4
CAPITOLO I.
PARITA’ DI TRATTAMENTO E NON DISCRIMINAZIONE NEL
RAPPORTO DI LAVORO.
1.1 Parità di trattamento tra uomini e donne nel rapporto di lavoro: il
richiamo agli artt. 3 e 37 della Costituzione.
L’intera produzione legislativa in tema di occupazione femminile
1
, tesa in
vario modo a valorizzare il ruolo della donna, a reprimerne la
discriminazione e ad incentivarne con sempre maggior forza la presenza
1
Sul principio di non discriminazione e la parità di trattamento nel rapporto di lavoro, si
veda, ex plurimus, M. V. BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana
sul lavoro delle donne, Bologna, 1979; T. TREU, Commentario della Costituzione, a cura
di G. BRANCA, Bologna-Roma, 1979; D. GOTTARDI, Lavoro delle donne, in Appendice
del Novissimo Digesto italiano, Torino, 1983; B. BECCALLI, Donne in quota. È giusto
riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, Milano, 1999; A. FASANO, P.
MANCARELLI, Parità e pari opportunità uomo-donna. Profili di diritto comunitario e
nazionale, Torino, 2001; G. DE SIMONE, Dai principi alle regole. Eguaglianza e divieti di
discriminazione nella disciplina dei rapporti di lavoro, Torino, 2001; M.G. GAROFALO (a
cura di), Lavoro delle donne e azioni positive. L’esperienza giuridica italiana, Bari, 2002;
D. IZZI, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio fra
genere e fattori di rischio emergenti, Napoli, 2005; M. ROCCELLA, M. P. AIMO, D. IZZI,
Diritto comunitario del lavoro. Casi e materiali, Torino, 2006; SOLE24ORE, Enc. giur., Il
diritto, 2007, Firenze; M. BARBERA, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro
comunitario e nazionale, Milano, 2007; G. ZILIO GRANDI, La sospensione del rapporto,
in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. BESSONE, vol. I, Il rapporto di lavoro
subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di F. CARINCI, Torino, 2007; M.
BARBERA, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, in Enc. Giur.,
2008; C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, Bologna, 2008; M.
RINALDI, Il lavoro femminile e il concetto di pari opportunità, in Lavoro (Il diritto privato
nella giurisprudenza), vol. II, Il lavoratore e R. STAIANO, Molestie sessuali, in Lavoro (Il
diritto privato nella giurisprudenza), vol. IV, Licenziamento, mobbing, processo del lavoro,
a cura di P. CENDON, Torino, 2009; L. CALAFÀ, D. GOTTARDI (a cura di), Il diritto
antidiscriminatorio tra teoria e prassi applicativa, Roma, 2009; M. ROCCELLA, T. TREU,
Diritto del lavoro della Comunità Europea, Padova, 2009; R. SANTUCCI, G. NATULLO,
V. ESPOSITO, P. SARACINI (a cura di), Diversità culturali e di genere nel lavoro tra
tutele e valorizzazioni, Milano, 2009; F. CARINCI, A. PIZZOFERRATO, Diritto del lavoro
dell’Unione europea, Torino, 2010; L. GALANTINO, Diritto del lavoro, Torino, 2010; A.
LASSANDARI, Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, in F. GALGANO
(diretto da), Trattato di diritto commerciale e di Diritto pubblico dell’economia, Padova,
2010; L. LAZZERONI, Eguaglianza, lavoro, regole di parificazione. Linguaggi e percorsi
normativi, Torino, 2011; A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, II, Il rapporto di
lavoro, Torino, 2011; P. CENDON (diretto da), Trattato dei nuovi danni, vol. IV, Padova,
2011; G. FALASCA, Manuale di diritto del lavoro, Milano, 2011; S. GIUBBONI, S.
BORELLI, Discriminazioni, molestie, mobbing e R. VIANELLO, La sospensione della
prestazione di lavoro e la tutela della funzione genitoriale in M. PERSIANI, F. CARINCI
(diretto da), Trattato di diritto del lavoro, a cura di M. MARTONE, Vol. IV, Padova, 2012;
A. VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012; VALLEBONA, Breviario di
diritto del lavoro, Padova, 2012;
5
nel mondo del lavoro, poggia le proprie basi su alcuni principi cardine della
nostra Carta costituzionale.
I costituenti hanno compiuto la fondamentale scelta di assicurare al lavoro
una particolare protezione. Ad esso è infatti attribuito un singolare rilievo
nella Costituzione e ciò appare chiaro sin dall’art. 1, in cui si afferma che
l’Italia è una Repubblica democratica “fondata sul lavoro”. La Costituzione
rende, dunque, il lavoro elemento fondante e caratterizzante la nuova
forma dello Stato.
L’articolo 4 riprende, ampliandolo, quello che l’articolo 1 presenta come il
fondamento della nostra Repubblica, assegnando ad esso il duplice ruolo
di “diritto” e “dovere”
2
. Il lavoro è un diritto riconosciuto dalla Repubblica a
tutti i cittadini, inteso come fine cui lo Stato deve tendere promuovendo “le
condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ed è un dovere cui
ciascun individuo dovrebbe adempiere, “secondo le proprie possibilità e la
propria scelta” per “concorrere al progresso materiale o spirituale della
società”.
L’intento della norma è quello di creare condizioni di ottimale occupazione
per tutti i cittadini, senza alcuna sorta di discriminazione, ponendo
l’accento sulla libertà di scelta di un’occupazione appropriata alle
possibilità e alle attitudini di ciascuno.
Non si può prescindere, dunque, da un’analisi dei principi costituzionali sui
quali fonda la materia della parità uomo donna nel mondo del lavoro.
Il diritto del lavoro è, in primo luogo, permeato dal principio di eguaglianza,
proclamato dall’art. 3 della Carta costituzionale.
Tale norma rappresenta il fondamento ultimo della legislazione volta a
proteggere i lavoratori dalle disparità di trattamento ingiustificate e a
promuovere le condizioni necessarie al superamento degli ostacoli che si
frappongono alla loro piena realizzazione.
2
L’art. 4 Cost. dispone che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
6
Nella “sfida delle differenze” a cui il diritto del lavoro è oggi chiamato a
rispondere, è innegabile il nesso di tale disciplina con il valore di
uguaglianza, che viene in rilievo in termini di annullamento delle differenze
individuali irrilevanti ai fini del riconoscimento della pari dignità di ogni
persona, ma anche di impegno all’eliminazione delle situazioni di
svantaggio economico e sociale
3
.
I due commi dell’articolo 3 sono tradizionalmente identificativi di
un’uguaglianza di tipo formale e di una di tipo sostanziale: la prima
mirante alla realizzazione della parità uomo-donna intesa come astrazione
dalle differenze intercorrenti fra i due sessi, e dunque come medesimo
trattamento, anche retributivo; la seconda, invece, tendente a rimuovere le
3
Sul punto, v. D. IZZI, op. cit., 2, secondo la quale i processi sociali in atto, il
multiculturalismo e le profonde trasformazioni intervenute nei sistemi di produzione e nei
metodi di lavoro hanno in realtà messo in crisi il paradigma egualitario su cui fonda
l’intera materia del diritto del lavoro. Il diritto del lavoro è oggi chiamato ad adeguarsi alle
mutate istanze del tempo attuale e a rispondere alla sfida delle differenze, indotta dalla
moltiplicazione dei fattori di rischio. In tale contesto non è però condivisibile, secondo
l’Autrice, l’atteggiamento di quanti si fanno promotori di un “ridimensionamento del peso
tradizionalmente assegnato all’eguaglianza dal diritto del lavoro, sostenendo che tale
valore, anziché essere considerato essenziale fondamento della disciplina in questione,
debba essere posto sullo stesso piano della dignità e soprattutto della libertà personale”.
“È in realtà lo stesso capoverso dell’art. 3 Cost., “laddove imputa agli “ostacoli di ordine
economico e sociale”, che è “compito della Repubblica rimuovere”, la responsabilità di
limitare di fatto, al tempo stesso, “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”, a lasciar
intendere che l’autodeterminazione, e dunque l’effettiva possibilità di ciascuno di
orientare autonomamente le proprie scelte, non può essere disgiunta dall’impegno al
superamento delle condizioni di minorità che comprimono in concreto, per alcuni, tale
possibilità”. Libertà ed eguaglianza, dunque, contribuiscono insieme al libero sviluppo
della persona. Ad egual modo, non avrebbe senso prospettare una mitigazione del valore
dell’eguaglianza in nome della tutela della dignità individuale poiché “è lo stesso art. 3, 1°
co. Cost. (nell’affermare la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini) ad indicare la seconda
quale basilare campo d’applicazione della prima”. “Libertà e dignità della persona sono
elementi costruttivi del principio di eguaglianza, non valori ad esso estranei o addirittura
antagonisti”. Inoltre, che “una rilettura in tono minore dell’eguaglianza sia imposta ai
giuristi dai profondi cambiamenti intervenuti negli anni recenti a livello sociale, economico
e culturale, risulta difficile da sostenere, se si guarda alla vertiginosa ascesa di cui il
relativo principio si è reso protagonista nell’ordinamento europeo, a partire da quando la
Corte di giustizia, estrapolandolo in via interpretativa dall’insieme dei divieti di
discriminazione, ne ha riconosciuto il rango fondamentale per il diritto comunitario”. Per
quanto attiene al valore della diversità e la correlazione col principio dell’eguaglianza si
veda anche M. RUSCIANO, Il valore della diversità nel diritto del lavoro in R. SANTUCCI,
G. NATULLO, V. ESPOSITO, P. SARACINI (a cura di), op. cit., 141 e 143 ss. secondo il
quale il diritto del lavoro, per realizzare l’eguaglianza tra i lavoratori, deve impedirne le
discriminazioni e valorizzarne le differenze, cercando di essere in grado di mantenersi in
equilibrio tra l’eguaglianza formale, sostanziale e valutativa, tra parità di trattamento e
disparità giustificate.
7
conseguenze sfavorevoli e gli ostacoli di fatto che inevitabilmente
discendono da tali differenze.
Il primo comma, affermando che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale
e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”,
ha un contenuto sostanzialmente negativo, risolvendosi in un divieto di
porre in essere discriminazioni a sfavore dell’uno o dell’altro sesso, ed è
teso, dunque, al superamento di ogni forma di discriminazione che
dell’uguaglianza è l’inevitabile rovescio.
Il secondo comma, invece, con l'assegnare alla Repubblica il compito di
"rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", si connota,
invece, per una valenza positiva e promozionale, fondandosi sulla
attribuzione di rilevanza a tutti quei fattori che contribuiscono a distinguere
fra loro gli individui. Suo fine precipuo è quello di garantire le medesime
opportunità e un’effettiva parità fra uomini e donne, legittimando
l’introduzione di misure legislative e di singoli interventi correttivi di
disuguaglianze di fatto.
Al di là dell’apparente contrasto rinvenibile tra la regola prevista dal primo
comma, che impone di non distinguere i cittadini in base ad elementi di
differenziazione che di fatto esistono, ma che non devono assumere alcun
rilievo di fronte alla legge, e la regola contenuta nel secondo comma, che
prescrive invece di rimuovere gli ostacoli concreti che esistono e che sono
collegati proprio a quei fattori di differenziazione che il primo comma
impone di ignorare, in realtà i due principi di eguaglianza delineati nel 1° e
nel 2° comma sono teleologicamente correlati
4
.
4
In tale direzione, D.IZZI, op. cit., 282 secondo la quale l’uguaglianza formale e quella
sostanziale costituiscono le due facce di un medesimo principio, in cui l’eguaglianza
sostanziale assolve al ruolo di integrazione e rafforzamento dell’eguaglianza formale.
8
Quanto affermato nel 1° comma, infatti, rischia di rimanere una mera
affermazione di principio in assenza di interventi correttivi da parte dello
Stato, la cui adozione è riconosciuta e legittimata dal 2° comma
5
.
I due commi sono diretti, seppure attraverso metodi e percorsi diversi,
verso un unico fondamentale obiettivo, che è quello di assicurare il pieno
sviluppo della persona umana, attraverso la garanzia di parità di
trattamento e parità di opportunità, le quali si integrano per la costruzione
di un unico rapporto dell’eguaglianza, basato sulla “pari dignità” delle
differenze
6
.
Anche la Corte Costituzionale ha oggi accolto una concezione
dell’uguaglianza non meramente paritaria, ma “valutativa”
7
: una
5
Il principio di eguaglianza sostanziale non solo consente, ma addirittura impone
differenziazioni di trattamento quando queste dovessero servire a riequilibrare situazioni
oggettive e sostanziali differenziate e a ripristinare proprio la condizione di eguaglianza
formale. Così, R. SANTUCCI, G. NATULLO, V. ESPOSITO, P. SARACINI, op. cit., 147.
6
L. FERRAJOLI, La differenza sessuale e le garanzie dell’eguaglianza, in Democrazia e
Diritto, 1993, 53, secondo cui “mentre il 1° comma afferma l’uguaglianza davanti alla
legge e la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini “senza distinzioni di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, il 2° comma
esplicita il carattere progettuale di tale eguaglianza, muovendo dal riconoscimento della
sua ineffettività in presenza degli “ostacoli di ordine economico, sociale e culturale” che la
limitano “di fatto” e che esso prescrive di “rimuovere” attraverso l’introduzione di idonee
garanzie”.
7
V. sent. Corte Cost. 29 marzo 1960 n. 15, in cui la Corte afferma che il principio di
eguaglianza è violato “quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un
trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni”; 23 marzo 1966 n. 25, in
Giur. cost., 1966, in cui sostiene che “il principio di eguaglianza vieta che la legge ponga
in essere una disciplina che direttamente o indirettamente dia vita ad una non giustificata
disparità di trattamento delle situazioni giuridiche”; 19 aprile 1972 n. 62, secondo la quale
“il legislatore può disciplinare in modo eguale le situazioni eguali e in modo diverso quelle
differenti sempre che in contrario non ricorrano logiche e razionali giustificazioni”; 29
dicembre1972 n. 200, in cui la Corte specifica che “la discrezionalità legislativa trova
sempre un limite nella ragionevolezza delle statuizioni volte a giustificare la disparità di
trattamento fra cittadini”; 25 giugno 1981 n. 111, in Giur. it. 1982, I,1,8 in cui si ritiene che
il principio di cui all’art. 3 risulti violato “quando di fronte a situazioni obiettivamente
omogenee, si ha una disciplina giuridica differenziata determinando discriminazioni
arbitrarie ed ingiustificate”; n. 163 del 1993 in cui dichiara che “il principio di uguaglianza
comporta che a una categoria di persone, definita secondo caratteristiche identiche o
ragionevolmente omogenee, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od
omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle
quali è stata definita quella determinata categoria di persone. Al contrario, ove i soggetti
considerati da una certa norma diano luogo ad una classe di persone dotate di
caratteristiche non omogenee rispetto al fine perseguito con il trattamento giuridico ad
essi riservato, quest’ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso
che risulti ragionevolmente differenziato dalle distinte caratteristiche proprie delle persone
che quella classe compongono”; n. 340 del 2004 secondo la quale “si ha violazione
dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano
disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto
9
concezione, cioè, in virtù della quale è il medesimo principio di
eguaglianza che, così come impone di trattare in modo uguale situazioni
uguali, richiede di trattare in modo diverso situazioni diverse: in tale
prospettiva le differenze di trattamento normativo devono essere
ragionevolmente giustificate, non potendosi ammettere differenziazioni di
trattamento arbitrarie e ingiustificate.
In tal modo, la diversità di trattamento non viola il principio di uguaglianza
proprio perché è il risultato di una diversità di situazioni
8
.
Così la Corte imposta i propri giudizi in base all’art. 3 Cost. sulla
ragionevolezza delle discipline legislative differenziate, alla luce degli
elementi di eguaglianza e di differenza tra le fattispecie in comparazione:
si ha violazione del principio di uguaglianza quando la differenza di
trattamento non sia ragionevolmente giustificata dalla diversità delle
situazioni disciplinate, oppure, al contrario, quando la diversità di due
fattispecie avrebbe imposto, secondo i canoni di ragionevolezza,
trattamenti differenziati e questi non sono praticati.
9
In tale prospettiva si pone il discusso tema del “diritto diseguale”,
finalizzato a garantire pari opportunità di perseguire i progetti di vita e di
partecipare all’organizzazione della società, anche attraverso l’istituzione
di “azioni positive” orientate al risultato (result oriented)
10
.
quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente
identiche”. Si veda A. S. AGRÒ, Il principio di eguaglianza formale, in Commentario della
Costituzione, a cura di G. BRANCA, Bologna-Roma, 1975, 9 ss. e
www.cortecostituzionale.it
8
Così G. DE SIMONE, op. cit., 5 secondo la quale la considerazione dei fattori di
differenziazione, coincidenti con i fattori di discriminazione vietata, non costituisce
discriminazione allorquando essi assumano rilevanza al fine di rimuovere gli ostacoli che
impediscono la piena realizzazione della libertà e dell’eguaglianza dei cittadini.
9
L’esistenza del capoverso dell’art. 3 impone che siano valutate come ragionevoli tutte le
differenze di trattamento che mirano a realizzare il fine posto dalla norma costituzionale.
Se è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di fatto che impediscono il “pieno
sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, non è “irragionevole” una
differenza di trattamento che abbia questa finalità. Così, M.G. GAROFALO, op. cit., 16
ss.
10
D. IZZI, op. cit., in cui degno di nota è il riferimento alla griglia esplicativa di L.
GIANFORMAGGIO, Eguaglianza formale e sostanziale: il grande equivoco, nota a Corte
cost., 12 settembre 1995, n. 422, in Foro it., 1996, I, 1961 ss., che individuava almeno sei
accezioni di eguaglianza giuridica: 1. Generalità delle regole – 2. Unicità del soggetto
giuridico – 3. Eguaglianza di fronte alla legge – 4. Divieto di discriminazioni – 5.
10
All’espressione “diritto diseguale” va attribuito non il semplice significato di
trattamento differente di situazioni differenti, che è già espressione del
principio di eguaglianza, ma quello, più pregnante, di trattamento
differenziato che trae ragionevolezza e giustificazione dalla necessità di
porre rimedio a disuguaglianze di fatto. Ne costituisce un’esemplare
manifestazione lo stesso art. 37, 1° comma Cost. che, nel richiedere
l’adeguamento delle condizioni di lavoro all’ “essenziale funzione familiare”
e materna svolta dalle donne, delinea una prima e significativa
espressione del “diritto diseguale” legittimato dai costituenti.
11
Il lavoro femminile non è sfuggito all’attenzione dei nostri padri costituenti:
la percezione della situazione di marginalità del lavoro femminile ha
condotto all’introduzione, condivisa da tutte le principali componenti
dell’assemblea, di una norma apposita sull’argomento, intesa a sancire la
parità tra i due sessi.
La Costituzione italiana del 1948 ha segnato una svolta nel processo
verso la parificazione sociale dei due sessi: con essa le donne hanno visto
affermata, nella norma che specificamente concerne il lavoro femminile,
quell’eguaglianza nel lavoro che da sempre era stata loro negata
12
.
Nell’art. 37 Cost. è riconoscibile un doppio motivo ispiratore, che descrive i
termini di una difficile convivenza: la prospettiva paritaria e la logica
protettiva. Nel primo capoverso trova infatti affermazione il c.d. “principio
paritario” laddove viene in rilievo la donna lavoratrice che, in quanto tale,
ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano
al lavoratore; nel secondo si sottolinea la necessità dell’intervento
protettivo della lavoratrice madre, affermando che le condizioni di lavoro
devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare
Eguaglianza nei diritti fondamentali – 6. Pari opportunità di perseguire i progetti di vita e
di partecipare all’organizzazione della società.
11
Sul punto v. D. IZZI, op. cit., 275 secondo la quale alla basilare preoccupazione dei
costituenti di garantire che lo svolgimento di attività lavorative non comprometta
l’insostituibile funzione materna delle donne, il legislatore più recente ha poi affiancato
quella di consentire che la dedizione familiare delle stesse non comporti sistematiche
penalizzazioni nella vita professionale.
12
In argomento v. M.V. BALLESTRERO, op. cit., 110 ss. “Il diritto di eguaglianza doveva
essere affiancato da una previsione che segnasse al legislatore ordinario la via da
seguire per assicurare alle donne la parità effettiva nel lavoro”.
11
e assicurare sia alla madre che al bambino una speciale e adeguata
protezione.
Con le due diverse disposizioni di principio, la norma costituzionale cerca
di contemperare le due fondamentali esigenze dell’uguaglianza di
trattamento con gli uomini e della speciale tutela in considerazione delle
condizioni della donna sul lavoro.
Da un lato, si intende garantire alla lavoratrice che le condizioni di lavoro
non compromettano e siano anzi adeguate alle esigenze delle funzioni
familiari e materne, dall’altro, si vuole evitare che la famiglia e lo stato di
maternità possano pregiudicare il lavoro femminile, traducendosi, di fatto,
in un ostacolo all’esercizio del diritto al lavoro e in sistematiche
penalizzazioni nella vita professionale.
Non può quindi ricavarsi, dalla lettura dell’art. 37, 1° comma, alcuna
preferenza, alcun atteggiamento di sfavore verso le spose o madri, ma
neppure alcun divieto di cumulo fra lavoro extra-domestico e
responsabilità familiari
13
.
Scopo della norma è quello di affermare la piena compatibilità tra
situazione familiare e materna e lavoro extra-domestico e altresì
sottolineare l’impegno dello stato a rendere effettiva per le donne tale
compatibilità, ponendo in essere tutte le condizioni, giuridiche e materiali,
necessarie perché siano le donne a decidere, senza alcun
condizionamento, se subordinare la propria attività lavorativa agli impegni
familiari, eventualmente rinunciando al lavoro in favore della famiglia
14
.
13
Così, M. RINALDI, op. cit., 454 secondo la quale “per la donna si tratta di veder
riconosciuti i suoi diritti di individuo”. La norma in questione non vuole proclamare
l’esigenza di una protezione differenziata e specifica del lavoro femminile in quanto tale,
che potrebbe considerarsi inadeguata, come è accaduto in passato, quando la disciplina
giuridica del lavoro femminile precludeva alle donne una serie di lavori, o condizionava in
vario modo l’esplicazione del lavoro femminile. Diventa ora compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione politica, economica e sociale del Paese.
14
L’art. 37 può essere interpretato nel senso che favorisce, attraverso il mutamento delle
condizioni di lavoro, l’inserimento e la permanenza delle donne nel lavoro; così facendo,
favorisce anche la trasformazione dell’assetto della famiglia e la modificazione della
posizione, in essa, della donna. In questa promozione del lavoro femminile sta il disegno
di emancipazione delle donne. In tal senso, M.V. BALLESTRERO, op. cit., 121 ss.
12
Il trattamento differenziato e la legislazione protettiva della donna sono
finalizzati ad assicurare alla stessa, in linea con il primo comma dell’art. 3,
la pari dignità sociale e la sua libertà di autodeterminazione, ma altresì
l’uguaglianza sostanziale, affinché essa sia posta in posizione di assoluta
parità rispetto all’uomo nel rapporto di lavoro e nel godimento del diritto al
lavoro, diritto attribuito e garantito in egual modo a uomini e donne dall’art.
4 Cost.
15
.
L’elaborazione dell’art. 37 costituisce il risultato di un compromesso
raggiunto all’interno dell’Assemblea costituente. In particolare, il
riferimento, contenuto nella norma, all’ “essenziale” funzione familiare
della donna ha dato luogo ad un intenso dibattito costituzionale, dovuto
alle profonde divergenze esistenti tra le diverse componenti
dell’assemblea, alcune volte a valorizzare l’eguaglianza giuridica delle
lavoratrici, altre la tradizionale funzione familiare e materna delle donne
16
.
La dottrina è oggi concorde nel ritenere come unica lettura conciliabile con
il contesto complessivo della norma costituzionale, diretta pur sempre a
garantire l’uguaglianza dei diritti tra gli uomini e le donne, quella che ne
ravvisa la ratio nell’obiettivo di affermare e realizzare la piena compatibilità
delle due situazioni, familiare e di lavoro, in capo alla donna, sollevandola
dal “dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la
propria libertà di dar vita a una nuova famiglia o, viceversa, di dover
rinunciare a questo suo fondamentale diritto per evitare la
disoccupazione”.
17
15
In tale direzione, M. RINALDI, op. cit., 454; T. TREU, op. cit., 157.
16
Sul punto, v. T. TREU, op. cit., 155; D. GOTTARDI, op. cit.; M.V. BALLESTRERO, op.
cit., 114 ss. che spiega come l’art. 37 Cost. “è nato su un terreno segnato dalla
contraddizione fra la unanime volontà di riforma e la contrapposizione politica sui
contenuti delle riforme; dalle gravi incertezze presenti circa l’equilibrio tra diritto al lavoro
e ruolo domestico delle donne; dalla persistenza, infine, di condizioni di inferiorità del
lavoro femminile”.
17
Cfr. Corte cost., 5 marzo 1969, n. 27 in giur. Cost., 1969, 371, nonché D. GOTTARDI,
op. cit., 732 e T. TREU, op. cit., 156 ss. il quale specifica come alle contestazioni e ai
tentativi di modifica del testo normativo fanno seguito assicurazioni e precisazioni dei
relatori di maggioranza, in base alle quali la funzione della donna nella famiglia non
andrebbe intesa come “esclusiva”, né come “più essenziale di quella dell’uomo”, ma
come “ad essa connaturata” e in assoluto “di essenziale valore sociale”, al pari della
funzione di maternità.
13
È questa un’interpretazione che suggerisce uno stretto coordinamento tra
l’art. 37 Cost. ed i principi sanciti dagli artt. 3, 2°comma, e 4 Cost.
18
Alla donna deve essere riconosciuto il diritto di decidere secondo la
propria libertà di scelta. Di conseguenza, compito della Carta
costituzionale è quello di garantire alla donna la compatibilità fra i due
ruoli, “familiare” e “lavorativo”, rimuovendo a tal fine gli ostacoli di fatto che
possono impedire la contestualità delle due posizioni
19
.
Ne deriva che lo stesso legislatore deve adoperarsi, attraverso un
programma di interventi pubblici, affinché tale compatibilità sia resa
effettiva dalla rimozione delle condizioni sociali, culturali ed economiche
svantaggiose, che possono derivare anche dall’adempimento della
funzione familiare.
Intendere la funzione familiare come “essenziale” avrebbe significato,
inoltre, consacrare il tradizionale assetto organizzativo familiare, fondato
sull’idea che la cura dei figli e le incombenze domestiche rientrino per
natura nell’esclusivo dominio femminile, ponendosi in tal modo in conflitto
col programma di emancipazione sociale delle donne
20
.
Si dovrà però arrivare alla legge n. 125/1991 (art. 1, 2°comma) per trovare
l’esplicita affermazione secondo cui il conseguimento dell’eguaglianza
sostanziale fra uomini e donne nel lavoro presuppone, tra l’altro,
“l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore
ripartizione di tali responsabilità fra i due sessi”: obiettivi da raggiungere,
questi, anche mediante il ricorso ad “una diversa organizzazione delle
condizioni e del tempo di lavoro”.
Tuttavia, ancora oggi, l’assolvimento delle responsabilità familiari da parte
delle donne si traduce in una riduzione delle loro opportunità di accesso al
18
In tal senso, D. GOTTARDI, op. cit., 732.
19
L. GALANTINO, op. cit., 206; T. TREU, op. loc. cit.
20
In tal senso, D. IZZI, op. cit., 98 secondo la quale nell’art. 37, in cui trova un’esplicita
consacrazione il rilevante valore sociale della maternità, se da un lato appare
apprezzabile l’impegno dei costituenti di assicurare alla madre e al bambino una speciale
adeguata protezione, dall’altro assume una portata “pericolosamente ambigua il
proposito di modellare l’esperienza professionale-produttiva della lavoratrice intorno
all’esigenza di adempimento della sua essenziale funzione familiare”, che non può
essere intesa come “preminente”, auspicando un riequilibrio delle responsabilità familiari,
attraverso una rivalutazione e un maggiore coinvolgimento della figura paterna.
14
lavoro, di formazione professionale, di avanzamento di carriera e di
gratificazione economica. Il messaggio di fondo della disciplina normativa
in materia sembra essere dunque la rivendicazione di migliori possibilità di
realizzazione nel lavoro a favore delle donne, che tuttora rischiano, in
larga misura, di pagare con un accidentato percorso professionale la
scelta di essere madri.
1.2 Campo di applicazione del principio di parità di trattamento.
Il datore di lavoro deve rispettare un generale principio di parità di
trattamento tra i lavoratori, in materia di occupazione e condizioni di
lavoro, che si traduce in un divieto di operare discriminazioni.
Un primo e fondamentale punto di riferimento in materia è ancora oggi
costituito dall’art 15 L. n. 300 del 20 maggio 1970, c.d. Statuto dei
lavoratori, secondo cui sono vietati, e soggetti a nullità, tutti gli atti
discriminatori posti in essere per ragioni sindacali, politiche, religiose,
razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento
sessuale e sulle convinzioni personali.
Il principio di parità di trattamento e non discriminazione si applica a tutti i
lavoratori (sia del settore pubblico che del settore privato) e si estende dal
momento di accesso all’occupazione, all’intera fase di svolgimento del
rapporto lavorativo, fino alle condizioni di licenziamento
21
. Esso copre,
dunque, le tre fasi essenziali della costituzione, dello svolgimento e della
cessazione del rapporto di lavoro
22
.
Il suddetto principio prevede il divieto di discriminazione diretta e indiretta
tra i due sessi (art. 1 L. n. 903 del 1977; art. 4 L. n. 125 del 1991, come
21
I Decreti Legislativi 215 e 216 del 2003, attuativi rispettivamente delle direttive
2000/43/Ce e 2000/78/Ce, entrambi all’art. 3, espressamente individuano l’ambito di
applicazione del principio di parità di trattamento, facendo specifico riferimento
all’accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di
selezione e le condizioni di assunzione; all’occupazione e condizioni di lavoro, compresi
gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; all’accesso a
tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e
riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; all’affiliazione e attività
nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni
professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni.
22
Per un’analisi dettagliata dell’argomento si rimanda al Cap. II.
15
modificato dal D. Lgs. n. 145 del 2005) nell’accesso all’occupazione e al
lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le
condizioni di assunzione, indipendentemente dalle modalità di assunzione
e qualunque sia il settore o il ramo di attività. Il divieto è esteso altresì alle
iniziative in materia di orientamento e formazione professionale e ai loro
contenuti.
Destinatari di esso sono i datori di lavoro privati, la pubblica
amministrazione e anche gli uffici di collocamento.
Il principio della parità di diritti opera anche nello svolgimento del rapporto
di lavoro. Sono infatti vietate le discriminazioni nella progressione della
carriera professionale, nell’attribuzione delle qualifiche, nelle mansioni,
nella retribuzione, nelle condizioni di lavoro e in ogni altro aspetto del
rapporto lavorativo.
Per quanto riguarda il momento della cessazione del rapporto di lavoro, al
di là della garanzia della parità di trattamento, è prevista una tutela
rafforzata contro l’espulsione illecita della manodopera femminile dal
mercato del lavoro, che si concretizza nel divieto di licenziamento delle
lavoratrici per causa di matrimonio e nella tutela fisica ed economica delle
lavoratrici madri. In particolare, la tutela prevista contro il licenziamento
della donna-lavoratrice-madre ha una tradizione consolidata ed è il
risultato di una lunga evoluzione normativa.
1.3 Il principio di parità nell’ evoluzione del diritto comunitario
Il principio di parità e di non discriminazione fra sessi è uno dei contenuti
del diritto comunitario più significativi e di più diretta incidenza sui diritti
nazionali
23
.
23
Precise disposizioni antidiscriminatorie sono presenti altresì nella Carta delle Nazioni
Unite del 26 giugno 1945 che indica, tra gli obiettivi dell’organizzazione, la promozione
del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutti, senza distinzione di razza,
sesso, lingua o religione; nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10
dicembre 1948 il cui art. 2 dispone che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le
libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di
razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di
origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”, mentre all’art.
16
La legislazione italiana è stata fortemente influenzata dall’evoluzione del
diritto e delle politiche della Comunità e poi dell’Unione europea.
Storicamente è stato proprio il diritto comunitario, già con l’art. 119 del
Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea (divenuto
poi art. 141 del TCe e oggi art. 157 Tfue), a prendere l’iniziativa nel
promuovere i vari aspetti della parità, quando la gran parte dei diritti
nazionali era al riguardo inattiva o contraria
24
.
Il principio di parità e pari opportunità tra donne e uomini ha subito una
particolare evoluzione nel diritto comunitario, grazie sia alle innovazioni
apportate, via via, dai trattati e dalle altre fonti del diritto comunitario, sia
all’opera interpretativa della Corte di giustizia.
In una prima fase esso si è tradotto in un principio di uguaglianza
retributiva fra uomini e donne sul lavoro. Il primo intervento in ordine di
tempo riguarda, infatti, la parità retributiva e deriva dallo stesso art. 119
del Trattato di Roma del 1957 (oggi art. 157 TFue)
25
. Nella sua prima
consacrazione il principio di parità rimaneva dunque circoscritto all’aspetto
retributivo, in stretta rispondenza alla finalità funzionalista perseguita dalla
Comunità economica europea: la previsione di un’uguale retribuzione tra
lavoratori e lavoratrici era volta a soddisfare, più che ragioni di politica
23 si dispone che “ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione
per eguale lavoro”; nella Convenzione europea per la salvaguardia e la tutela dei diritti e
delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 che all’art. 14 prevede che “il godimento
dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato
senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore,
la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale,
l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra
condizione”. Sono poi numerosi altri atti di diritto internazionale volti a contrastare
specifiche ipotesi di discriminazione, come la Convenzione sui diritti politici della donna
del 20 dicembre 1952 e soprattutto sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei
confronti della donna del 18 dicembre 1979. Di rilevante importanza per la materia in
oggetto sono poi le numerose Convenzioni OIL, tra cui la n. 111/1958, avente a specifico
oggetto proprio la discriminazione in materia di impiego e nelle professioni.
24
In argomento v. M. ROCCELLA, T. TREU, op. cit., 239; C. FAVILLI, op. cit., 86 ss.
25
L’elaborazione in sede comunitaria dell’art. 119, che proclamava la parità retributiva tra
uomini e donne, fu il punto di arrivo della graduale affermazione del concetto sul piano
internazionale, iniziata con la sua menzione nella parte XIII del trattato di Versailles del
giugno 1919. Nei principi cardine fu inserita la clausola del “salaire égal pour un travail de
valeur égal”, cui i Paesi firmatari avrebbero dovuto attenersi al fine di omogeneizzare la
disciplina interna delle condizioni di lavoro. Già da allora, quindi, la disposizione
contenuta nel Trattato di pace sarebbe stata diretta ad assicurare pari condizioni salariali
a lavoratori che svolgevano le stesse mansioni, nell’ambito dello stesso settore
produttivo. Sul punto v. M. RINALDI, op. cit., 461.
17
sociale, l’esigenza di eliminare le distorsioni della concorrenza, basate
sulla sottoretribuzione del lavoro femminile, in un mercato che ambiva ad
essere integrato
26
. L’impostazione originaria affrontava infatti le questioni
sociali in funzione di quelle economiche, in un’ottica di garanzia di buon
funzionamento del mercato. L'inserimento dell’articolo 119 nel Trattato
istitutivo, se da un lato rappresentava una specificazione del principio di
eguaglianza formale tra i sessi, dall'altro rispondeva alla necessità di
regolazione della concorrenza, evitando una penalizzazione delle imprese
dei Paesi che già applicavano la parità salariale. In ogni caso tale articolo
ha costituito la base su cui hanno poggiato i successivi interventi
comunitari messi in campo a favore delle politiche di parità.
Tra le materie di natura sociale inserite nel Trattato di Roma, la materia
della parità di trattamento fra gli uomini e le donne è stata una di quelle
che più si è sviluppata, dal momento che a partire da un principio di
portata limitata – il principio della parità di retribuzione – si è arrivati a
costruire un sistema ampio di tutela della parità di genere.
Con l’istituzione della cittadinanza europea e con la focalizzazione
dell’attenzione sulla persona in quanto tale, a prescindere dallo
svolgimento di un’attività economica, la prospettiva è poi cambiata, con
l’aumento delle richieste per un maggior riconoscimento dei diritti sociali
anche attraverso l’adozione di iniziative volte a contrastare le
discriminazioni
27
.
La normativa comunitaria, infatti, partendo dal riconoscimento di un
generale principio di parità fra gli uomini e le donne, è poi sfociata
nell’assunzione del dovere della promozione di tale principio come uno dei
26
È stata la Francia, in sede di negoziazione del Trattato, a volere che tale norma vi
fosse inserita, preoccupata che le proprie imprese, già obbligate al rispetto del principio
della parità di retribuzione, subissero uno svantaggio concorrenziale rispetto alle imprese
degli altri paesi membri. Cfr. C. FAVILLI, op. cit., 86.
27
Si veda la Risoluzione 17 maggio 1995, nella quale il Parlamento europeo chiede che
venga inserito nel Trattato il riferimento espresso al principio di uguaglianza e all’obbligo
da parte dell’Unione di agire per contrastare l’esclusione sociale, l’ingiustizia sociale e la
discriminazione.