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Capitolo 1 
 
La lingua e la letteratura sarda, focus sulla varietà 
Campidanese 
 
 
 
1.1 Introduzione 
 
Da anni si discute intorno alla questione se il sardo costituisca una lingua o un dialetto. I 
pareri degli studiosi di linguistica propendono perlopiù a identificarlo come una lingua vera e 
propria piuttosto che come varietà dialettale. Le testimonianze del sardo come lingua 
“incomprensibile” risalgono addirittura ad alcuni scritti d’epoca medievale. In una tenzone del 
poeta provenzale Rambaldo di Vaqueiras (Valchiusa 1155-Tracia 1210 ca.), ad esempio, così 
si esprime una donna genovese riluttante alle svenevolezze dello stesso poeta: 
 
No t’entent plus d’un Toesco 
O Sardo o Barbari: 
Ni non ò cura de tì 
(citato in Wagner, 1997: 78) 
 
Anche Fazio degli Uberti (Pisa 1305 ca.-Verona post 1367), nel terzo libro del suo 
Dittamondo (Capitolo XII, vv. 34-57): 
 
E poi che giunti fummo a Bonifazio,  
fu il nostro passo diritto in Sardigna;  
tosto vi fummo, ché v’è poco spazio.  
Molto sarebbe l’isola benigna  
piú che non è, se, per alcun mal vento  
che soffia, l’aire non fosse maligna.  
Lá son le vene con molto ariento;  
lá si vede gran quantitá di sale,  
lá sono i bagni sani come unguento.  
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[…] Io vidi, che mi parve maraviglia, 
una gente che niuno non la intende  
né essi sanno quel ch’altri pispiglia.  
(in Wagner, 1997: 78) 
 
Non si può inoltre tralasciare la più nota fra tali allusioni, quella di Dante Alighieri (Firenze 
1265-Ravenna 1321) che nel suo De vulgari Eloquentia (1304) afferma:  
 
Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio 
vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus 
locuntur.
2
  
 
Ciò sta ad indicare come già nel 1300 si riconoscesse al sardo un’identità linguistica distinta 
dagli altri parlari italiani, anche se molto simile al latino. 
Sul giudizio impietoso che del sardo da l’Alighieri si sofferma  Antonio Sanna (1957: 
23): 
 
[…] L’Alighieri non si rendeva conto che i volgari non erano altro che l’evoluzione del latino, ma li 
considerava anteriori e indipendenti da esso e riteneva, anzi, che la lingua letteraria si fosse sviluppata da 
quei volgari; egli giudicava i sardi privi di un volgare vero e proprio e legati, perciò, all’imitazione del 
latino. 
 
Dunque all’esame di questi autori non sfuggivano le peculiarità (del tutto individuali) che 
rendevano questa lingua strana e di difficile comprensione, nonostante si fosse ben lontani dai 
primi studi su basi scientifiche di Friedrich Diez (Giessen 1794-Bonn 1876), ormai passato 
alla storia come padre della filologia romanza. Oggi, certamente, grazie alle indagini degli 
studiosi che si sono soffermati su questa lingua, e in particolare Max Leopold Wagner 
(Monaco di Baviera 1880-Washington 1962), abbiamo un’idea ben precisa di essa, della sua 
costituzione fonologica, morfologica e sintattica, nonché delle sue origini e dei mutamenti 
avvenuti in seguito alle vicende storico-politiche susseguitesi nei secoli. 
Nel 1954 nella sua Storia della letteratura di Sardegna Francesco Alziator
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 così 
scriveva: “È di questi giorni Basciura di Antonio Garau, promettente tentativo di teatro in 
vernacolo oristanese” (1954: 506). 
                                                 
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 Traduzione italiana: “Quanto ai Sardi, che non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani, via anche loro, 
dato che sono i soli a risultare privi di un volgare proprio, imitando invece la grammatica come fanno le scimmie 
con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus”. (De Vulgari Eloquentia, Libro I, Cap. XI, citato in 
http://www2.fh-augsburg.de/~Harsch/Chronologia/Lspost14/Dante/dan_v111.html) 
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Questo giudizio conteneva la promessa di nuove prospettive per una storia del teatro dialettale 
sardo generalmente considerata priva d’interesse e di scarsa consistenza letteraria. Così infatti 
nella stessa Storia:  
 
L’interesse che esso [il teatro dialettale sardo, NdR] desta è piuttosto come elemento di storia del 
costume, come documento linguistico, come testimonianza di un’epoca, ma oltre a ciò nient’altro. Non 
appena noi cessiamo di guardare a questo teatro come a un pezzo da museo folcloristico, esso perde ogni 
importanza o quasi poiché il suo valore letterario è pressochè nullo. Ad onta di questi evidenti caratteri 
negativi non è possibile disconoscere la vitalità di questo teatro. (1954: 505) 
 
In questo quadro, intorno al 1930, si inserisce la produzione artistica del giovane Garau, che 
risente in particolare delle influenze del resto d’Italia. Nonostante la forte vocazione sardista
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, 
egli  amava leggere commedie anche in italiano, e questo fatto è testimoniato ad esempio da 
S’urtima xena, commedia del 1972, che rievoca atmosfere pirandelliane. È noto che l’autore 
siciliano era tra i preferiti del commediografo oristanese, che ne interpretò la commedia 
Pensaci Giacomino alla fine degli anni ’30.  
Antonio Garau è stato un autore molto più versatile della maggior parte dei suoi 
predecessori, che pure scrivevano commedie in sardo. Un esempio tra tutti è Efisio Vincenzo 
Melis
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 (Guamaggiore 1889-Cagliari 1922) cui inizialmente il Nostro si ispira, e da cui 
progressivamente si distanzia in quanto a temi e stile. Diversi sono gli approcci al teatro tra 
essi perché diversi sono i background dei due autori: ricco possidente il Melis, commerciante 
al dettaglio, bottegaio, il Garau. Differenti anche gli scopi che i due si prefiggevano: il primo, 
desiderava con le sue opere mettere in ridicolo il tanto disprezzato ceto rurale, con il suo 
provincialismo, la sua scarsa conoscenza dell’italiano, la sua cieca fiducia nella superstizione 
e la povertà incarnata dalle condizioni miserevoli in cui vivevano i personaggi. Il pubblico cui 
si rivolgeva era la borghesia di Cagliari (dove si era trasferito) e nel cui teatro Politeama 
metteva in scena le sue opere. 
Garau al contrario, scrive sì di persone umili provenienti dall’area contadina, ma le sue 
opere vanno oltre il mero canzonamento di tale società. Anzi, egli esprime sempre un gran 
rispetto verso le tradizioni dell’Isola, che purtroppo stanno via via scomparendo, assorbite dal 
                                                                                                                                                        
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 Nato a Cagliari nel 1909, fu scrittore e giornalista. Le sue maggiori opere però sono quelle che riguardano gli 
studi sulle tradizioni popolari sarde, di cui andava particolarmente orgoglioso. Morì nel capoluogo dell’Isola nel 
1977. 
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 Con “sardista” si intende qua il carattere locale delle opere dell’autore, non si fa riferimento alla connotazione 
politica della parola. 
5
 Nato da famiglia benestante nella profonda campagna cagliaritana, nota come Trexenta, grazie al denaro di 
famiglia riuscì a conseguire la laurea in matematica a Cagliari. Nella stessa città insegnò poi in un istituto 
tecnico. Ci ha lasciato tre opere: Ziu Paddori (1919), Su bandidori (1920) e L’onorevole a Campodaliga (1921). 
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processo di omogeneizzazione con il resto d’Italia. Il Nostro, riprendendo alcune strategie 
comiche del Melis, utilizza delle storpiature dell’italiano in bocca ai suoi personaggi, al fine 
di caratterizzarli ulteriormente.  
Identificando con Garau un modello sia dal punto di vista linguistico che 
comportamentale (egli andava fiero delle proprie origini e non perdeva occasione per 
scambiare qualche parola con i clienti che arrivavano alla sua bottega dall’hinterland 
oristanese), mi sono avvicinato alle sue opere, che mi sembrano rispecchiare la situazione 
reale di molte zone dell’Isola. Per citare un esempio, in S’urtima xena il personaggio di 
Bonaria incarna pienamente il parvenu che, avendo cambiato la propria condizione sociale, 
aspira ad abbandonare (per quanto possibile) il proprio retaggio paesano. 
 
 
 
1.2 Cenni storici sulla Sardegna 
 
Per la disamina storica che segue, mi baserò in gran parte sull’opera di Wagner (1997) La 
lingua sarda (scritta originariamente nel 1950), oltre che sui testi Breve storia della Sardegna 
dalle origini ai giorni nostri di Floris e Compendio di storia della Sardegna di Orrù (1981). 
Si suppone che i Sardo-libici (come venivano chiamati nell’antichità), fossero emigrati 
dalla costa settentrionale dell’Africa, e ciò sarebbe testimoniato anche dai ritrovamenti degli 
scheletri, che portano a ritenere tali uomini imparentati con gli Africani del Nord. 
Gli Iolaei o Ilienses, come vennero chiamate le belligeranti tribù berbere che dalla 
Libia si stabilirono in Sardegna, ebbero poche difficoltà a sopraffare gli indigeni, raggruppati 
in clan dalla cultura piuttosto arretrata. Questi Ilienses furono probabilmente i costruttori dei 
famosi “Nuraghi”
6
: 
 
Diffusi in tutta l’isola, quelle costruzioni coniche di pietra rassomiglianti a torri che, secondo i 
risultati della scienza moderna, non furono tombe, come si credeva una volta, ma castelli del capo-tribù, 
aventi nello stesso tempo funzione di fortezza, intorno ai quali si alzavano le capanne di pietra, più 
semplici e più basse, degli altri abitanti del villaggio nuragico. (Wagner, 1997: 55) 
 
Tra il IX e l'VIII secolo a.C arrivarono i Fenici, che stabilirono avamposti commerciali un po' 
ovunque nel Mediterraneo.. Si stanziarono dapprima in insediamenti temporanei che 
                                                 
6
 Per l’importanza strategica che rivestivano, possiamo assimilare il ruolo dei nuraghi a quello che i castelli 
ebbero nel Medioevo. 
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dovevano servire come magazzini di raccolta di materie prime, e i Sardi delle zone costiere 
pian piano fraternizzarono con loro; anche quelli rimasti indipendenti sulle montagne, 
abbandonato l'iniziale atteggiamento ostile, divennero federati e più tardi anche alleati dei 
Punici contro l'espansione di Roma. I Fenici si stabilirono soprattutto lungo la costa 
occidentale e ancora oggi la loro presenza è ben visibile, nonostante le successive 
sovrapposizioni romane. L'insediamento più spettacolare è Nora, uno dei loro maggiori scali e 
allora una delle prime città dell'Isola; si possono ammirare ancora ben conservati un insieme 
di resti fenici (la necropoli, il tempio di Tanit) e romani (il teatro, il foro, le terme, edifici 
civili e religiosi). 
Dopo le conquiste, punica prima e romana poi, la Sardegna si divise. Nelle valli e sulla 
costa trionfò la civiltà dei vincitori; in montagna e nelle zone impervie, originariamente meno 
influenzate dalla cultura romana (la “Barbagia”), la cultura Ilienses ha resistito tramandandosi 
nei secoli: per la sua originalità e per i suoi misteri è quella che più di ogni altra simboleggia 
la Sardegna. 
Dopo la caduta della potenza fenicia e un periodo di convivenza tra le due potenze di 
allora, Cartagine e Roma, e dopo due guerre puniche, i Romani si impossessarono 
definitivamente dell'Isola nel 214 a.C. Anche per loro, a un iniziale periodo di difficile 
convivenza con i Sardi e con i “Sardo-punici”
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 seguì una graduale integrazione. Quelli che 
erano stati prosperi centri fenici, come Karalis (l’odierna Cagliari), Sulci (presso Carbonia), 
Tharros (vicino a Oristano), Nora e Bithia (presso Pula), continuarono la loro esistenza 
romanizzandosi velocemente. Cagliari divenne la capitale della nuova provincia e fu 
arricchita da molti monumenti, tra i quali l'anfiteatro, utilizzato tuttora. 
Nella parte settentrionale, un centro importante fu Olbia che durante la permanenza 
romana fu dotata di piazze e acquedotti ed anche fornita di due complessi termali. 
Una lunga strada univa la parte nord al capoluogo (A Karalibus Turrem) attraversando 
la fertile pianura campidanese. Nel mezzo del percorso si trovava Forum Traiani 
(Fordongianus), altro importante centro, abbellito nel I secolo d.C. da lussuose terme. La 
Sardegna divenne un importante granaio di Roma, insieme alla Sicilia e all'Egitto, e prosperò 
per quattro secoli sotto la sua egemonia, che la segnò indelebilmente, fino alla caduta 
dell'Impero. 
Alla caduta dell'Impero romano, la Sardegna fu occupata dai Vandali, che la 
utilizzarono (al pari dei Romani) come luogo d’esilio per gli avversari politici. Essi 
                                                 
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 Essi erano detti anche Balari; queste popolazioni erano originarie dell’Iberia o della Libia, ed erano arrivate in 
Sardegna come truppe mercenarie al servizio di Cartagine. Durante la prima guerra punica si ammutinarono e si 
stabilirono nelle zone più impervie dell’Isola (Wagner, 1997: 56) 
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mantennero sull'Isola un presidio militare per circa ottant'anni, fino alla presa di potere dei 
Bizantini nel 534 d.C. Con questi ultimi al potere, le strutture sociali non subirono profonde 
trasformazioni se non in campo religioso: per opera di Gregorio Magno si giunse alla 
completa conversione dei Sardi al Cristianesimo. La nuova religione comunque non influì 
subito sul carattere degli abitanti delle Barbagie, che continuarono a restare isolati nelle 
montagne e a scendere verso il Campidano per attaccare e depredare i villaggi delle pianure. 
Pian piano la cultura bizantina esercitò il suo influsso nella cultura e nell'arte isolane, 
creando un forte legame con Bisanzio che servì sicuramente ad impedire l'occupazione 
longobarda. Sotto tale dominazione, l’amministrazione civile fu separata da quella militare: 
alla guida della prima stava il praeses, la seconda era sottoposta al dux; entrambi erano 
sottomessi al praefectus praetorii e del magister militum della provincia d’Africa. La capitale 
dell’Isola restava Cagliari. 
A partire dall'VIII secolo gli Arabi iniziarono scorrerie sempre più frequenti alle quali 
i Sardi, ritiratisi i Bizantini, dovettero far fronte solo con le loro forze. Iniziò allora il periodo 
dei Giudicati, una forma originale di governo che durò per i successivi 500 anni. I quattro 
giudicati erano quelli di Torres-Logudoro, di Cagliari, di Gallura e di Arborea ed erano retti 
da un giudice con potere sovrano. Amministravano un territorio, chiamato logu, suddiviso in 
curatorie formate da più villaggi, retti da capi detti majores. Parte dello sfruttamento del 
territorio, come anche l'agricoltura, veniva gestito in modo collettivo. 
L'aiuto portato alla Sardegna contro gli Arabi da parte delle flotte genovese e pisana 
(specie dopo il fallito tentativo di conquista dell'Isola nel 1015-16 da parte di Mujāhid al-
Āmirī di Denia, signore delle Baleari dopo il crollo del Califfato omayyade di al-Andalus) 
ebbe come conseguenza un crescente influsso delle due Repubbliche marinare nella vita 
politica sarda. Rimase però autonomo il Giudicato d'Arborea dove, nel 1395, la giudicessa 
Eleonora d'Arborea emanò la Carta de Logu, simbolo e sintesi di una concezione giuridica 
totalmente sarda, per quanto influenzata dal diritto romano-bizantino. La carta comprendeva 
un codice civile ed uno rurale (198 capitoli totali), e segnava una tappa fondamentale verso 
alcuni importantii diritti d'uguaglianza. Questo insieme di leggi rimase in vigore fino al 1827. 
Il periodo che va dagli inizi del XIV secolo a circa la metà del secolo successivo 
rappresenta per la civiltà occidentale un periodo di transizione dal Medioevo all'età moderna. 
La società si svincola dai miti e dalle tradizioni medievali e si avvia verso il Rinascimento. 
Purtroppo, questi cambiamenti non si riscontrano in Sardegna: questo periodo corrisponde 
infatti all'occupazione aragonese (che ebbe inizio nel 1323-1324) ed è considerato da molti 
come il peggiore di tutta la storia dell'Isola. Il cammino verso l'età moderna viene 
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bruscamente interrotto e tutta la società Isolana regredisce verso un nuovo e più buio 
Medioevo. Le maggiori cause furono viste nelle continue guerre contro il Regno di Arborea e 
nel regime di privilegio, di angherie e di monopolio esclusivo di ogni potere, instaurato a 
proprio favore dai Catalano-aragonesi e poi dagli spagnoli. 
Una testimonianza evidente della situazione creatasi è fornita dagli stessi Catalani, che 
ancora nel 1481 e nel 1511 chiedevano al Re - nel loro Parlamento - la conferma in blocco 
degli antichi privilegi, ricordando che erano stati concessi «per tenir appretada e sotmesa la 
naciò sarda» (“mantenere bisognosa e sottomessa la nazione sarda”, da 
http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_Sardegna). Con il dispotismo e la confisca di tutte le 
ricchezze si arrestò bruscamente il processo di rinnovamento economico, culturale e sociale 
che gli Arborensi, i Genovesi, i Pisani e la Chiesa stessa, con i suoi ordini monastici, avevano 
suscitato nei primi tre secoli dopo l'anno Mille. 
In realtà, gli aragonesi non disponevano dei mezzi per una tale invasione e riuscirono 
solo dopo un secolo di guerre e di sanguinose battaglie ad unificare il Regno di Sardegna e 
Corsica, che fu composto - per lungo tempo - unicamente dalle città di Cagliari e di Alghero. I 
due popoli sconteranno duramente - in epoche successive - il loro combattersi accanitamente 
fino, in un certo senso, ad annullarsi a vicenda. Sia i sardi che i catalano-aragonesi saranno 
infatti assorbiti in realtà nazionali sostanzialmente estranee alla loro storia. 
Il Regnum Sardiniae et Corsicae ebbe inizio nel 1297, quando Papa Bonifacio VIII lo 
istituì per dirimere le contesa tra Angioini e Aragonesi circa il Regno di Sicilia (che aveva 
scatenato i moti popolari passati poi alla storia come Vespri siciliani). Il Regno faceva parte 
del variegato complesso di stati che formavano la Corona d'Aragona e, dal 1479 in poi, la 
Corona di Spagna. Passata all'Austria con la guerra di Successione spagnola (1713), dopo un 
ulteriore tentativo di riconquista da parte della Spagna (1717), la Sardegna venne restituita 
all'Austria (trattato di Cockpit, 1718) e da questa, secondo gli accordi presi con Francia e 
Gran Bretagna, ceduta con l'annesso titolo regio a Vittorio Amedeo II di Savoia in cambio 
della Sicilia (che era stata assegnata al duca sabaudo col trattato di Utrecht). Vittorio Amedeo 
II prese materialmente possesso dell'Isola il 2 settembre 1720. 
Ebbe così inizio il regno di Sardegna, il primo nucleo territoriale e politico del futuro 
regno d'Italia. Fra i più importanti provvedimenti presi dal sovrano sabaudo, vi furono la 
diminuzione delle imposte, l'apertura delle carriere a tutti e l'uso obbligatorio della lingua 
italiana. 
Il feudalesimo nell’Isola fu abolito soltanto nel 1838 dai Savoia, dopo che per più di 
cinque secoli esso aveva messo in ginocchio la Sardegna e la sua economia.