3
Introduzione
La tesi intende innanzitutto fornire una rapida panoramica di quella produzione letteraria
comunemente definita come “Letteratura Industriale”, introducendone i temi principali e
presentando quegli autori che ne hanno tracciato lo sviluppo dal finire degli anni ’50 alla metà del
decennio successivo. Il primo capitolo consta di due parti, la prima delle quali è interamente
dedicata a ripercorrere (in via necessariamente schematica e semplificata) il dibattito culturale
accesosi nel nostro paese a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 attorno ai temi della contemporaneità,
rappresentati in primo luogo dall’industria, intesa come la manifestazione più evidente della
modernità. Attraverso i più significativi interventi apparsi sul periodico letterario “Il Menabò di
letteratura” ad opera di alcuni tra i più importanti intellettuali Italiani dell’epoca, si cercherà poi di
tracciare un quadro generale sul rapporto Letteratura-Industria, mettendo in luce in particolar modo
gli stimoli e le istanze narrative e stilistiche di cui tali interventi erano diretta espressione. La
seconda parte del primo capitolo propone invece, senza alcuna pretesa di esaustività ed in una
scansione rigorosamente cronologica, una rassegna di quelle opere narrative scaturite dal dibattito
sul tema Letteratura e Industria, presentandone i motivi fondamentali e la loro evoluzione nel
tempo. Il secondo ed il terzo capitolo costituiscono il vero nucleo della tesi e sono interamente
dedicati all’analisi critica dell’opera narrativa di Paolo Volponi, comunemente considerato come il
principale esponente della Letteratura Industriale. I suoi due primi romanzi, quelli più legati al
“filone industriale” e giustamente ad esso solitamente ricondotti, sono esaminati nel secondo
capitolo, mentre la terza e conclusiva parte è dedicata ai romanzi successivi, con i quali lo scrittore
amplia il proprio orizzonte d’indagine oltre il mondo industriale, verso la società tutta.
Ogni romanzo è analizzato rigorosamente in un continuo raffronto critico con il testo, nel tentativo
di far emergere significati e temi nascosti e giungere a pertinenti valutazioni sullo stile e sul
contenuto. Particolare attenzione è dedicata poi ai protagonisti di ogni romanzo; essi infatti, intesi
come il vero filo rosso attraverso cui dipanare l’intera opera narrativa Volponiana, divengono
l’oggetto privilegiato di una meticolosa indagine volta a mettere in luce le aspirazioni, i turbamenti,
le denunce e le domande che Paolo Volponi affida ai suoi romanzi.
4
Capitolo I – La “Letteratura Industriale”
I.1 Il dibattito sul rapporto Letteratura – Industria
Tra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ’60, terminato il periodo della ricostruzione postbellica,
l’Italia conosce una seconda rivoluzione industriale e si affaccia alla realtà nuova di paese moderno.
Le conseguenze sono di enorme portata, sia sulle condizioni materiali della vita degli italiani, sia
sull’insieme dei rapporti sociali, dei comportamenti e della mentalità. Tali cambiamenti toccano
ovviamente anche la vita culturale e la letteratura che non può certo rimanere estranea alle
trasformazioni che riguardano la società italiana.
Il periodico letterario più importane per focalizzare i raccordi tra letteratura e società industriale
dell’Italia dell’epoca fu, senza dubbio, il “menabò di letteratura”, la rivista diretta da Elio Vittorini
ed Italo Calvino, di cui uscirono presso Einaudi dieci fascicoli tra il 1959 ed il 1967. Vittorini
intendeva con la pubblicazione della sua rivista, ristabilire a favore della letteratura contemporanea
un raccordo critico e problematico con il mondo che stava cambiando; prima ancora che il
“menabò” venisse pubblicato infatti, così ne parlava lui stesso:
“E vorremmo riuscire a trovare (o a provocare) dei testi che sapessero rinnovare il
rapporto con la storia e ripristinarne insieme uno con la natura […] se poi non riusciremo
a trovarne, di testi in questo senso, avremo documentato l’impossibilità attuale di
averne”
1
La rivista doveva provocare riflessioni critiche con dirette e puntuali sollecitazioni e quindi le sue
stesse dimensioni dovevano essere sufficientemente ampie da contenere testi di narrativa “così
lunghi che ciascuno di essi dovrebbe poter fare libro a sé”.
2
Sempre nella premessa redazionale sopra citata è espresso il proposito d’affrontare la “crisi della
letteratura” partendo dalle condizioni contemporanee, rintracciate nel livellamento delle esperienze
della cultura umanistica attraverso le manifestazioni della cultura di massa.
Per Vittorini, risolvere la crisi della letteratura significava recuperare (per la letteratura stessa) la
capacità di conoscere e riprendere un reale rapporto tra l’uomo ed il mondo in cui esso vive. Il
rilancio industriale già avviato stava mutando la società italiana, pertanto la letteratura doveva
recuperare tensione e rigore, diventando operativa nella realtà contemporanea e riacquistando lo
spirito critico necessario per decifrare una società che stava assumendo la complessa configurazione
di paese industriale. Il declino della tradizionale società letteraria nel corso degli anni ’50 suscitava
l’esigenza, per i responsabili della rivista “Il Menabò” di pubblicare testi significativi atti a
promuovere la comprensione del processo storico-culturale in atto allora in Italia, da poco entrata,
come società in rapido sviluppo industriale, nella fase del così detto “miracolo economico”.
Dalla fine degli anni ’50 in poi iniziò a fiorire una serie di opere, specialmente di carattere
narrativo, che erano ispirate alla nuova realtà industriale. Per verificare se tale nuova produzione
1
E. Vittorini, scrivo libri ma penso ad altro, in “Il Giorno”, 24 Febbraio 1959.
2
E. Vittorini, premessa al Menabò N.1, 1959.
5
letteraria poteva essere definita in qualche modo come “Narrativa Industriale”, bisognava
innanzitutto verificare che l’oggetto di tale narrativa fosse la realtà contemporanea rappresentata da
fabbriche ed aziende. Elio Vittorini si mostrò preoccupato, poiché era necessario arrivare ad una
appropriata e convincente sistemazione di questo genere letterario (che in quel momento prometteva
ulteriori sviluppi), così affrontò tale questione, ormai giunta secondo lui a sufficiente maturazione,
con l’articolo pubblicato nel “Menabò di Letteratura” del 1961 dal titolo “Industria e Letteratura”,
con il quale si impegnò a discutere un argomento abbastanza complesso affinché si arrivasse ad un
sufficiente processo di chiarificazione utile ad illustrare a tutti il nesso esistente tra il lavoro
intellettuale e la realtà economico-sociale, in accordo con l’esigenza che tale argomento suscitava ai
più preparati rappresentanti della società letteraria italiana del tempo.
Scegliendo la tematica della contemporaneità (che, come detto, nei primi anni ’60 riguardava in
primis lo sviluppo industriale), l’articolo già citato prendeva in considerazione testi poetici e
narrativi (raccolti nello stesso fascicolo n.4 del menabò) che facevano specifico riferimento appunto
alla “tematica industriale”.
I testi narrativi erano la prosa di Ottiero Ottieri “Taccuino Industriale” ed il racconto di Luigi Davì
“Il Capolavoro”, a proposito dei quali Vittorini così si esprimeva:
“E i narrativi, lungi dal trarre qualunque vantaggio di novità di sguardo (e di giudizio)
dalla nuova materia che trattano, sembrano invece trovarsene totalmente impacciati che si
comportano dinanzi ad essa come se fosse un semplice settore nuovo d’una più vasta
realtà già risaputa […] riducendosi con ciò a darne degli squarci pateticamente (o
pittorescamente) descrittivi che risultano di sostanza naturalistica e quindi d’un
significato meno attuale di altri testi che magari ignorano tutto della fabbrica, del lavoro
specializzato, delle strutture aziendali, ecc. ecc. ma ne sono profondamente influenzati
per riflesso dei loro effetti sulla condizione dell’uomo in generale.”
3
Vittorini quindi condensa in questo articolo le sue riserve circa i testi raccolti nel fascicolo n.4 del
“Menabò”, sottolineando che i narrativi sopra citati avevano trattato nelle loro opere di fabbriche e
del mondo operaio per esprimere il loro impegno culturale e sociale, tuttavia ciò non bastava per
instaurare con la complessa realtà industriale un rapporto conoscitivo e possibilmente rivelativo
delle nuove dimensioni di quella realtà. In altre parole, un semplice aggiornamento tematico non era
assolutamente sufficiente; occorreva piuttosto che gli scrittori, orientati ad interessarsi nelle loro
opere della società industriale, eludessero le vecchie prospettive culturali e psicologiche della
rappresentazione letteraria proprie del naturalismo e del neorealismo: non bastava allora
semplicemente acquisire nuovi contenuti (la rappresentazione della fabbrica moderna in luogo del
mondo contadino o dei quartieri poveri cittadini), la letteratura doveva invece cogliere le
trasformazioni antropologiche profonde provocate dall’ industria ed assumerle all’interno del
proprio modo di guardare la realtà.
Per una narrativa poi, che volesse evocare completamente il mondo dell’industria, era
indispensabile una costante ricerca ed invenzione linguistica. Leggiamo ancora dall’articolo di
Vittorini: “E la narrativa che concentra sul piano del linguaggio tutt’intero il peso delle proprie
3
Elio Vittorini, Industria e Letteratura, in “Il Menabò di letteratura” n.4, 1961, pp. 13-14.
6
responsabilità verso le cose risulta a sua volta, oggi, ad assumere un significato storicamente attivo
[…]”
4
In sostanza, non era certo importante se in un racconto c’era o meno la rappresentazione della vita
di fabbrica, per Vittorini l’unico modo di fare letteratura nel presente era quello di parlare, senza
restrizioni tematiche, del mondo che veniva trasformato dalla presenza ormai diffusa ed articolata
dell’ industria; a conferma di ciò la conclusione dell’ articolo Industria e Letteratura qui più volte
citato:
“I significati di una realtà dipendono dagli effetti infiniti che si producono in essa a
partire da una certa causa. La realtà contadina ha preso via via i suoi significati dal
mondo grandioso e mutevole degli effetti che la coltivazione del suolo ha messo in moto.
E la realtà industriale è dal mondo degli effetti messo in moto a mezzo delle fabbriche
che può prendere i significati suoi. […] La verità industriale risiede nella catena di effetti
che il mondo delle fabbriche mette in moto. E lo scrittore, tratti o no della vita di fabbrica,
sarà a livello industriale solo nella misura in cui io suo sguardo e il suo giudizio si siano
compenetrati di questa verità e delle istanze […] ch’essa contiene.”
5
4
Elio Vittorini, op. cit. p.18.
5
Elio Vittorini, op. cit. p.20.
7
I.2 Scrittori di “Narrativa Industriale”: Davì, Ottieri. Mastronardi, Parise
Al dibattito teorico nel corso degli anni ’60 si accompagnò effettivamente una produzione narrativa
che faceva i conti con il mondo industriale e che ebbe le sue prime manifestazioni già negli ultimi
anni del decennio precedente. Nel 1957 venne pubblicato il libro di racconti di un operaio scrittore,
Luigi Davì, dal titolo Gymkhana-Cross nella collana dei “Gettoni” diretta da Vittorini che così si
esprimeva a proposito del giovane scrittore:
“Luigi Davì è un operaio tornitore che impiega gran parte delle sue serate e delle sue
domeniche a scrivere. […] Senza molta versatilità nelle letture, senza mai grosse
infatuazioni letterarie, immerso interamente nel gergo e nella mentalità della covata
suburbana cui appartiene, riferisce alla rinfusa di tutto l’amaro e il dolce che un giovane
operaio si trova ad assaporare della sua vita d’ogni giorno […] eppure sa darci ben di più
che del semplice “colore di classe” e ha messo insieme un libro che non si può non
considerare il più genuino dei non molti apparsi finora in Italia con personaggi operai. Per
quanto privo di una vigile coscienza letteraria egli prende così posto, grazie all’attualità di
quello che è, tra i più avvertiti scrittori italiani dell’ultima generazione […] specie di
Calvino che lo aiuta da un pezzo a precisarsi.”
6
L’operaio scrittore Luigi Davì stava molto a cuore anche ad Italo Calvino che lo considerava in un
certo senso come uno scrittore da “allevare” aiutandolo a prendere coscienza dei suoi mezzi
espressivi, come accennato da Vittorini nella citazione riportata sopra. Se Calvino si era preso
dunque tanta responsabilità per un giovane scrittore esordiente ed autodidatta ne traiamo come
conseguenza che la sua raccolta di racconti Gymkhana-Cross meritava d’essere apprezzata ad un
livello molto alto, tale raccolta infatti qualificava un tipo di letteratura di cui si avvertiva il bisogno
in quanto con testimonianze nuove offriva un insegnamento aggiornato sulla troppo poco
conosciuta realtà del mondo del lavoro industriale.
Altro scrittore profondamente legato al lavoro in fabbrica era poi Ottiero Ottieri, un giovane
letterato che ottenne da Adriano Olivetti l’incarico di addetto al personale e consulente psicologo
della sua azienda e che riverserà la propria esperienza di fabbrica nei suoi romanzi “Tempi stretti” e
“Donnarumma all’assalto”. Il romanzo di Ottieri tempi stretti venne pubblicato nella collana dei
“Gettoni” nel 1957, al pari del libro di Davì e, proprio come quest’ultimo, ottenne l’approvazione di
Calvino, come leggiamo da una lettera da lui inviata a Vittorini:
“Ti mando un romanzo di Ottieri […] è un documentario di vita industriale, con tre
aziende diverse, di diverso stadio di sviluppo tecnico, viste in tutti i loro aspetti più
importanti e inediti […] e sulla Milano squallida e periferica. Mi pare il primo che parla
di queste cose con serietà e modestia documentaria e con vasta conoscenza diretta. Quel
po’ di intreccio […] serve a far muovere la macchina da presa e a rappresentare la
complessità della situazione industriale e operaia italiana.”
7
6
Elio Vittorini, i risvolti dei gettoni, a cura di Cesare De Michelis, Scheiwiller, Milano 1988, pp. 143, 144.
7
Italo Calvino, i libri degli altri, Einaudi, Torino, 1991, p.185.
8
Il primo successo narrativo di Ottieri fu, tuttavia, il romanzo Donnarumma all’assalto, pubblicato
nel 1959 e che indubbiamente trae i propri stimoli narrativi dalla funzione professionale svolta dallo
scrittore in prima persona presso l’azienda Olivetti di Ivrea. Il romanzo narra infatti in forma di
diario le vicende di uno psicologo inviato in una fabbrica da poco impiantata nel meridione, per
occuparsi della selezione del personale da assumere nello stabilimento, che è in realtà quello della
Olivetti, inaugurato pochi anni prima a Pozzuoli.
Non è all’interno della grande fabbrica ma è attorno alle piccole aziende che ruotano invece le
vicende dei romanzi di Lucio Mastronardi, il cui primo lavoro “Il calzolaio di Vigevano” venne
pubblicato nel primo numero del “Menabò”, che continuava così la strada intrapresa dalla collana
dei “Gettoni” nel pubblicare opere di scrittori emergenti. “Il calzolaio di Vigevano” raccontava le
vicende di due coniugi operai in uno dei molti calzaturifici di Vigevano, che rovinano persino la
propria salute pur di accumulare denaro e divenire da operai, padroni. Questo romanzo ottenne
positive valutazioni da Vittorini e da Calvino, il quale in una lettera scriveva: “Il Mastronardi mi
pare sempre di più sorprendente e unico come rappresentazione di un mondo nella sua perfetta
rozzezza.”
8
Mastronardi aveva dato il meglio di sé come scrittore rappresentando nel suo romanzo la comunità
in cui egli stesso viveva, una comunità affetta da una palese condizione di alienazione causata dal
lavoro, che unito al guadagno, rappresenta l’unica finalità esistenziale dei protagonisti del suo libro.
Mastronardi ci offre lo scorcio d’una società volgare, sempre impegnata a far soldi senza riuscire a
godersi la vita, e su di essa rovescia la corrosività della sua ironia, come giustamente rilevato dalla
riflessione di Michele Rago, sempre sul numero primo del Menabò:
“La molla del racconto è qui anche l’ambizione individuale, l’avidità, l’avvilimento
quotidiano […] la soluzione individuale, la promozione verticale del proletariato o
dell’artigianato alla borghesia […] è una smania studiata nel suo arrampicarsi su
occasioni politiche […] e smuove la città, Vigevano. […] Un velo umoristico copre la
vicenda drammatica di piccoli Don Chisciotte, in un racconto-cronaca teso ad individuare
la riposta ironia.”
9
Tematiche come alienazione, ambizione individuale, svilimento quotidiano, fin qui affrontate da
vari autori, saranno poi riprese e portate alle loro estreme conseguenze da Goffredo Parise col suo
romanzo del 1965 “Il Padrone”. In questo romanzo viene narrata in prima persona la storia di un
giovane impiegato in un’azienda di una grande città industriale, nella quale i dipendenti costretti a
rinunciare a tutte le loro autonomie, sono vittime d’un assoluto asservimento all’ opprimente
volontà del padrone. La degradazione del protagonista è tale da consentire al romanzo di
raggiungere soluzioni surreali, che inseriscono la quotidianità in un’atmosfera assolutamente
allucinata che punta all’annullamento della personalità umana; il protagonista del romanzo infatti, si
lascerà assorbire interamente dagli ingranaggi del sistema fino a trasformarsi in un puro oggetto
nelle mani del padrone.
8
Italo Calvino, i libri degli altri, cit. p. 296.
9
Michelangelo Rago in “Il Menabò” n.1 1959, pp.120-121.