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retributivo, l’altra tendente a rimuovere le conseguenze sfavorevoli,
gli “ostacoli di fatto” che da tali differenze inevitabilmente
discendono.
Obiettivi che ritroviamo simmetricamente nei due commi dell’articolo
3, tradizionalmente identificativi di un’uguaglianza di tipo formale e
di una di tipo sostanziale.
Il primo, con l’affermare che “tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali” ha un contenuto sostanzialmente negativo
allorché prescrive di negare legittimità a taluni elementi distintivi per
considerare rilevanti quelli comuni.
Ci rimanda insomma alla visione di un uomo uguale tra gli uguali, ad
una società ambiziosamente tesa al superamento di quella
discriminazione che dell’uguaglianza è l’inevitabile rovescio.
Come infatti l’una impone di andare oltre certe caratteristiche
differenziali, così il conseguente divieto di discriminazione colpisce
come illecita ogni condotta che oggettivamente, e di per sé, introduce
una disparità di trattamento, che trova la sua causa nell’appartenenza
dell’uno o dell’altro lavoratore ad un gruppo naturale o sociale.
Il secondo comma invece, con l'assegnare alla Repubblica il compito
di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che,
limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese" si connota per una valenza indubbiamente positiva e
promozionale, fondandosi sulla attribuzione di rilevanza a tutti quei
fattori che contribuiscono a distinguere fra loro gli individui.
Esso implica la presa in considerazione delle possibili disparità che
pesano su classi di persone o su gruppi sociali a diverso titolo
svantaggiati e l'appartenere ad essi è precondizione di quelle
giustificate "deviazioni" dal modello di uguaglianza formale, che
consistono nel garantire loro pari opportunità.
7
A completare il quadro interviene infine il disposto dell'articolo 37,
unica disposizione dedicata specificamente al lavoro femminile e
inserita nel titolo disciplinante i rapporti economici, la quale, nella sua
prima parte, afferma che " La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e,
a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le
condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino
una speciale e adeguata protezione."
Da queste enunciazioni di principio emerge chiaramente come nella
nostra Carta fondamentale convivano, in un delicato gioco di equilibri,
un'anima genuinamente egualitaria, là dove l'obiettivo diviene la lotta
alla discriminazione palese e manifesta e una sempre viva attenzione
per le diverse individualità, per la differenza, nello specifico, di
genere.
Questo conduce ad alcune considerazioni che ritengo particolarmente
utili ad illustrare lo stretto legame intercorrente fra la più significativa
produzione normativa in tema di parità fra i sessi e la nostra
Costituzione.
In primo luogo il fatto che la donna, come l'uomo, sia titolare di
"diritti di cittadinanza sociale", primo fra tutti quello al lavoro,
pienamente riconosciuti e tutelati, ma che, a differenza dell'uomo,
possa incontrare con maggiore frequenza "ostacoli di ordine
economico e sociale" che le impediscono come lavoratrice di
partecipare effettivamente all'organizzazione politica, economica e
sociale del paese.
Da questo presupposto discendono inevitabilmente sia una lettura del
principio di uguaglianza che contemperi fra loro le diverse e
molteplici spinte provenienti dal sociale, consentendo differenziazioni
di trattamento normativo, purché rispecchino diversità di situazioni tra
individui o gruppi identificabili in primo luogo proprio attraverso il
riferimento al sesso e non si pongano in contrasto con altri valori
direttamente tutelati dalla Costituzione, sia una conseguente
8
inammissibilità di leggi che disciplinano in maniera uguale situazioni
tra loro diverse.
Secondariamente, la presa d'atto che nel contesto della carta
fondamentale viene riconosciuta alle donne una particolare posizione
nell'ambito familiare, esprimendo con molta chiarezza un valore al
quale deve perciò attribuirsi, al di là di ogni ideologia, un rango di
primaria importanza.
Si tratta in sostanza del riconoscimento del diritto, diverso e ulteriore
rispetto a quello alla parità sessuale, di svolgere all'interno della
famiglia una funzione essenziale, fermo restando che "il matrimonio è
ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi" e che "è
dovere dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli", come
stabilito dagli articoli 29 e 30 Cost.
La prima riflessione si lega indiscutibilmente al lungo e acceso
dibattito che ruota attorno all'articolo 3 nella sua duplice portata.
Un dibattito che, pur nelle molteplici possibilità di ricostruzione, può
essere in buona sostanza ricondotto a due linee di pensiero; una che
mira a valorizzare la relazione esistente fra i due commi esaltandone il
rapporto di regola (il primo) ed eccezione (il secondo), l'altra che ne
pone in rilievo la diversità e per certi versi l'autonomia.
La questione non è di poca importanza e va ben oltre, come a prima
vista potrebbe sembrare, la retorica giuridica.
Essa parte innanzitutto dalla constatazione, oramai largamente
condivisa, che la produzione normativa italiana in tema di parità fra i
sessi nell'ambito lavorativo, si sia in gran parte e per lungo tempo
mossa nella direzione della realizzazione di tale obiettivo avendo
come riferimento esclusivo il primo comma dell'articolo 3.
Nel difficile e delicato passaggio dalla tutela alla parità (
1
), ossia da
quella legislazione di stampo più prettamente protettivo che ha
dominato lo scenario nazionale fino all'inizio degli anni settanta, ad
una di tipo veramente egualitario, quello dell'uguaglianza formale
1
Ballestrero M.V., Dalla tutela alla parità, Bologna, Il Mulino, 1979.
9
sembra in effetti assurgere a principio cardine, guida e al tempo stesso
traguardo da conquistare, in primis per il nostro legislatore.
Primo esempio di questa nuova stagione legislativa è senza dubbio
costituito dalla n. 903 del 1977 riguardante la parità di trattamento tra
uomini e donne in materia di lavoro. Essa, con l'affermare che "è
vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso" ( art. 1) e che "la
lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le
prestazioni richieste siano uguali o di pari valore."(art. 2) mostra
subito di tendere in primo luogo alla realizzazione di quella
parificazione fra i sessi a lungo auspicata e, al di là dei risultati
effettivamente conseguiti, spicca per la grandezza delle intenzioni
oltre che per l'indubbio ruolo di frattura con tutta la normativa
precedente.
Se per la 903 immediato e istintivo risulta l'accostamento con una
concezione dell'uguaglianza che tende a porre tutti i soggetti chiamati
in causa su di uno stesso piano, rifuggendo le discriminazioni basate
sul sesso ed esaltando la piena, completa, parità degli individui alla
stregua dell'insegnamento costituzionale, più complessa e sfaccettata
diviene la questione allorché vede la luce la legge n. 125 del 1991
sulle misure denominate azioni positive per la parità uomo-donna nel
lavoro, rispetto alle quali sono state sollevate, tra gli studiosi del
diritto, questioni di costituzionalità.
Rimandando oltre una loro più approfondita trattazione, non vi è
dubbio che rispetto al principio (che ben può dirsi "sovranazionale")
di uguaglianza degli individui dinnanzi alla legge senza distinzioni di
sesso, tali misure si caratterizzino invece per l'introduzione di
trattamenti differenziali proprio in ragione dell'appartenenza al sesso
femminile.
Ed è appunto con gli interrogativi sul fondamento costituzionale delle
azioni positive che il dibattito sulla portata del terzo articolo della
Costituzione e delle implicazioni che ad esso inevitabilmente si
legano, ha ripreso nuova linfa.
10
La prima linea argomentativa, fondandosi sulla centralità della
concezione formale di uguaglianza, le attribuisce logica priorità
rispetto ad una di tipo sostanziale, che, gerarchicamente subordinata,
resterebbe destinata ad operare nell'impianto legislativo quale
principio compensativo e complementare.
Quanti sostengono questa ricostruzione non dubitano del fatto che la
dialettica, la tensione fra l’altisonante proclamazione dell’ uguaglianza
formale e le disparità sostanziali che ne impediscono la realizzazione
sia chiaramente contenuta nell'articolo 3, ma con altrettanta chiarezza
evidenziano come gli interventi promozionali previsti dal secondo
comma non possano e non debbano andare in violazione del primo.
Nel tentativo di rintracciare il fondamento della politica delle positive
actions questi autori giudicano insufficiente e per certi aspetti
fuorviante il solo riferimento alle ineguaglianze sostanziali o di fatto,
ritenendolo principalmente idoneo a sottrarre il giudizio di
costituzionalità di tali misure ai difetti di una tradizione giuridica
formatasi intorno a concezioni individualistiche del principio di
uguaglianza.
Gli interrogativi che si pongono in merito riguardano quindi
principalmente il grado di compatibilità di tali misure di sostegno
differenziato nei confronti di determinati soggetti con la concreta
operatività del principio di uguaglianza formale e le modalità con cui
le varie disparità divengono tanto rilevanti per il diritto da legittimare
discriminazioni fra gli individui.
La strada percorsa da questa linea argomentativa sottende una più
analitica e per certi versi apprezzabile ricostruzione del primo comma
dell'articolo 3 Cost.
Essa spinge ad indagare fino a che punto l'uomo e la donna,
storicamente e socialmente resi diversi nei ruoli ricoperti siano da
considerarsi uguali sul lavoro, presentando le disuguaglianze
riconducibili al sesso non solo una ricca morfologia, ma mutando
anche valenza a seconda dell'approccio ideologico, storico o politico.
11
Guardando alle implicazioni del principio, va innanzitutto premesso
che quello di uguaglianza formale, non è mai stato realmente
interpretato né dalla dottrina, né dalla giurisprudenza secondo la
concezione paritaria per cui tutti gli individui devono essere posti
sullo stesso piano senza specificazioni di alcun tipo, dato che una
visione tanto rigorosa può solo fungere da limite estremo per il
legislatore. La stessa Corte Costituzionale ne dà una lettura
maggiormente flessibile ritenendo sì che sia illegittimo trattare in
modo diseguale chi versa in situazioni analoghe, ma che sia al tempo
stesso legittimo trattare in modo diverso persone che versano in
situazioni diverse.
Piuttosto, assumendo per vero l'assunto che "legiferare vuol dire
classificare, creare disparità fra i soggetti dell'ordinamento" (
2
), il
formalismo insito in vetuste interpretazioni del concetto di identità
davanti al diritto, si evolve in un penetrante criterio di controllo sulle
differenziazioni che necessariamente il legislatore utilizza.
Per questa via si è fatta strada l'ormai nota concezione valutativa del
principio di uguaglianza, in base alla quale si ammettono disparità di
trattamento quand' esse siano giustificate dallo scopo normativamente
perseguito, oppure quando la legge stessa rispecchi diversità esistenti
nella realtà di fatto in cui versano i suoi destinatari. Entrambe queste
situazioni contemplano, ricorrendone tutti i presupposti, la possibilità
di differenziazioni su base, anche, sessuale, ritenendosi superabile la
presunzione di illegittimità costituzionale gravante su di esse
attraverso un giudizio di ragionevolezza.
In ultima analisi, secondo questa impostazione, è ancora valido il
richiamo alle più accreditate letture valutative dell'uguaglianza
formale per fondare costituzionalmente una legge come la n. 125 che
consente l'adozione di strumenti in varia misura discriminatori, dando
così pieno risalto al principio generale dell'ordinamento espresso
dall'art. 3 Cost, comma primo.
2
A.S.Agrò, Art. 3. Cost., in G. Branca, Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975
12
Come detto, una seconda, tuttora maggioritaria, corrente dottrinale,
mossa dal medesimo intento esplicativo ma con altri strumenti
argomentativi pare piuttosto riferirsi ai principi generali
dell'ordinamento, sottolineandone la pari dignità intellettuale.
Essa ritiene infatti non necessariamente confliggenti, ma sicuramente
distinte, diverse e autonome le due enunciazioni contenute
nell’articolo 3 Cost. e vi legge nel secondo comma un modello di
società basato su maggiori spazi di libertà positiva.
La sua valorizzazione, anche giuridica, diviene un modo per
intervenire sull'origine degli squilibri di potere sociale, per passare da
una tutela equitativa di interessi deboli a causa dello status economico
e sociale dei loro titolari ad un intervento attivo e propositivo.
Una norma, questa, che si esprime dunque in termini di "conquista del
potere".
D’altronde è noto come del principio di uguaglianza non possa darsi
una lettura talmente ampia da mettere a repentaglio la stessa potestà di
legiferare, essendo a questa sottesa una facoltà di scelta e selezione
che porta oggettivamente, ma legittimamente con se un corollario di
conseguenze discriminatorie fra gli individui in relazione alla loro
specifica collocazione.
Qualsiasi politica di eliminazione delle disparità sociali infatti,
presuppone l'identificazione anzitutto di classi logiche, se è vero che
"nessuno difende l'eguaglianza come totale sovrapponibilità degli enti
eguali; il più accanito partigiano dell'eguaglianza fra uomini e donne
non intende che uomini e donne debbano diventare identici nel corpo,
nelle funzioni organiche e nello spirito, ma intende che siano trattati
con i medesimi criteri o con criteri riparatori della disuguaglianza
generata da altri criteri"(
3
)
3
Scarpelli U.,Classi logiche e discriminazioni fra i sessi, in LD, 1988, pp. 615 ss.
13
I termini della questione si riducono allora alla possibilità di utilizzare
il principio espresso dal secondo comma se non in antitesi quanto
meno in contrapposizione con il primo, se cioè lo strumento per
realizzare l'uguaglianza effettiva possa consistere nell'adozione di
discipline giuridiche che discriminano altre classi di soggetti collocati
oggettivamente nella stessa posizione e differenziantisi
esclusivamente in ragione del sesso.
Il fatto che non sia solo possibile ma anche lecito per il legislatore
riproporre il singolare paradosso di adottare come mezzo un diritto
diseguale, perseguendo il fine del raggiungimento dell'effettiva
uguaglianza sociale fra i sessi in tema di lavoro discende proprio dalla
funzione promozionale da attribuirsi al principio di uguaglianza
sostanziale, in riferimento al quale parrebbe addirittura più opportuno
parlare di "eguagliamento" o "parificazione".
Scopo finale dell'applicazione di tale concetto rimane ancora
l'uguaglianza, intesa però stavolta non sotto forma di identità fra
persone assunte come neutre, ma appunto come eguagliamento fra gli
individui tenuto conto delle differenze, di genere, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali che
intercorrono tra essi.
Fine ultimo della parificazione è l'eliminazione non delle differenze
(che neppure è l’obiettivo dell'uguaglianza formale, che da esse si
limita a fare astrazione) ma delle conseguenze negative che da queste
direttamente ed inevitabilmente derivano.
Essa, nella sua accezione positiva, implica la presa di coscienza delle
disparità che pesano su classi di persone o gruppi sociali diversi e del
fatto che l'appartenere ad essi è logica precondizione di quelle
giustificate deviazioni dall'uguaglianza formale che si sostanziano nel
garantire agli svantaggiati pari opportunità.
In questa prospettiva trovano dunque ragion d'essere le tanto discusse
azioni positive contemplate dalla legge n. 125 in quanto misure
tendenti a ristabilire proprio quella uguaglianza di opportunità e a
14
contrastare i condizionamenti storici che da sempre inevitabilmente si
frappongono fra la donna e il suo diritto al lavoro consentendole
l'accesso ad un’uguaglianza di trattamento giuridico da cui di fatto è
stata a lungo esclusa perché versa in condizioni di sostanziale
inferiorità che la discriminano.
Se guardiamo infatti agli scopi della legge, enunciati nel primo comma
dell’articolo 1, vediamo come essa si prefigga di “favorire
l’occupazione e di realizzare l’uguaglianza sostanziale fra uomini e
donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure denominate
azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di
fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”.
Immediato e fin troppo evidente è il richiamo al secondo comma
dell’articolo 3 della Costituzione, così come logico è l’accostamento
delle azioni positive a quegli strumenti di diritto diseguale da esso
introdotti e legittimati.
Questo rinvio va così a costituire il substrato ideologico e la
giustificazione teorica non solo della legittimità, ma anche della
doverosità di un intervento legislativo che si pone quale prima
esplicita attuazione della norma costituzionale che sancisce il carattere
di principio fondamentale della nozione sostanziale di uguaglianza.
Concepire le donne come un “gruppo” infatti, significa fare astrazione
da quelle caratteristiche differenzianti che pure sono le condizioni
socioeconomiche per affermare che esse appartengono alla stessa
classe logica sulla base di caratteristiche comuni.
Partendo dall’ovvia constatazione che quella uomo-donna è solo una
delle innumerevoli distinzioni possibili nella società come nel diritto,
quello del lavoro in particolare, si caratterizza come un diritto, “tipico
del welfare state e della sua vocazione interventista“(
4
), a razionalità
materiale, che si giustifica sulla base di concrete valutazioni e di
altrettanto concreti obiettivi che il legislatore si pone nella allocazione
di quella risorsa limitata che è l’occupazione. Ogni classificazione dei
lavoratori è giustificata dai fini della classificazione stessa, che
15
devono pur sempre risultare compatibili con i principi generali
dell’ordinamento, in primis quelli costituzionali.
Detto ciò, la giustificazione di un diritto diseguale, inteso come
insieme di regole preferenziali, quali in questo caso le azioni positive,
è la medesima che accomuna altre categorie, sottocategorie, gruppi
che per le più diverse motivazioni socioeconomiche, culturali o
fisiologiche si vengono a trovare in una condizione di oggettivo
svantaggio che le penalizzano.
Si tratta dunque pur sempre del richiamo alla nozione uguaglianza
sostanziale.
Illustrate quindi le diverse, possibili ricostruzioni avanzate in merito ai
rapporti fra legislazione in tema di parità uomo-donna nel lavoro e
principio di uguaglianza come suo ineliminabile referente storico e
giuridico, questa mi pare a tuttora la più esatta.
Da uno sguardo d’insieme, infatti, emerge in modo chiaro che se la
legge del 1977 sulla parità di trattamento può ancora essere facilmente
ricondotta entro i binari dell’uguaglianza formale, probabilmente per
aver prestato maggiore attenzione agli aspetti garantistici piuttosto che
a quelli promozionali della questione, altrettanto non può dirsi della
legge 125 del 1991 sulle azioni positive.
In essa troppo marcato è il riferimento all’uguaglianza sostanziale,
troppo evidente la similitudine tra gli ostacoli che di fatto impediscono
la realizzazione di pari opportunità e quelli che impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese,
per aderire alla prima impostazione.
Anche nella sua più attenuata versione infatti, cioè quella che propone
una lettura “valutativa” dell’uguaglianza formale, essa pare ancorare
la costituzionalità delle azioni positive su basi giuridiche troppo
instabili, con la conseguenza di rinviare ogni giudizio di legittimità ad
una valutazione delle forme concrete nelle quali tali misure vengono
calate.
4
D’Antona, Uguaglianze difficili, in Lav. Dir.,1992 ,p. 600
16
Tramite il secondo filone interpretativo, invece, è possibile proporre
un’altra concezione valutativa che, introducendo un elemento di
giustizia, converte l’uguaglianza in equità, per il tramite della sua
nozione sostanziale.
Essa infondo non significa altro che trattare le persone equally e non
as equals (come fossero uguali). Significa spostare l’attenzione da una
paritaria distribuzione di opportunità o benefici, ad un metodo di
allocazione che garantisca la considerazione della reale situazione e
delle caratteristiche di ciascuna persona o di ciascun gruppo cui
rivolgere medesimo rispetto e considerazione.
Non è la preziosa differenza extragiuridica degli individui o delle
classi di individui che deve essere rimossa ma le conseguenze negative
che derivano dall’applicazione di regole uguali a soggetti che tali non
sono, nel quadro costituzionale del pieno sviluppo della persona
umana e dell’effettiva partecipazione alla vita comune.
La concezione di uguaglianza che legittima le azioni positive non è
quindi quella as a right, bensì as a policy (
5
).
Un’uguaglianza sostanziale da realizzarsi per il tramite di un diritto
diseguale e del “sacrificio” di quella formale, sacrificio direttamente
proporzionale al grado di tutela che l’ordinamento è disposto ad
apprestare alle categorie meno fortunate e bisognose di un intervento
riequilibratore.
A riprova della legittimità di trattamenti giuridici preferenziali
positivamente accordati alle donne sta infine la lettura che si è data in
dottrina e in giurisprudenza dell’articolo 37 Cost in riferimento ad
alcuni degli scopi della legge n. 125.
Tralasciando, per ora, la parte riguardante il diritto alla parità
retributiva, viene qui in rilievo soprattutto quella che esalta e
sottolinea l’essenziale funzione e dimensione familiare della donna in
rapporto alle condizioni di lavoro.
5
Dworkin, R., Discriminazione alla rovescia, Bologna, Il Mulino, 1982.