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1. INTRODUZIONE
La società contemporanea e lo stile di vita che le è proprio, almeno per il mondo
occidentale ed in parte per i Paesi emergenti, sono intrinsecamente legati al consumo di
energia. Negli ultimi decenni i consumi, e di conseguenza la domanda energetica, hanno
seguito un trend crescente, come mostrano i dati dell’International Energy Agency (IEA)
(Figura 1.1).
La domanda mondiale di energia cresce con velocità quasi doppia rispetto al suo consumo
(IEA, 2012).
L’energia necessaria è oggi ricavata in massima percentuale dall’uso di combustibili fossili
(Figura 1.2), ovvero petrolio e gas, e ciò pone almeno due problemi: l’esauribilità delle
fonti e l’inquinamento ambientale derivante dal loro uso (Figura 1.3).
Figura 1.2: Produzione di energia (IEA, 2011).
Figura 1.1: Proiezioni domanda mondiale di energia (IEA, 2011).
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Anche se la larga disponibilità di tali risorse e la relativa semplicità, almeno iniziale, nel
reperirle ha portato negli ultimi decenni ad affidarsi quasi esclusivamente ad esse, le stime
attuali sui giacimenti residui, 40-80 anni per il petrolio, 60-160 anni per il gas naturale e
più di 1000 anni per il carbone (Lewis & Nocera, 2006), prefigurano il rischio concreto di
una crisi energetica globale (Du et al., 2007) e non è certo trascurabile l’impatto
ambientale dell’uso di derivati fossili, ormai noto tanto alla comunità scientifica quanto
alla sensibilità pubblica; agli effetti immediati, quali piogge acide, contaminazione delle
acque e dell’aria per via degli sversamenti e delle emissioni industriali (Holt, 1999), se ne
sommano altri a lungo termine, come il riscaldamento globale, l’aumento di agenti
patogeni e batteri trasmessi dall’acqua e dal cibo ed il verificarsi di eventi atmosferici
estremi, conseguenze dell’innalzamento della temperatura (DeNicola & Subramaniam,
2014; Houghton et al., 2012; Maibach et al., 2010; McMichael et al., 2006; Patz et al.,
2005).
Si sta rendendo sempre più concreta ed impellente la necessità di produrre energia in modi
alternativi, ricorrendo possibilmente a fonti rinnovabili; non c’è realisticamente modo per
continuare a sfruttare unicamente combustibili fossili e ridurre le emissioni di gas serra
semplicemente ottimizzando l’efficienza delle modalità d’impiego attuali (Olivera et
al.2013).
La gamma delle fonti energetiche rinnovabili attualmente in utilizzo è molto ampia e
permette di ottenere energia solare, eolica, idrotermica, geotermica, oceanica, idraulica,
oltre che ricavarne dalle biomasse e dal biogas.
Mentre si moltiplicano gli studi mirati a trovare nuove soluzioni sembra, ad oggi, poco
probabile che ognuna di queste possa da sola sostituire completamente i combustibili
Figura 1.3: Emissioni mondiali di CO
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(IEA, 2011).
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fossili; si configura quindi l’uso contemporaneo di varie modalità, che forniscano energia
per uno specifico scopo producendola nella maniera più consona alla situazione (Franks &
Nevin, 2010).
Gli sforzi maggiori sono rivolti allo sviluppo di metodi alternativi per produrre l’energia
elettrica (Du et al., 2007) che è probabilmente la forma energetica più versatile e semplice
da sfruttare ma che al momento per essere generata richiede un grande impiego di centrali
a gas, petrolio o carbone (CREST, 2014); sarebbe auspicabile che le nuove soluzioni
riuscissero a produrre biossido di carbonio (CO
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) in quantità compatibile con la capacità
del nostro pianeta di metabolizzarla nel breve termine grazie ai cicli chimici (Olivera et al.,
2013), come nel caso delle tecnologie basate sull’uso di celle a combustibile (Fuel cells), le
quali offrono l’opportunità di creare generatori di corrente portatili a basso impatto
ambientale (CREST, 2014).
Ulteriore elemento critico da considerare è la produzione di materiali di scarto derivante da
buona parte dei processi di produzione energetica impiegati oggi; essi sono per lo più
tossici rendendone difficoltoso, oltre che costoso, il trattamento e lo stoccaggio, anche per
un concreto e non meno rilevante problema logistico di spazi.
La riduzione della produzione di rifiuti è attualmente un obiettivo a livello mondiale,
soprattutto per salvare le riserve idriche dall’inquinamento ed evitare il rilascio di agenti
tossici nell’atmosfera. L’US EPA stima che il 3-4% dell’energia totale consumata dagli
USA è impiegata in processi per il trattamento delle acque, a causa dei quali ogni anno
vengono immessi nell’atmosfera 45.000.000 di tonnellate di gas serra (Marshall et al.,
2013).
Se si considera che anche le attività quotidiane di ogni individuo producono rifiuti un
metodo che generi energia utile partendo proprio da materiali di scarto è forse il più vicino
all’andamento della Natura (Olivera et al.2013).
Una tecnologia basata sull’impiego di Microbial Fuel Cells (MFCs) che converta l’energia
incamerata nei legami chimici dei composti organici in energia elettrica attraverso le
reazioni catalitiche di microorganismi ha raccolto negli ultimi anni l’interesse di molti
ricercatori (Du et al., 2007). Questi dispositivi possono sfruttare acque reflue ed atri tipi di
rifiuti prodotti dalle attività dell’uomo, contenenti substrati e microorganismi e sebbene
siano necessarie alcune risorse aggiuntive, come elettrodi e cavi elettrici, questi
rappresentano solo una minima parte dell’intera equazione dell’equilibrio ambientale
(Olivera et al., 2013).
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2. LE MICROBIAL FUEL CELLS
Una Fuel Cell (cella a combustibile), nell’accezione generale, è un dispositivo capace di
generare elettricità, impiegabile per alimentare un supporto, a partire da una reazione
chimica che avviene al suo interno.
Il primo esemplare, seppur molto semplice, fu costruito da Sir Humphrey Davy nel 1802 e
furono Ludwig Mond e Charles Langer, nel 1889, a dar loro il nome con cui sono oggi
conosciute (CREST, 2014).
Ciò che caratterizza le Microbial Fuel Cells (MFCs) è l’impiego al loro interno di
microorganismi e la prima dimostrazione del loro funzionamento fu data da Potter nel
1910 (Ieropoulos et al., 2005), a partire da colture viventi di Escherichia coli e
Saccharomyces cerevisiae ed elettrodi di platino (Potter, 1911); il botanico inglese scoprì,
per primo, che i batteri possono generare corrente (Zhou et al., 2011).
Tuttavia solo negli anni novanta si è provato davvero a sfruttare tale sistema e nell’ultima
decade il volume di ricerche sulle MFCs è aumentato di circa sessanta volte (Pant et al.,
2010).
Una MFC è genericamente composta da un anodo, un catodo, una membrana scambiatrice
di protoni, detta Proton Exchange Membrane (PEM), ed un circuito elettrico (Logan, 2008)
(Figura 2.1).
Figura 2.1: Schema generale di una cella a combustibile biologica. Nell’immagine i batteri presenti
all’anodo ossidano il substrato organico, generando elettroni e
-
e ioni H
+
. Al catodo avviene la reazione di
riduzione dell’ossigeno che combinandosi con gli elettroni e l’idrogeno forma acqua.
E’possibile osservare il percorso delle cariche: gli elettroni sono trasportati attraverso un circuito esterno al
quale è collegato uno strumento di misura (V) per valutare le prestazione elettriche del sistema; i protoni
migrano al catodo attraverso la membrana a scambio scambiatrice di protoni.
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I batteri presenti nel compartimento anodico, dove vi è condizione di anossia, producono
protoni ed elettroni; questi ultimi raggiungono il compartimento dov’è presente il catodo
attraverso un circuito esterno e qui si combinano con protoni ed accettori di elettroni per
formare acqua (Li et al., 2009).
Dalla reazione di ossidazione si ottengono, come prodotti, anidride carbonica, protoni ed
elettroni; nel caso dell’acetato, ad esempio:
Gli elettroni sono trasferiti dalle cellule batteriche alla superficie dell’anodo e, attraverso
un circuito elettrico esterno, al catodo; i protoni migrano verso il catodo, per mezzo di una
PEM, dove è presente una sostanza ossidante, la quale si combina con gli elettroni e i
cationi prodotti dalle reazioni microbiologiche. Ne è un esempio:
Si ottiene quindi energia elettrica dal flusso di elettroni che percorre il circuito esterno,
dall’anodo al catodo (Du et al., 2007).
2.1. Design delle MFCs
Studi recenti hanno mostrato che la modalità di costruzione delle MFCs è un fattore
fondamentale (Liu & Logan, 2004; Fan et al., 2007; He et al., 2006) seppur, in ogni caso, il
loro funzionamento si basi sempre sul medesimo principio operativo (National Petroleum
Council, 2012).
Progettarne il design appropriato in base al contesto d’impiego è un aspetto non
trascurabile quando si lavora con le MFCs (Du et al., 2007), poiché permette di
incrementare la performance e la quantità di energia prodotta e limitare i costi connessi
(National Petroleum Council, 2012).
Le MFCs sono state costruite impiegando diversi materiali (Logan et al., 2006; Rabaey &
Verstraete, 2005; Bullen et al., 2006; Lovley, 2006).
La tabella seguente (Tabella 2.1) mostra i differenti materiali che è possibile utilizzare per
la costruzione delle varie parti che compongono una MFC.
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Le forme di design più comuni sono a camera singola (SC), a due camere (DC), up-flow e
stacked (Figura 2.2).
MFC a camera singola: questo design prevede un solo compartimento, il quale contiene
sia l’anodo che il catodo, anche se in alcuni casi quest’ultimo è esposto direttamente
all’aria. L’anodo può essere posizionato sia distante dal catodo che vicino, ed in
quest’ultimo caso viene separato da esso mediante una PEM.
E’ certo una soluzione più semplice rispetto al design a due camere, meno dispendiosa e
più efficiente nel produrre energia (Du et al., 2007); tuttavia, nella sua versione senza la
PEM, la contaminazione batterica e la diffusione dell’ossigeno dal catodo all’anodo
costituiscono i principali inconvenienti (Kim et al., 2008).
MFC a due camere: è il design più usato, specialmente nella ricerca di base, e prevede
due compartimenti, uno contenente l’anodo ed uno il catodo, separate da una PEM. Le
MFCs a due camere sono di solito impiegate in batch, spesso con un mezzo chimicamente
definito come glucosio o soluzione di acetato per produrre energia (Du et al., 2007).
Questa soluzione offre, però, un rendimento energetico generalmente basso, per via della
propria complessità strutturale, dell’alta resistenza interna e delle perdite all’elettrodo (Du
et al., 2007; Logan & Regan, 2006a).
Tabella 2.1: Componenti base di una MFC (modificata da Du et al., 2007).
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Up-flow MFC: questo design prevede una struttura il più delle volte cilindrica, dove
l’anodo risiede inferiormente ed il catodo superiormente; i due sono separati da strati di
lana di vetro e strati di perle di vetro. Il nutrimento è inserito dall’anodo, fluisce
ascendendo verso il catodo e fuoriesce dall’estremità superiore. La barriera tra gli elettrodi
permette la formazione del gradiente di ossigeno disciolto (DO) necessario per il
funzionamento della cella (Du et al., 2007; Kim et al., 2008; Schwartz, 2007).
In questo design non ci sono separazioni fisiche e ciò evita i problemi relativi al
trasferimento di protoni. La relativa facilità nel produrle su scala industriale (He et al.,
2005, 2006 ), unitamente al fatto che i costi energetici di pompaggio del fluido all’interno
della cella sono di molto maggiori rispetto all’energia da essa prodotta (Du et. al., 2007),
ne fanno probabilmente la soluzione più indicata per il trattamento delle acque reflue (Kim
et al., 2008), piuttosto che per la produzione di corrente elettrica.
Stacked MFC: questa soluzione prevede la connessione di più MFCs, in serie o in
parallelo, per ottenere un alto livello di produzione di corrente (Du et al., 2007). Il circuito
in parallelo può generare fino a sei volte più energia di quello in serie, a parità di flusso
volumetrico, per via della maggior velocità di reazione elettrochimica, ma è più soggetto
ad andare in corto circuito (Aelterman et al., 2006).
Figura 2.2: MFC a camera singola (a); MFC a due camere (b); Up-flow MFC (c); Stacked MFC (d) (Du et al.,
2007).
a b
c d
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Esistono inoltre particolari tipologie di MFCs a due camere.
Ringeisen (Ringeisen et al., 2006) ha descritto una mini-MFC avente un diametro di circa
2 cm ed elevata densità di potenza. Dispositivi di questo genere possono essere impiegati
per alimentare sensori autonomi durante per le operazioni a lungo termine in zone
difficilmente accessibili.
Min e Logan (Min & Logan, 2004) hanno progettato una Flat Plate MFC (FPMFC), dove
elettrodi e membrana PEM sono compattati in un unico elemento, la cui configurazione
compatta richiama quella di una cella a combustibile chimico convenzionale (chemical fuel
cell). Il catodo in fibra di carbonio, pressato a caldo su di una membrana PEM in Nafion,
che collega le camere anodica e catodica, è in contatto con un foglio di carta carbone che
funge da anodo. La FPMFC è fissata a due lastre in policarbonato non conduttivo.
Si possono alimentare, a flusso continuo, la camera anodica con reflui o con qualsiasi
biomassa organica, la camera catodica con aria secca, senza ricorrere ad un liquido
catolitico (Min & Logan, 2004).
2.2. Materiali per gli elettrodi
La scelta dei materiali per la costruzione degli elettrodi gioca un ruolo importante per
determinare la performance, in termini di produzione di energia, ed il costo di una MFC
(Zhou et al., 2011), e molti ne sono stati impiegati in laboratorio (Zhang et al. 2009; Zuo et
al. 2008). Tuttavia un frammento di fibra o carta di carbonio, anche se altamente
ottimizzato per favorire l’adesione dei batteri, non possiede l’elevata conduttività elettrica
propria dei metalli, necessaria per trasferire gli elettroni a lunga distanza (Logan, 2010);
pertanto l’attenzione si sta rivolgendo verso elettrodi che contengono collettori di corrente
(Zhang et al. 2009; Zuo et al. 2008). In laboratorio si può migliorare la produzione di
energia attraverso trattamenti chimici ed impiegando metalli preziosi (Cheng & Logan
2007; Liu et al. 2007), ma restano in pratica soluzioni troppo costose (Logan, 2010).
E’ quindi necessario trovare un compromesso tra performance e costo dei materiali
(Logan, 2010).