi e frammentazioni o
semplicemente non si conoscerebbero. Il che è importante anche per rinsaldare un
sentimento comunitario e di legame al territorio in tempi di soggettivismo, chiusura e
perdita di radici, e soprattutto in quei “quartieri dormitorio” periferici che dalla
partecipazione attiva dei cittadini possono forse essere in qualche modo migliorati.
Proprio al possibile contributo che tali forme di democrazia possono apportare ai
quartieri periferici è dedicato il presente lavoro, con particolare riferimento alla zona
genovese della Valbisagno, nell’ipotesi che l’applicazione in situazioni “difficili” possa
gettare maggiormente luce sulle concrete capacità di una simile strumentazione di
ottenere risultati significativi. Da più parti si sostiene ormai che il cosiddetto “fallimento
delle periferie” sia da imputare a fattori tanto edilizi quanto sociali e politici, che possono
e devono essere analizzati e risolti congiuntamente solo abbandonando la razionalità
tecnico-burocratica ed iperspecializzata sinora utilizzata, in favore della presa in
considerazione del sapere locale degli abitanti. Inoltre, proprio in quanto rivolta in primo
luogo ad uscire dai canoni della politica elitistica per dare voce a chi non ce l’ha, a partire
dalle fasce più deboli escluse dalla rappresentanza, la democrazia partecipativa ha mosso
i suoi primi passi proprio con esperimenti atti a migliorare le condizioni di vita nelle
periferie urbane. Si sottolinea in particolare come simili strumenti, mettendo a lavorare
insieme individui normalmente isolati e fornendo loro una capacitazione e una palestra di
democrazia, possano essere in grado di incrementare il capitale sociale e umano dei
partecipati, andando ad influire positivamente sull’area coinvolta nel suo insieme. La
possibilità di incrementare l’insieme di relazione sociali disponibili in un’area, soprattutto
in aree particolarmente deprivate da questo punto di vista, sembra tuttavia spesso un
presupposto indimostrato, quasi che bastasse la disponibilità istituzionale ad aprirsi al
contributo della società civile per far nascere in modo automatico partecipazione,
cooperazione e legami significativi. La tesi si propone di indagare, quindi, in un caso
concreto di democrazia partecipativa a livello di quartiere periferico, i giudizi dati dagli
interessati a proposito del processo cui hanno preso parte, con particolare riferimento
proprio alla qualità del policy-making da un lato, e alla disponibilità di relazioni a seguito
di questo dall’altro.
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Il lavoro è composto di tre parti, due di carattere teorico ed una di carattere empirico.
La prima intende indagare il percorso di trasformazione che avrebbe portato alle
sperimentazioni attuali, e in cosa queste differiscano dalla situazione precedente. In
particolare il capitolo 1 ripercorre i vari passaggi storici che hanno portato all’abbandono
del modello razionale e top-down di amministrazione in direzione di varianti sempre più
inclusive, sino all’approdo al cambio di paradigma da government a governance e alla
modalità più radicale all’interno di quest’ultima, quella partecipativa. Il secondo, terzo e
quarto capitolo si occupano, invece, di analizzare cosa distingua i nuovi strumenti
condivisi da quelli tradizionali di, rispettivamente, partecipazione politica, governo locale
e pianificazione urbanistica.
Questo conduce alla seconda parte, che è dedicata all’approfondimento più specifico
della democrazia partecipativa, in particolar modo con il capitolo 5. In esso si indagano,
da un lato, le motivazioni storico-politiche che avrebbero portato all’instaurarsi di questo
tipo di sperimentazioni, sia dal lato amministrativo che da quello sociale, e ai fondamenti
teorici che vi stanno dietro. Fra questi sono stati presi in considerazione i più importanti,
come in primo luogo la teoria dell’agire comunicativo di Habermas e i suoi contatti con
quelle di derivazione liberale sulla deliberazione pubblica (Elster), ma anche gli apporti
legati ad ottiche di democrazia sostanziale all’interno di percorsi di sviluppo sostenibile,
come quella di Beck e quella territorialista in ambito urbanistico. Sono inoltre presi in
considerazione i punti di contatto e le più grandi differenze fra tale dimensione
partecipativa-deliberativa e le più classiche forme di decision-making legate a votazione e
negoziazione, tentando di considerare i processi deliberativi per come si verificano nella
realtà piuttosto che nelle aspirazioni ideali dei sostenitori del mutamento. Con queste
premesse si cercherà poi di considerare come le varie forme di partecipazione siano
compatibili o meno con la democrazia rappresentativa, e come si propongano di
affiancarla, migliorarla o semplicemente soppiantarla.
Non esiste infatti un solo modello ed una sola definizione di cosa debba essere la
democrazia partecipativa, e per questo si sono mostrate nel settimo capitolo le varie
accezioni del termine partecipazione che circolano, collegandole, in base all’esperienza
genovese e alla letteratura, ai vari attori che le sostengono, e a come questo possa causare
seri problemi nell’attuazione di una cosa percepita come sostanzialmente diversa a
seconda degli attori. A questo proposito il fattore discriminante si rivela il ruolo che la
politica riserva per sé all’interno del processo decisionale, al grado di apertura e alla
delega di poteri che è pronta a riconoscere ai nuovi soggetti. Il sesto capitolo si occupa
poi dello stretto legame esistente fra logica bottom-up sociale e territoriale, ossia fra
partecipazione dal basso e nuovo protagonismo dei livelli più bassi di governo, e
dell’intreccio fra sussidiarietà orizzontale e verticale. L’ottavo, infine, prende in
considerazione più da vicino i principali contributi riconosciuti alle pratiche inclusive,
vale a dire miglioramento della qualità democratica, in tutte le sue sfaccettature, e
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incremento del capitale sociale, con particolare attenzione al dibattito, importante per le
zone che ne sono scarsamente dotate come le periferie, sul ruolo di causa o di effetto che
questo può avere nei confronti della cooperazione partecipativa.
La terza ed ultima parte è quella dedicata alla ricerca empirica. Per indagare i risultati
delle sperimentazioni di democrazia rappresentativa si è scelto come studio di caso quello
della zona periferica genovese della Valbisagno (che pare essere all’avanguardia in
proposito rispetto al resto della città), e in particolare quella che è generalmente
riconosciuta come un’esperienza di successo, nel quartiere di S.Eusebio-Mermi-
Montesignano. Dopo aver ripercorso nel nono capitolo da una parte il rapporto fra la città
di Genova e le sue periferie, e dall’altra le pratiche condivise in atto, prestando una
speciale attenzione a quelle sviluppate in Valbisagno, negli ultimi due capitoli si sviluppa
la ricerca. Il capitolo 10, dedicato interamente all’esperienza di S.Eusebio, è suddiviso in
tre parti. Dopo aver inquadrato il quartiere, i suoi pregi e problemi, e aver ricostruito
l’esperienza partecipativa nei suoi sviluppi, nella seconda parte si fa una prima analisi
descrittiva dei partecipanti agli incontri principali del Gruppo di Lavoro. Si è lavorato
dunque sui dati estratti dai verbali di tali riunioni, sulla base dei quali si è cercato di
ricostruire una mappa dei legami sociali sviluppatisi al loro interno con l’ausilio della
tecniche matriciali della network-analysis, per indagare in particolare la centralità dei vari
attori all’interno della rete, fra i quali si è scelto di privilegiare quelli di carattere
associativo ed istituzionale. Nella terza parte si è proceduto poi ad un primo esame del
giudizio di coloro che, fra i partecipanti a tali riunioni, sono risultati essere i più assidui,
tramite somministrazione a coloro che avessero preso parte ad almeno la metà degli
incontri di un questionario strutturato, nel quale erano presenti domande atte a rilevare i
dati socio-anagrafici degli intervistati accanto ad altre utilizzate per indagare il numero di
persone e gruppi frequentati precedentemente e in seguito all’introduzione di strumenti
partecipativi e il giudizio dato all’esperienza in generale e a singoli suoi aspetti. L’ultimo
capitolo è invece dedicato all’approfondimento qualitativo di cosa pensino partecipanti ed
amministratori non solo con riferimento alla sola esperienza di S.Eusebio, ma alla
partecipazione nella Valbisagno nel suo complesso. Si è scelto di utilizzare interviste non
strutturate allo scopo di lasciare esprimere il più liberamente possibile gli intervistati sui
temi che stavano loro più a cuore, e di coinvolgere anche soggetti esclusi dal processo per
ottenere visioni differenziate e non di parte sul giudizio che gli attori dell’area in
questione danno della democrazia partecipativa in generale, e del suo contributo al
miglioramento delle periferie in particolare.
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PARTE I
GOVERNANCE, PARTECIPAZIONE,
CITTADINANZA ATTIVA
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1. Il cambio di paradigma: da government a governance
1.1 La crisi del modello tradizionale di amministrazione
Il modello di amministrazione cui convenzionalmente si pensa fa riferimento al
paradigma razionale-burocratico. Secondo una tale concezione, le decisioni riguardanti la
cosa pubblica vengono prese all’interno delle strutture dell’attore pubblico ad ogni
livello, il quale, in base agli input provenienti dalla società civile, elabora le politiche che
ritiene opportune in totale isolamento dalla società civile stessa, sulla base di criteri
tecnico-scientifici e soprattutto del mandato popolare che lo erge a rappresentante unico e
legittimo della cittadinanza di riferimento. Una volta portata a termine questa fase, tali
politiche vanno poi implementate, nel caso dei servizi pubblici, da parte di enti sottoposti
sempre nell’ambito del settore pubblico, secondo una rigida catena gerarchica. Una
visione top-down di questo genere presuppone che gli anelli funzionalmente o
territorialmente più bassi siano meri esecutori delle decisioni provenienti dal centro,
mentre il versante privato e i cittadini non hanno voce in capitolo. La separazione fra
pubblico e privato è netta: da una parte sta tutta una serie di attori pubblici monolitici
nella loro veste di policy-makers, dall’altra il settore privato, che funziona secondo
logiche totalmente estranee e separate. I cittadini, in mezzo a tale dualismo
pubblico/privato, non sono che destinatari passivi (policy-takers) delle decisioni prese
dall’autorità, e utenti di servizi progettati dall’alto su quelli che sono considerati i loro
bisogni. Essi non hanno alcuna influenza sulle scelte politiche, salvo nelle tornate
elettorali o a meno di non costituirsi in lobby più o meno potenti, e possono
semplicemente limitarsi a protestare una volta che queste siano state prese. In caso di
scontento, essi sono in grado di fare affidamento unicamente, nella terminologia di
Hirschman [1982], alla voice, essendo loro preclusa, trattandosi come nota Lipsky [1980,
56] di non-voluntary clients, la strategia dell’exit, salvo nei casi in cui possano rivolgersi
al privato per soddisfare le proprie necessità.
Guardando alle effettive modalità di policy-making diffuse in particolar modo a livello
locale, si può però vedere quanto tale modello, se davvero ha mai avuto effettiva
applicazione, è divenuto ad ogni modo sempre più un’eccezione. Le amministrazioni
pubbliche si trovano oggi di fronte a un importante stimolo al cambiamento, dovendo far
fronte a una complessità istituzionale, sociale ed economica caratterizzata dalla
diversificazione delle issues, ma nello stesso tempo dalla loro forte interdipendenza. I
mutamenti della struttura economico-produttiva seguiti alla crisi del fordismo, la
flessibilizzazione e de-standardizzazione dei rapporti di lavoro e la diversificazione degli
ambiti di lavoro, con il conseguente appannamento dei riferimenti di classe, l’aumento
della speranza di vita e di stabili popolazioni immigrate, le forti interdipendenze tra
molteplici attori (nazionali ed internazionali) dovute ai processi di globalizzazione, e
svariati altri fattori, hanno spinto verso un progressivo aumento di richieste alle
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amministrazioni, per rispondere adeguatamente a bisogni sempre più diversificati che
l’attore pubblico arroccato su se stesso farebbe fatica a riconoscere. Per di più, tutto ciò è
avvenuto in una condizione di risorse scarse, nella quale da due decenni gli appelli al
contenimento della spesa pubblica hanno portato all’abbandono del vecchio welfare state
keynesiano, in favore di forme più leggere nelle quali anche il settore privato contribuisce
all’erogazione di servizi di pubblica utilità.
Si nota quindi come sia sempre più raro che una scelta pubblica non implichi il
coinvolgimento di diversi attori, istituzionali e non, soprattutto quando ci si trova di
fronte alla nuova generazione di politiche integrate, le quali mirano ad affrontare
simultaneamente diverse facce di un problema che un tempo sarebbero state gestite
separatamente. Le amministrazioni devono infatti fare i conti sempre più frequentemente
con due ordini di questioni strettamente connesse: da un lato la complessità e
l’interdipendenza dei problemi, dall’altro la pluralità dei soggetti che hanno qualche voce
in capitolo sulla materia del contendere. Seguendo i precetti del modello razionale, le due
questioni andrebbero considerate separatamente: la prima suddividendo funzionalmente i
vari problemi secondo una logica di iper-specializzazione; la seconda disegnando
istituzioni unitarie e isolate dagli interessi privati. In realtà sembra che, quanto più i temi
sono complessi, tanto maggiore è il numero di gruppi virtualmente coinvolti, e viceversa
l’ingresso di nuovi attori introduce ulteriori dimensioni all’analisi.
Accade dunque sempre più di frequente di trovarsi di fronte a politiche pubbliche che
non possono essere messe in atto senza un’attiva partecipazione dei destinatari o di altri
soggetti, e nelle quali, quindi, una netta separazione tra i decisori e i riceventi rischia di
essere del tutto inefficace. Capita sempre più spesso che un sindaco o un assessore,
trovandosi di fronte a una questione complessa, decida di convocare i soggetti interessati,
di avviare le trattative per un accordo di programma, di riunire diversi partner, di
coinvolgere le associazioni che operano in un quartiere o anche i comuni cittadini che vi
risiedono [Bobbio 2004a]. Aumentano così i casi in cui le amministrazioni «agiscono
come parti di un contratto piuttosto che come “decisori unici”. Alcune scelte pubbliche,
che un tempo venivano compiute unilateralmente (sulla base di criteri legali o tecnico-
scientifici), ora sono rimesse a un negoziato condotto in forma bi- o pluri-laterale»
[Bobbio 2000, 111; 2006a]. In questi casi il processo messo in atto viene da più parti
definito inclusivo, nonostante i limiti di tale termine che si vedranno più avanti, perché
esso cerca, appunto, di includere un certo numero (più o meno ampio) di soggetti
interessati a quel problema e di farli partecipare alle scelte. La forma di cui intendo
occuparmi qui è quella che più pare allontanarsi dal modello tradizionale di governo
urbano, vale a dire quella galassia di trasformazioni che vanno ora sotto il nome di
democrazia partecipativa, ora di deliberazione, e che hanno visto una vera e propria
esplosione negli ultimi anni. Insieme ad essa, e prima di arrivare ad essa, hanno aperto la
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strada e tuttora convivono modelli assai distanti fra loro, accomunati spesso solo dal fatto
di non essere più ascrivibili alla politica come si era abituati a pensarla.
La scelta di “aprire i confini della politica” [Beck 2000], che sembra confliggere con
alcuni dei principi su cui si fondano le democrazie contemporanee, è molto spesso
compiuta volontariamente e informalmente da un amministratore pubblico, che ritiene
utile allargare la platea dei decisori e responsabilizzarli. Talvolta, però, è addirittura
incoraggiata dalla legge. Ormai da anni, infatti, in Italia le norme prevedono conferenze
di servizi, accordi di programma o i diversi istituti che passano sotto il nome di
programmazione negoziata. Il coinvolgimento delle associazioni e dei cittadini è poi
previsto in numerosi programmi di riqualificazione urbana, come i contratti di quartiere, e
i piani di zona sono esplicitamente previsti dalla legge-quadro sulle politiche sociali.
Anche l’Unione Europea ha dato un fortissimo impulso in tale direzione. Si tratta quindi
di un fenomeno non certo marginale, anche se presenta infinite sfumature o vere e proprie
contrapposizioni al proprio interno. Ricorre sempre più frequentemente l’idea di una
necessità di aprire “tavoli di discussione”, ma la natura di tali tavoli, e le regole che
devono guidare la discussione, appaiono tutt’altro che univoche. Le procedure vengono
definite a seconda dei casi concertazione, partenariato, partecipazione, deliberazione,
consultazione o negoziazione, e i risultati sono chiamati accordi, intese, programmi,
contratti, convenzioni, patti, protocolli [Bobbio 2000; 2004a]. Si tratta di casi assai
distanti fra loro, ma ciò che li accomuna è il riferimento ad altri modelli decisionali
rispetto alla razionalità di origine weberiana, attraverso i quali le parti dichiarano
pubblicamente di approvare un progetto o una linea di intervento, o si assumono impegni
reciproci mettendo proprie risorse, finanziarie e non, a disposizione di un’azione comune
di cui concordano tempi e modalità [Bobbio 2000, 112]. Si attuano così strumenti di
intervento più flessibili, che potenzialmente possano trasformare la complessità dei
problemi e delle reti di attori in opportunità, anziché in vincoli.
Tali trasformazioni sono viste con sospetto dai portatori di logiche tecnico-
scientifiche, in quanto tenderebbero a dar vita a decisioni meno sagge, più confuse e
compromissorie di quelle possibili attraverso l’applicazione di conoscenze razionali. I
difensori dei nuovi approcci, tuttavia, criticano proprio l’efficacia sul piano pratico del
modello tradizionale [Bobbio 1996]. Mentre in passato l’azione amministrativa si basava
sul presupposto dell’autorità, ossia sull’idea che l’attore pubblico fosse l’unico
depositario dell’interesse generale, e che proprio per questo avesse il diritto-dovere di
farlo valere nei confronti di tutti, oggi l’amministrazione tende a svolgere un ruolo
diverso: di stimolo, sollecitazione, regia o coordinamento. Non si presenta più come
un’autorità indiscussa, ma piuttosto come un partner fra altri. Tale ridimensionamento
poggia sulla presa di coscienza che l’amministratore non dispone, come già aveva notato
Simon [1958] di una razionalità olimpica o sinottica, bensì di una bounded rationality che
non può che trarre giovamento dall’incontro con altre razionalità anche di diverso tipo, in
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particolar modo con la razionalità sociale [Beck 2000]. Le decisioni di governo non
possono più essere viste allora come l’espressione di un calcolo razionale di soggetti che
si trovano ai vertici delle organizzazioni, cui corrisponde una mera attività esecutiva delle
unità sottoposte. Esse appaiono piuttosto come complesse attività di problem solving cui
partecipano diversi gruppi, i quali possono immettere nel processo proprie risorse
cognitive, sociali e finanziarie che la sola amministrazione non possederebbe. Si
passerebbe così da istituzioni unitarie, con competenze giuridiche, tecniche o territoriali
tali da mettere in grado di padroneggiare il problema in modo coerente e senza bisogno di
dipendere da altri, a meccanismi che consentano una cooperazione che permetta una
proficua interazione fra istituzioni pubbliche e private.
1.2 Policy-networks: la società civile al governo
Alcuni degli elementi caratteristici delle nuove forme di policy-making inclusivo si
potevano già riscontrare in un filone di studi di stampo pluralista, che sottolineava come,
già prima del passaggio degli anni ‘90 da una visione top-down ad una bottom-up, il
processo di produzione di politiche era nella pratica ben lungi da come avrebbero voluto i
teorici della razionalità sinottica e assoluta. La moltiplicazione degli attori coinvolti, la
pluralizzazione dei punti di vista legittimati a intervenire, l’insistenza sulla natura attiva
della cittadinanza, nonché dei territori in quanto spazi situati dell’esercizio di tale
attivazione, erano infatti tutte questioni già analizzate dagli studi sui policy-networks.
«Che sia esercitato attraverso la persuasione, lo scambio o l’autorità», scriveva Lindblom
[1990, 5], «nel policy-making il controllo nel gioco del potere muove da tutte le direzioni.
Anziché essere inquadrati in un ordine gerarchico pervasivo, dove il controllo discende
solo dall’alto al basso, tutti i partecipanti si controllano l’un l’altro usando le gerarchie
dall’alto al basso, dal basso all’alto e attraverso ogni livello, con un controllo reciproco
tra gli uni e gli altri, e con un conseguente accomodamento reciproco degli uni agli altri».
L’approccio top-down si basa sull’ipotesi che la conoscenza avanzi in modo
unidirezionale, da chi disegna le politiche a chi le implementa, mentre l’approccio di rete
presuppone uno scambio continuo di informazioni a tutti i livelli.
Una rete è, secondo Sch őn [cit. in Regonini 2001, 240], un insieme di elementi
collegati l’un l’altro da interconnessioni multiple, le cui caratteristiche sono la ridondanza
dei legami, l’assenza di un nucleo, la possibilità di percorsi multipli tra diversi nodi, il
flusso bi-direzionale delle informazioni. Il ricorso a questa metafora fa dei policy-
networks un punto di partenza ideale per i fautori delle nuove procedure, che sono i più
attivi fra gli svariati sostenitori dell’immagine, in gran voga, della rete come contesto per
la costruzione di una forma di società diversa dalle precedenti [Martinotti 2002], in cui
pubblico e privato, locale e globale, individuo e formazioni sociali, economia e politica
dovrebbero fondersi. Nello specifico, ciò che accomuna la teoria dei policy-networks alla
filosofia dei recenti mutamenti è il ricorso alla rete come modalità di interazione diversa
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dalla mera pressione o dallo scambio, caratterizzata dall’apertura e dall’interdipendenza.
Un policy-network comprende «tutti gli attori coinvolti nella formulazione e realizzazione
di una politica in uno specifico settore di intervento. È caratterizzato da interazioni
preminentemente informali fra attori pubblici e privati con interessi distinti, ma
interdipendenti, che cercano di risolvere problemi di azione collettiva ad un livello
centrale non gerarchico» [B őrzel 1998, 401-402].
La prima interpretazione all’interno di tale filone si rifà ai c.d. issue network, di
carattere transitorio e aperto [Heclo, cit. in Sola 1996, 520; Le Galès, cit. in Magnier e
Russo 2002, 163]. Le aggregazioni di attori che concorrono alla soluzione di una
particolare issue sono composte da una varietà di gruppi non gerarchici, con scarse
risorse e raramente in accordo fra loro, il che le rende temporanee e con una frequenza di
interazione sporadica. Il secondo concetto è invece quello di policy community, che
richiama un’aggregazione meno aperta, meno eterogenea, più gerarchica e duratura,
costituita da attori con punti di vista affini, riuniti in associazioni forti. La
contrapposizione fra i due tipi di rete sembra dunque presupporre il seguente principio: se
le associazioni della società civile sono forti, poche e senza grandi dissidi fra loro, allora
la loro integrazione nelle decisioni collettive rende queste ultime più efficaci; se
viceversa le associazioni coinvolte sono molte, legate a interessi deboli, e partono da
posizioni lontane tra loro, allora la messa in rete è un inutile dispendio di risorse. Qui sta,
come vedremo, un importante divergenza rispetto a quelle che più si spingono oltre fra le
nuove forme “inclusive” nel cambio di paradigma, ovvero le pratiche deliberative, che
considerano all’opposto le differenze e la debolezza di partenza come una risorsa.
L’idea del network di attori, e di coordinazione fra loro attraverso un “mutuo
aggiustamento partigiano” elaborata da Lindblom [1990], è stata certamente una fonte di
ispirazione per i teorici dei nuovi processi, per quanto riguarda la valorizzazione di tutte
le forme di coordinamento dal basso (su base territoriale o funzionale), e per il
riconoscimento di una razionalità processuale. Gli studiosi pluralisti supponevano però
che tale razionalità fosse anche incrementale (l’incrementalismo sconnesso di Lindblom
[ibidem], mentre il nuovo approccio si caratterizza per essere strategico ed integrato
[Perulli 2006]), e negoziale, con ogni attore che possiede già in partenza una visione di
parte (contrapposto alla consensualità del modello deliberativo) [Finocchiaro 2005, 55].
Modello che, sotto questo aspetto, appare semmai più vicino alle critiche che Etzioni [cit.
in Ham e Hill 1995, 112] rivolge proprio al mutuo aggiustamento: che esso favorisca i
gruppi ben organizzati contro le categorie sottoprivilegiate, e che trascuri le innovazioni
radicali e i problemi di base.
Il punto è che i policy-networks sono ancora legati alla tradizionale democrazia
pluralista, mentre i nuovi modelli attuano o quantomeno invocano un cambio di
paradigma [Regonini 2005]. Mentre si sta assistendo a un reale cambiamento nelle
politiche reali, quello dei networks era semplicemente un approccio teorico, che tentava
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di cogliere fenomeni che erano sempre avvenuti, ma che il modello razionale non riusciva
a cogliere. Da sempre, infatti, qualsiasi decisione pubblica, formalmente unilaterale,
avrebbe alle spalle processi di discussione all’interno di reti di relazioni informali, da
svolgersi in maniera più o meno occulta. La novità degli ultimi anni consisterebbe invece,
come afferma Bobbio [2000, 113], nell’emergere di decisioni che sono il risultato
esplicito di parti diverse che assumono pubblicamente impegni reciproci, dove la
discussione non è più illegittima, ma si svolge alla luce del sole in quanto elemento del
dibattito democratico. Passerò dunque ora in rassegna i vari passaggi che hanno portato ai
nuovi strumenti di governo locale, in quanto questi, come gli stessi policy-network,
vengono spesso confusi con il vero argomento della tesi, vale a dire la partecipazione.
1.3 Il governo locale e il contenimento della spesa pubblica
Il primo mutamento nella direzione della governance si trova nell’insieme di misure
attuate a livello internazionale, a partire dagli anni ‘80, aventi come obiettivo un
ridimensionamento della spesa pubblica, da attuare attraverso un generale ripensamento
dell’intervento dello Stato nell’economia e del welfare state di stampo keynesiano. La
spinta fu ancor più pressante a livello locale, visti i conseguenti tagli ai trasferimenti
provenienti dal centro. A quell’epoca, nel clima politico dell’ascesa di idee neo-liberiste a
partire dai paesi anglosassoni, si elaborarono politiche di privatizzazione e
liberalizzazione [Castells 2002, 148-150], mentre in Italia il cambio di rotta iniziò un po’
più tardi, con la l. 421/1992 sulla razionalizzazione amministrativa. La riforma si
proponeva di superare la logica burocratica, ma nasceva in un contesto di crisi economica
nel quale, in realtà, l’esigenza fondamentale era quella di risparmiare risorse pubbliche,
anche riducendo i costi di funzionamento dell’amministrazione. Tale riforma infatti non
fu che un tassello del più generale intervento di risanamento finanziario attuato dal
governo Amato, nell’ambito di una manovra che comprendeva il riordino del sistema
pensionistico, di quello sanitario e della finanza locale [Testa e Terranova 2006, 17].
Keynes riteneva che l’intervento statale in economia avrebbe dovuto essere svolto da
èlites burocratiche competenti e votate all’interesse pubblico, ma in realtà il controllo
della spesa sociale entrò sempre più a far parte dei criteri di legittimazione e consenso
delle democrazie capitalistiche [Habermas 1975; Offe 1982]. Questo, con la crescente
differenziazione della società a seguito della crisi del fordismo, comportò una difficoltà
crescente da parte pubblica a mediare fra i diversi interessi, riducendo spesso la politica
ad un’attività di pura distribuzione di risorse. Martinelli [1994b] osserva come tale stato
di cose sia stato analizzato da parte conservatrice con la formula del “governo
sovraccarico”, per sottolineare la necessità di una rigida selezione delle domande
[Crozier, Huntington e Watanuki 1977]. Da parte progressista è stata invece teorizzata la
“crisi di legittimazione” e la “crisi fiscale” dello Stato, determinata dal fatto che questo
non riesce a far fronte alle domande che il suo intervento in economia ha contribuito a
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suscitare, creando disaffezione nei cittadini. Ciò in quanto le risorse percepite mediante
l’imposizione fiscale hanno raggiunto un tetto insuperabile, che risulta comunque
insufficiente a coprire le spese, donde il fenomeno dell’indebitamento pubblico
[Habermas 1975; Offe 1982; O’Connor 1977].
Tutto ciò comportò un ripensamento organizzativo caratterizzato dalla trasformazione
del ruolo delle amministrazioni pubbliche, che le costrinse ad abbandonare una
tradizionale vocazione alle attività di servizio per passare ad assolvere al nuovo ruolo di
costruttrici di politiche condivise, nell’ambito delle quali la prestazione dei servizi può
essere assolta, in ottica di sussidiarietà tanto orizzontale quanto verticale, da altre realtà
pubbliche e soprattutto private. Si tratta di un’idea già portata avanti da Ostrom [cit. in
Regonini 2001, 220-221], secondo il quale a determinare il carattere pubblico di un
problema non è il fatto che per la produzione di ciò che serve a risolverlo ci si affidi al
settore pubblico anziché al mercato. A conferire natura pubblica ad una questione sarebbe
piuttosto il fatto che i cittadini considerino le proprie strategie interdipendenti le une dalle
altre, così da divenire vantaggioso per tutti il coordinamento, indipendentemente dallo
status pubblico o privato dei soggetti cui ci si rivolge per l’implementazione. Una tale
impostazione porta ad abbandonare quella che Norberto Bobbio [cit. in Basilica 2006,
xiii] definiva la “grande dicotomia”, con due categorie che si escludono a vicenda, per
considerare pubblico e privato come due diverse forme di coordinamento che possono
intersecarsi in una gamma pressoché infinita di combinazioni.
In questa direzione non esiste solo la possibilità della privatizzazione in senso stretto,
nella quale si riconducono al regime di diritto privato interi segmenti di attività nella
prospettiva della loro restituzione alle dinamiche di mercato. L’altro versante dello
“snellimento” pubblico risiede nelle esternalizzazioni, consistenti nell’utilizzo di energie
e risorse del privato (tanto for profit che non profit) per l’assolvimento di compiti che
restano, tuttavia, di competenza delle amministrazioni pubbliche. È chiaro che tale
istituto non è certo nato con l’obiettivo di fondare una governance condivisa, ma solo con
quello di risparmiare risorse pubbliche in ottica neoliberista. È tuttavia attraverso tale
passaggio che si crea il primo passo del percorso verso un’amministrazione aperta,
relazionale e condivisa, dove le esternalizzazioni non sono che un primo strumento per
cercare nuove forme di collaborazione che attraverso effetti imprevisti possono anche
sviluppare rapporti più profondi con i soggetti della società civile. Strumento nato dalla
ricerca di vantaggi organizzativi, ma che in molti casi ha portato con la sua evoluzione ad
un mutamento culturale che ha permesso all’amministrazione di strutturarsi a rete,
coinvolgendo e stringendo legami più profondi con l’ambiente in cui è inserita,
appropriandosi di nuove conoscenze e know how “sociali”.
Tale strategia rispondeva alla necessità di far fronte ai vincoli legati alla presenza di
strutture eccessivamente complesse, che rallentavano la capacità di adattamento alle
trasformazioni della società. La decisione di trasferire all’esterno parte dei processi
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precedentemente svolti internamente rappresenta solo uno dei tentativi degli anni ‘90 di
introdurre nel settore pubblico una logica manageriale caratteristica dell’“impresa a rete”
[Castells 2002, cap. 3]. Pur diversi dalle privatizzazioni in senso stretto, e nell’ambito
nella sussidiarietà orizzontale, la quale prescrive che le pubbliche amministrazioni
possono essere sollevate da determinate funzioni ogni qual volta venga dimostrato che le
autonomie private sono in grado di esercitarli in modo più efficace e meno dispendioso,
tali strumenti venivano comunque intesi, all’epoca, da una parte come deregulation,
dall’altra come tendenza ad assumere, nei settori core sopravvissuti al processo di
“snellimento” chiamato down-sizing, metodologie sviluppate nel settore privato. Si
trattava del c.d. new public management, che propugnava un recepimento di logiche e
strumenti gestionali aziendalistici all’interno del settore pubblico, e la conseguente enfasi
sull’efficienza a scapito dell’equità, secondo il paradigma di un’amministrazione che
sappia «fare di più spendendo di meno» [Osborne e Gaebler 1995], nell’ottica di uno
“Stato modesto” [Crozier 1988] e proprio per questo meno pervasivo ma più efficace.
Una tale prospettiva era però destinata ad essere superata da quella, sviluppata
successivamente, di governance, in quanto il potere pubblico, lungi dal ritirarsi, diveniva
sempre più catalizzatore di energie e costruttore di politiche pubbliche condivise. «La
fiducia nella deregulation sembra oggi solo una delle eccessive semplificazioni degli anni
ottanta e l’attenzione si è spostata sulla better regulation (e implicitamente, dunque, sulla
necessità comunque di una qualche regolazione)» [Sepe, Mazzone, Portelli e Vetritto
2003, 207]. Il termine governance, come vedremo, è contrapposto non solo a quello di
government, con cui si considera il tradizionale esercizio dell’autorità basato sulla
produzione diretta di beni e servizi, e ispirato al principio di legalità e alla ripartizione
formale e gerarchica delle competenze in base alla legge. Possiede bensì una diversa
sfumatura anche rispetto al new public management, in quanto non mira solo
all’efficienza e al contenimento dei costi, ma anche a fare sistema, operando in modo
condiviso in contesti di incertezza e scarsità di risorse. Vi sarebbe in esso l’aspirazione
per un’amministrazione che non remi ma tenga il timone [Osborne e Gaebler 1995, 59],
relazionandosi piuttosto che dando ordini, ma anche “facendo insieme” piuttosto che
“facendo fare ad altri”. «Nell’età declinante del fordismo» la stessa esternalizzazione
«poteva essere ricondotta a un calcolo microeconomico di make or buy tipicamente
aziendale […]. Nella nascente età della governance, invece, occorre farne uno strumento
strategico di ripensamento dell’intera struttura organizzativa» [Vetritto 2006, 13-14].
Si potrebbero così ripercorrere le tappe del graduale spostamento, avvenuto negli
ultimi anni, da logiche strettamente economicistiche ad una visione più aperta alla
partecipazione:
• nel modello di mercato o di Stato efficiente, proprio degli anni ‘80,
all’amministrazione viene richiesto di aumentare la produttività, di ricercare
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l’efficienza, di svolgere un attento controllo della spesa pubblica e di procedere a una
decisa razionalizzazione;
• nel modello decentralizzato o di Stato flessibile, tipico degli anni ‘90, l’enfasi ricade
invece sulla semplificazione delle procedure e sulla burocratizzazione;
• nel modello della qualità o dello Stato partecipativo, infine, che si va diffondendo in
questi anni, avviene l’integrazione degli stakeholders nel processo di formulazione
delle politiche pubbliche [ibidem, 26].
Da questi passaggi, si può notare lo spostamento nella concezione
dell’esternalizzazione, che era stata vista in prima battuta come out-sourcing, e quindi
come semplice risposta aziendalistica alla crisi fiscale. Il passaggio dalla deregulation
alla better regulation, dovuto alla presa di coscienza che il settore pubblico non può
basarsi solo sul down-sizing, in quanto convergono su di esso sempre nuove richieste
dovute alla diversificazione dei bisogni, ha anche determinato lo spostamento dal new
public management alla governance, che comporta il cambio di paradigma: ci si rivolge
al privato non solo per esternalizzare i costi, ma anche per internalizzare il know-how
sociale. Da questa sottile differenza, poi, lo spostamento culturale si allargherà, passando
dall’implementazione allo stesso processo di formulazione delle politiche, e
coinvolgendo non più solo imprese e terzo settore, ma sempre nuovi attori. Come nota
Donolo [2004a, 2-3], è pur vero che con la riforma della pubblica amministrazione
avviene uno spostamento dalla razionalità normativo-burocratica (conformità alle norme)
a quella tecnico-economica di scopo, ma sarebbe ora necessario compiere un ulteriore
passo nella direzione di una governance che incorpori anche la razionalità sociale [Beck
2000]. Infatti, sebbene in questo passaggio emergano effettivamente soluzioni più
appropriate alle dimensioni urbane dei problemi sociali e territoriali, continua Donolo, i
processi urbani restano al margine, schiacciati da soluzioni tecniche e controllo
manageriale, quando invece essi incorporano forme di razionalità più complesse, utili al
territorio. Nel governo urbano i processi politici dovrebbero piuttosto “co-rispondere ai
processi urbani”; «tale governo richiede uno sguardo lungo –da qui la centralità degli
approcci strategici – e altamente interattivo, richiede saperi inusitati e mobilità tra scale,
livelli, forme».
1.4 Da government a governance: il cambio di paradigma
Come ricorda Bobbio [2002a, 11], la parola governance è sempre esistita in inglese
con riferimento all’idea del governo in quanto attività, a fronte del termine government,
riguardante invece l’istituzione che esercita tale governo. Fino ad ora, però, nella nostra
lingua non si era sentito il bisogno di dividere il termine in due significati, dal momento
che l’attività pubblica era sempre stata rimessa nelle sole mani del governo legittimo ad
ogni livello. Come abbiamo visto, però, tale corrispondenza è ormai da diversi anni
entrata in crisi a causa della sempre maggiore integrazione di attori privati ed enti