4
INTRODUZIONE
Saper stare con i coetanei è uno dei compiti di sviluppo più complessi che un
bambino si trova ad affrontare nei primi anni di scuola quando il suo mondo, fino ad
allora composto prevalentemente dal nucleo familiare, si apre ad altre relazioni e a nuovi
orizzonti. Sin dal primo giorno di scuola dovrà imparare a come comportarsi, come
entrare in un gruppo e negoziare le regole di un gioco. Si troverà, inoltre, ad affrontare
nuove relazioni simmetriche e asimmetriche senza la mediazione dei genitori, avendo
come risorse il proprio temperamento e il bagaglio di esperienze e insegnamenti
interiorizzati che provengono dalla famiglia. Quest’ultima svolge un ruolo fondamentale
nella maturazione emotiva e intellettiva del bambino; essa è portatrice di valori e abilità
che sono lo specchio della cultura di riferimento.
Naturalmente non tutti i bambini assolvono questi compiti con le medesime
competenze. Alcuni fin dalla tenera età si dimostrano capaci nel relazionarsi con i pari,
altri sviluppano atteggiamenti prepotenti o aggressivi per farsi accettare, altri ancora si
mostrano inibiti nel rapportarsi con il prossimo.
Per la maggior parte dei bambini l’amicizia è una delle principali componenti della vita;
essa occupa, sia nel mondo reale che in quello della fantasia, una gran parte della
giornata del bambino. Essa è fonte delle più grandi gioie ma, al tempo stesso, delle più
grandi frustrazioni. All’interno di questa gamma di situazioni esistono comportamenti
giudicati dalla società e dai genitori come prosociali, quindi positivi, o, all’opposto,
negativi. Esiste infatti un insieme di regole sociali condivise che la società giudica
accettabili, auspicabili oppure no, trasmessi dalla famiglia attraverso le pratiche educative
e di socializzazione dei propri figli.
Non tutte le culture, però, hanno gli stessi valori e le stesse regole. In Italia, la
socializzazione tra bambini è avvenuta più complessa con l’ ingresso di nuovi mondi
culturali. È sempre più frequente trovare classi miste o incontrare ai giardinetti bambini
provenienti da altre nazioni. Questo significa che genitori e bambini possono trovarsi a
confrontarsi con modi diversi di fare amicizia. Un bambino, ad esempio, che risolve un
problema picchiando può esser visto come valoroso in alcune culture, mentre in altre può
5
essere considerato inadeguato. In alcuni contesti la socializzazione è fondamentale, in
altre la riservatezza è un principio condiviso.
Il presente lavoro è dedicato proprio allo studio della rappresentazione
dell’amicizia nei bambini di varie culture e di come le pratiche educative che i genitori
mettono in atto nei loro confronti influenzino tale visione. In particolare si è fatto
riferimento a bambini romeni, sudamericani, nigeriani, cinesi e italiani.
Il lavoro si articola nel modo seguente.
Il primo capitolo è dedicato alla trattazione teorica di quanto la cultura del proprio paese
di appartenenza abbia un’ incidenza sullo sviluppo del bambino.
Viene analizzato nel secondo capitolo ciò che in psicologia è definito il parenting,
ossia le pratiche che i genitori mettono in atto nell’educazione dei figli.
Il terzo capitolo si occupa dello sviluppo del bambino, in particolare di quello in età
scolare, con alcuni riferimenti allo studio della competenza sociale e dei legami di
amicizia.
Infine, l’ultimo capitolo illustra i risultati ottenuti tramite una ricerca sul campo, il
cui obiettivo era quello di verificare l’ipotesi secondo cui bambini di culture e sesso diversi
sviluppano criteri riguardanti le relazioni tra pari e amicali differenti e di come i genitori
possono influenzarli.
6
CAPITOLO 1
LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO
1.1.La scoperta della natura culturale dello sviluppo
Nella seconda metà del XIX secolo ci fu un aumento senza precedenti
dell’interesse del pubblico verso l’infanzia : figure di spicco come scrittori e poeti
parlarono di sfruttamento e abbandono, rivendicarono i diritti dell’infanzia e del
benessere dei più piccoli. Legislatori ed educatori si spesero per salvare i bambini dalla
morsa del lavoro industriale e dalla povertà, resero obbligatoria la scuola e introdussero il
Kindergarten, basato sul modello teorico di educazione per la prima infanzia.
Negli stessi anni, anche l’ambiente scientifico era in fermento: medici, psicologi e
sociologi ,attraverso i loro studi, gettavano una nuova luce sulla condizione dell’ infanzia e
sui suoi bisogni in termini scientifici. Nei primi anni del 1900, ad esempio, l’attenzione per
l’igiene nella prima infanzia diventò una questione dominante nella politica di salute
pubblica che tra le altre iniziative includeva anche consigli medici dati alle madri.
Furono anni fertili che diedero vita a dibattiti, conferenze, seminari, nei quali ci si
interrogò a lungo sulle principali forme di allevamento e di educazione dei bambini
dell’America e dell’Europa e si elaborarono principi basati su un’ idea universale di
sviluppo. Autori come Piaget (1896-1980) formularono, infatti, teorie psicologiche basate
sulla natura biologica dello sviluppo, scandito e influenzato da basi biologiche comuni a
tutti gli esseri umani.
Inoltre, i processi migratori che caratterizzarono fortemente quegli anni
favorirono il contatto con culture diverse e aprirono la visione su modi di vivere differenti.
Una piccola ma persistente scuola di pensiero iniziò a preoccuparsi dei limiti dello studio
del comportamento umano effettuato unicamente in laboratorio, sebbene il paradigma
sperimentale abbia continuato a dominare quella che era la scena scientifica di quegli
anni. Le origini interdisciplinari di tale nuovo pensiero presentano connessioni con gli
studi di Margaret Mead e di altri antropologi, i quali notarono differenze culturali nello
7
sviluppo infantile in paesi come le isole Samoa e la Nuova Guinea. Tali studi, effettuati su
comunità extraoccidentali, misero in luce quanto gli assunti metodologici della psicologia
dello sviluppo fossero parziali e inadeguati (Quadrio, Castellani, 1996). Nella metà degli
anni Settanta, sotto l’influenza di queste nuove scoperte, si assistette nel campo della
psicologia dello sviluppo a un cambiamento riguardante il ruolo dell’ambiente nello
sviluppo. Sempre più studiosi si interrogarono sul possibile nesso tra cultura e biologia e i
comuni protocolli scientifici fin a quel momento utilizzati in campo psicologico vennero
messi in discussione.
McCall (1977), in una delle critiche più apprezzate di quello che è stato il lavoro
modale nella psicologia dello sviluppo, focalizzò l’obiettivo sui problemi riguardanti il
paradigma del laboratorio. Egli scrisse: “Pochi studi sono interessati allo sviluppo così
come avviene nell’ambiente naturale”. Attribuì così la superficialità di molte ricerche
all’eccessiva dipendenza dal metodo sperimentale, che era diventato “un imperativo
piuttosto che uno strumento utile alla ricerca” (1977, p. 333). Poiché non è pratico né
etico manipolare aspetti essenziali dello sviluppo umano, McCall concluse che le ricerche
di laboratorio non possono rispondere alle domande fondamentali della disciplina.
Queste nuove correnti di pensiero promossero, dunque, la necessità di studiare i
fenomeni sul campo valutando gli aspetti ambientali in cui il bambino è immerso.
Fino a quegli anni, gli studiosi avevano tratto conclusioni generali affermando che
ogni bambino si comportava allo stesso modo rispetto ai suoi coetanei. Ad esempio,
molte ricerche si adoperarono a determinare a che età il bambino manifestasse specifiche
abilità.
Piaget, ad esempio, elaborò una teoria basata su stadi precisi in cui il bambino, passando
da uno stadio evolutivo all’altro,avrebbe dovuto mostrare un grado di competenza
differente da quello precedente.
L’orientamento culturale di quegli anni sottolineò , inoltre, come culture differenti
si aspettassero particolari capacità dai bambini in periodi diversi dell’infanzia e
considerassero pericolosi o anche sorprendenti le tappe di altre culture.
Per fare un esempio, nelle famiglie della middle class occidentale, in genere si
ritiene che i bambini non siano in grado di badare a se stessi almeno fino ai dieci anni. In
8
nazioni come la Gran Bretagna o l’Italia, fino ai quattordici/quindici anni è reato lasciare
da solo un bambino senza la supervisione di un adulto. Tale assunto non è universalmente
valido. In molte comunità dell’ America Latina o africane, i bambini iniziano ad assumersi
la responsabilità di se stessi e di altri bambini a cinque- sei anni(Rogoff, 2004).
Divenne, dunque, necessario interrogarsi su quanto il contesto culturale di
appartenenza influenzasse lo sviluppo infantile e in quali termini.
Erano, quindi, da ridefinire i metri di classificazione fino a quel momento
considerati validi. L’età, divenuta criterio di classificazione nella seconda metà
dell’Ottocento e unità di misura dello sviluppo nei primi anni del Novecento, fu ben
presto messa in discussione. Non era più possibile stabilire un’età precisa in cui lo
sviluppo mentale consentisse al bambino di essere responsabile degli altri o di stabilire a
che età il livello di coordinazione e di giudizio permettesse, per esempio, al bambino di
maneggiare oggetti affilati senza correre rischi ( Rogoff, 2003).
Risultava ormai chiaro che “la variabilità delle aspettative riguardanti i bambini e il
loro sviluppo acquista significato solo se si tiene in considerazione le diverse condizioni di
vita e le specifiche tradizioni e pratiche culturali come, ad esempio, il diverso modo di
preparare il pranzo o di accudire un bambino, la disponibilità di forme di sostegno, quali
pericoli sono in agguato, come sono distribuiti i ruoli sociali degli individui e quali sono i
traguardi evolutivi previsti per essere considerati adulti”(Rogoff, 2004, p. 5).
Un errore fondamentale, infatti, consisteva nel voler separare l’individuo dal resto
del mondo, attribuendogli una serie di caratteristiche generali, solo secondariamente
influenzate dalla cultura.
Divenne così necessario trovare una via di conciliazione tra sviluppo individuale e
processi culturali.
1.2. Le teorie principali
1.2.1 Lev Vygotski
A partire da queste premesse, si diffuse un approccio diverso dalla psicologia
tradizionale chiamata prospettiva storico- culturale. Il fondatore di questo orientamento
fu uno psicologo russo di nome Lev Vygotskij, vissuto nei primi anni del 1900.
9
In accordo con le sue idee marxiste, egli vedeva la natura umana come un
prodotto socioculturale constatando che, sin dalla nascita, i bambini beneficiano della
saggezza accumulata dalle generazioni precedenti trasmessa attraverso le interazioni con
il caregiver. Col tempo ogni società perfeziona oggetti e abilità da tramandare alle
generazioni successive.
Acquisire questi strumenti culturali aiuta il bambino a vivere in un modo più
efficace e sereno secondo le consuetudini sociali.
È da tener presente che, secondo Vygotskij, la legge genetica generale dello
sviluppo è che ogni funzione psichica appare due volte nello sviluppo culturale del
bambino: prima sul piano interpsicologico, sociale, poi sul piano intrapsicologico, perché
le relazioni sociali tra le persone sono geneticamente prioritarie. L’ intelligenza, per
esempio, è l'interiorizzazione di funzioni cognitive: non ci sono strutture psichiche
predeterminate o schemi universali; lo sviluppo cognitivo è determinato dall’ interazione
con il contesto umano e sociale.
Lo sviluppo viene, inoltre, esaminato in base a tre livelli:
1- Gli aspetti culturali: in quanto la natura umana è un prodotto storico- culturale.
I bambini beneficiano della saggezza accumulata dalle generazioni precedenti, ogni
generazione si appoggia a quella precedente e ne riprende la cultura specifica al fine di
svilupparla ulteriormente. Vengono così trasmessi e tramandati ciò che Vygotskij
definisce “strumenti culturali”(Rogoff,2004), di cui fanno parte sia strumenti psicologici
sia tecnologici: il computer, la calcolatrice, il linguaggio, le teorie matematiche ne sono
degli esempi. Tali acquisizioni permettono ai bambini di vivere in modo efficace e più
accettabile secondo le consuetudini sociali.
2- Gli aspetti interpersonali: lo sviluppo cognitivo è il risultato delle interazioni con
altre persone più competenti. Caratteristica della natura umana è nel bambino la capacità
di sfruttare l’aiuto e l’insegnamento, e nell’adulto di offrire aiuto e insegnamento.
3- Gli aspetti individuali: Il bambino è attivo nello sviluppo delle proprie conoscenze,
ma esse non sono vissute in solitudine, poiché sono il risultato di interazioni con altre
persone più competenti.
10
Secondo Vygotskij, l'insegnamento precede lo sviluppo cognitivo: vi è , infatti,
interconnessione tra sviluppo, apprendimento e insegnamento. Lo sviluppo cognitivo è il
frutto di una relazione triadica tra il bambino, le conoscenze storicamente prodotte e gli
altri (coetanei inclusi). Il contesto è rappresentato quindi da due centri d’influenza: gli
agenti prossimi di socializzazione - adulti e coetanei - e il patrimonio culturale del periodo
storico - gli strumenti materiali e simbolici.
Gli adulti, svolgendo il ruolo di tutor nella risoluzione dei problemi, favoriscono lo
sviluppo cognitivo e passano a ogni singolo bambino gli strumenti culturali necessari per
l’attività intellettuale all’interno di una “zona di sviluppo prossimale”, intesa come la
differenza tra le abilità pregresse dei bambini e quanto possono apprendere con l’aiuto di
una guida; cioè, in quell'area di supporto presidiata dall'altro (adulto o compagno più
esperto) nella quale il bambino può operare "al di là" del suo livello attuale. Ciò che si
interiorizza sono "attività di natura sociale e culturale" (Shaffer,2004,p.221), cioè relazioni
(non azioni). Le interazioni all’interno della zona di sviluppo prossimale consentono al
bambino di partecipare ad attività che non potrebbe affrontare da solo, attraverso gli
strumenti culturali che di volta in volta vengono adattati al compito.
1.2.2 Jerome Bruner
Interessante teoria relativa alla natura culturale dello sviluppo con particolare
riferimento agli aspetti cognitivi è quella formulata nella seconda metà del 1900 da uno
psicologo statunitense di nome Jerome Bruner. Teoria portante del pensiero di Bruner è
che la mente elabora una molteplicità di modelli per l’interpretazione della realtà. Per
spiegare tale teoria l’autore esamina gli atti mentali che caratterizzano varie discipline
,dalla letteratura, all’arte e alla scienza. Gli atti mentali rappresentano la creazione
immaginativa di mondi possibili, e sono il risultato della nostra storia e della nostra
cultura. Bruner riprende in tal senso la concezione ontologica di Goodman, secondo il
quale non esiste una realtà “originaria” con cui si possa confrontare un mondo possibile
per stabilire una qualche forma di corrispondenza tra questo e il mondo reale
(Bruner,1996). Gli esseri umani producono i loro mondi in modi diversi in base
all’esperienza vissuta e alle attese future. Nella costruzione della realtà psicologica e
11
culturale interviene in modo decisivo la percezione personale. Bruner sostiene che i
processi mentali hanno un fondamento sociale e che la cognizione umana è influenzata
dalla cultura, attraverso i suoi simboli, artefatti e convenzioni. Lo sviluppo è fortemente
influenzato dagli scopi e dalle intenzioni che governano il contesto. A questo proposito,
anche il pensiero del bambino raggiunge la maturazione attraverso tre forme di
rappresentazione:
1- esecutiva: la realtà viene codificata attraverso l’azione.
2- Iconica: la realtà viene codificata attraverso le immagini.
3- Simbolica: la realtà viene modificata attraverso il linguaggio e altri sistemi
simbolici.
Nel suo libro”La cultura dell’educazione” nel parlare di cultura egli spiega: ”Come
amano dire alcuni antropologi, la cultura è una cassetta degli attrezzi di tecniche e di
procedure per capire e gestire il proprio mondo … La cultura non è altro che questo; non
è costituita semplicemente da poemi antropologici scritti in prosa su situazioni esemplari,
ma è un modo di venire a capo dei problemi umani, delle transazioni umane di ogni tipo,
rappresentate in forma simbolica” (..) ( Bruner, 1996,p.111).
A partire dalle principali teorie dello sviluppo, Bruner riprende l’approccio relativo
all’apprendimento come scoperta. Egli scrive: “l’educazione è un’attività complessa, che
si propone di adattare una cultura alle esigenze dei suoi membri e di adattare i suoi
membri e i loro modi di conoscere alle esigenze della cultura. L’apprendimento è
un’attività comunitaria, è il processo per il quale si perviene a condividere la cultura
(..)”(Bruner, 1996, p. 55-56,156”).
In particolare, le teorie di Vygotskij hanno influenzato in modo rilevante il pensiero
di Bruner. Per Vygotsky l’uomo è soggetto al gioco dialettico tra natura e storia, tra
qualità biologiche e culturali. La costruzione della conoscenza si colloca in una zona di
sviluppo prossimale, che rappresenta la distanza tra il livello evolutivo reale, vale a dire la
reale capacità di soluzione dei problemi, e il livello di sviluppo potenziale, determinato in
termini di capacità di soluzione dei problemi sotto la guida di un adulto o in
collaborazione con coetanei più capaci.