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l’unico lenimento era l’affetto del fratello maggiore Roy
1
, unica sua
famiglia, che, oltre ad averlo accompagnato alla guida della Disney, gli è
stato vicino fino all’ultima sua notte. Il timore di essere figlio illegittimo,
sensazione rafforzata quando scoprì che il suo certificato di nascita
mancava e forse non esisteva affatto, con la relativa ricerca della donna che
sarebbe dovuta essere la sua vera madre, lo accompagna per tutta la sua
esistenza, rafforzando enormemente il suo sentimento di estraneità e
diffidenza nei confronti del suo padre violento, che ora, non essendo più il
suo vero padre, aveva un motivo per tutta la sua efferata durezza.
Quando Hoover offrì a Disney l’aiuto illimitato del FBI per far luce sul suo
passato, in cambio del suo aiuto per rendere più sicura la nazione, certo lo
“zio Walt” non poteva rifiutare. Nonostante il successo dei suoi film, il suo
animo cadeva in continue crisi depressive, sicuro dopo ogni capolavoro di
non poter mai più raggiungere quei livelli, ossessionato dall’idea che
Hollywood, sistema da ripulire, governato solo da ebrei europei immigrati,
volesse tenerlo fuori dai rami della distribuzione e delle sale, dove si poteva
avere accesso ai “veri” soldi, costringendolo solo nel campo della
produzione, dove al contrario era di primaria necessità investire. Il suo
nuovo incarico rappresentava per lui il possibile riscatto.
In un colpo solo, poteva servir la patria, dimostrare la propria lealtà, confermare la
propria dirittura morale a Hoover, il capo idealizzato di questa nuova famiglia, e
veder dischiusi i segreti della propria identità. Un simile intreccio di realtà e
fantasia rendeva la tentazione irresistibile. […] Dopo lo sciopero del 1941
2
, Disney
perse fiducia nei film d’animazione; ma in seguito all’alleanza con l’FBI, assegnò a
se stesso la parte del più grande “personaggio” che avesse mai immaginato: un eroe
1
Roy era il terzo figlio della famiglia; prima di lui Herbert e, di un anno più giovane,
Raymond. Walt era il quarto, venuto al mondo otto anni dopo; per ultima, nata nel
1903, una bambina, Ruth Flora.
2
Nel 1941scoppia uno sciopero prolungatosi per mesi, che mette in ginocchio la Disney
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veramente esistente, la cui missione era di ripulire il paese dagli elementi
sovversivi che minacciavano la grande famiglia politica americana. Mentre altri
davano la caccia a individui annidati nel sistema, il bersaglio di Disney finì con
l’essere il sistema hollywoodiano stesso, che credeva avesse cospirato ai suoi
danni, impedendogli di raggiungere il successo che pensava di meritare.
3
Crisi d’identità e crisi ossessive quindi sono al centro dell’esistenza di Walt
Disney. Tutte tematiche che si possono riscontrare con studi approfonditi
nelle sue opere, e, in particolare nelle prime cinque, precedenti al 1941.
Ma lo “Zio Walt” ha sempre rifiutato di riconoscere nelle sue produzioni
una qualsiasi dimensione differente da quella mostrata direttamente dalle
immagini.
Disney, in ogni caso, rifiutò di vedere in questi film altro significato che non fosse
quello letterale della superficie dell’intreccio. L’analisi psicologica e qualsiasi altra
forma di scavo nel profondo, insisteva, non presentavano ai suoi occhi alcun
significato. Non aveva alcuna considerazione per la psicanalisi, sia nella propria
opera sia nelle propria vita, credendola parte della stessa congiura giudeo-marxista
che aveva tentato di distruggere lo studio. Ritenne anzi ridicola l’ipotesi che il suo
rapporto con Hoover affondasse le radici in qualche conflitto emozionale irrisolto
con il padre Elias.
Per ironia della sorte, le barricate emotive erette da Disney nella vita reale si
mostrano la fonte della sua grande visione artistica. Tale negazione conscia limitò
infatti la consapevolezza delle forze sotterranee all’opera nei suoi film, che evasero
così il controllo della ragione. La traduzione in immagini delle fantasie di Disney
più pure e istintiva è la chiave del fascino che i suoi film hanno esercitato sul
pubblico di ogni paese ed età.
4
3
M. Eliot, Walt Disney: il principe nero di Hollywood, trad. it Tascabili Bompiani,
Milano, 2004, pp 18-19
4
Ibid., p 19
6
Le parole di Eliot sono fondamentali per il nostro discorso; ci mostrano il
legame strettissimo tra l’infanzia devastante di Disney, tra i lasciti del suo
rapporto col padre e con la famiglia e le sue opere, nonché le sue scelte
politiche e sociali. Per tutta la sua vita il grande disegnatore ha avuto
l’impressione di non essere quello che avrebbe dovuto, di non avere quello
che gli spettava.
Una crisi d’identità lo ha perseguitato lungo la sua esistenza e crediamo che
questa stessa crisi sia alla base di Alice nel paese delle meraviglie, il
lungometraggio apparso nel 1951, dopo vari tentativi che, nei decenni
precedenti, hanno visto alla luce cortometraggi e pellicole miste
d’animazione e realtà sullo stesso soggetto. Alice, basato su i due racconti di
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meravigle e Attraverso lo specchio,
risulta un fallimento per la critica e viene subito etichettato come tale da
Disney; non ottiene il successo aspettato e Walt viene accusato dal fratello
Roy di non aver seguito il film con sufficiente zelo e attenzione, ma il
fratello minore liquida il maggiore rispondendogli di farsi gli affari suoi. La
pellicola viene accusata di non rendere a dovere i testi a cui si ispira, di
essere confusionaria e senza logica, di non legare bene insieme l’elemento
della crisi d’identità con quello delle trasformazioni fisiche come avviene
nei racconti di Carroll. Noi riteniamo che questo non sia del tutto vero.
Certo Alice manca forse di un ordine razionale rispetto ai suoi referenti, ma
in questa sede cercheremo di analizzare il film come opera a sé stante,
indipendentemente dai racconti di Carroll. D'altronde Disney, trattando
questo soggetto, si trovava di fronte al problema maggiore della sua vita
(l’identità), mai risolto e pieno di lati oscuri e confusi; non ci si poteva
aspettare certo un risultato ordinato e razionale.
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I film di Walt Disney, secondo anche quanto lui stesso afferma, non sono
rivolti né propriamente adatti all’infanzia.
Per i bambini, gli intrecci fiabeschi, pieni di elementi esotici, mitici ed eroici [e le
ambientazioni fantastiche aggiungerei], funzionano come divertimenti innocui,
privi di qualsiasi traccia personale. Nel caso degli adulti, il desiderio di tornare
all’innocenza dell’infanzia perduta aggiunge invece alle storie una profondità
tematica, per quanto indefinibile.
5
Nel caso di Alice riteniamo che la situazione possa essere ancora più
complessa, dato che gli intrecci e le ambientazioni si riempiono di una
matrice onirica che domina tutto il film, dove il controllo della protagonista
sulla presunta realtà diviene molto ridotto e relativo, dove il sogno rischia a
ogni passo di sfociare, e in effetti sfocia in alcuni tratti, nell’incubo, sempre
in bilico tra indecisione e angoscia, tra inquietudine e perdita del senso di se
stessi. Ecco che la pellicola allora si arricchisce di un elemento perturbante
che segue il film come un riverbero di sottofondo sempre presente e il film
si pone su un piano non propriamente adatto ai bambini; “in realtà, pur non
seguendo Carroll in tutte le sue ossessioni ma prestandovi nondimeno
attenzione (la paura del tempo, l’attenzione per i processi logici e per i
fenomeni fisici…) gli autori impongono Alice come un film adulto,
conservando le caratteristiche del surrealismo logico dei testi originali
[…]”
6
5
Ibid., p. 19
6
M. Alutto, Due o tre cose che so di lei, in appendice a R. Lasagna, Walt Disney e il
cinema, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2001
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Alice, condizioni di realtà e onnipotenza dei pensieri
Il film parte con Alice seduta sul ramo di un albero in compagnia del suo
gatto Oreste, mentre la sua sorella maggiore
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le spiega la storia. La bambina
non riesce a stare attenta alla lezione e preferisce intrecciare una corona di
fiori con cui decorare il suo animaletto, che, tra l’infastidito e il
giocherellone, la fa cadere proprio sulla donna che legge ad alta voce il libro
di storia. La sorella maggiore non risparmia a Alice la predica. A questo
punto parte il discorso della piccola, che si potrebbe definire come “una
dichiarazione di poetica”, o una dichiarazione della condizione di realtà di
quello che sta per avvenire, che al contrario risulterà, solo alla fine del film,
un sogno degenerato in incubo. “Scusami sai” risponde la bambina alla
sgridata della donna “ma come si fa ad interessarsi a un libro in cui non vi è
neanche una figura”. Subito la dimensione delle immagini al centro del
discorso, dimensione che certo è l’unica dominatrice dell’attività onirica.
“Mia cara bambina” ribatte la sorella maggiore “ci sono tanti libri
interessanti anche senza figure, a questo mondo”. “A questo mondo forse.”
dichiara Alice, più parlando tra sé e sé “Ma nel mio mondo i libri sarebbero
fatti solo di figure”. Subito una distanza incolmabile appare tra le due figure
sulla scena. La donna, matura, perbene è perfettamente integrata nella realtà
in cui vive e ride delle parole della sua sorella minore. Alice invece
vorrebbe vivere in un mondo fatto solo di figure, di immagini, un mondo del
sogno. Assurdità diviene la parola d’ordine di tale mondo, in cui le regole si
invertono; ciò che sembrerebbe strano, anormale e, perché no, spaventoso
verrebbe a essere all’ordine del giorno.
7
In realtà non c’è nessun segnale che ci dichiari che quella donna è la sorella di Alice,
come è invece chiaramente detto dal racconto di Carrol. Prendiamo quindi per buona a
questo riguardo l’interpretazione di J. Grant, “Enciclopedia of Walt Disney’s animated
character”, New York: Hyperion, 1998. Altre interpretazioni vedono tale figura
femminile adulta come la nutrice, la tutor della protagonista.