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interazioni e i punti di contatto tra di esse è importante proprio perché fenomeno
recente che può riservare ancora molte sorprese.
Il secondo capitolo è dunque speculare al primo; è dedicato all’antropologia
culturale e ne ripercorre brevemente la storia in modo da poter evidenziare le
motivazioni che hanno contribuito al suo avvicinamento al mondo dei media.
L’antropologia culturale è senza dubbio una delle discipline che in questi ultimi anni
ha fornito i contributi più rilevanti all’interno dei media studies al fine di
comprendere meglio le interazioni tra i media e la società: inizialmente timorosa, si è
accostata lentamente a questo nuovo campo di studi privilegiando i circuiti alternativi
e mantenendo come punto di vista privilegiato l’uomo e la società. La peculiarità
dell’approccio antropologico consiste essenzialmente nella sua metodologia di
lavoro: l’interesse per le comunità e le situazioni ai margini, l’attenzione per tutto ciò
che è locale, il contatto con culture diverse da quella occidentale, tutto questo
sicuramente facilita un’analisi attenta e originale dei media e di come essi stanno
ristrutturando il mondo in cui viviamo.
Il terzo capitolo intende illustrare concretamente questa metodologia di studio
attraverso cinque esempi relativi alle esperienze sul campo di alcuni antropologi in
diverse parti del mondo; i cinque casi di studio analizzati sono esemplificativi di un
nuovo modo di studiare le dinamiche dei processi sociali di consumo, produzione,
circolazione dei media visivi, come la televisione e i video.
Ho scelto di limitare il mio campo al fenomeno televisivo in quanto la sua
diffusione capillare e il suo radicamento ormai decennale all’interno di miti e
ritualità quotidiane lo rendono un mezzo di comunicazione allo stesso tempo
affascinante e controverso. La sua presenza in tutto il mondo e la capacità di adattarsi
ad ogni tipo di cultura e società ne hanno facilitato l’introduzione a tutte le latitudini,
metamorfico portavoce dei più diversi fini politici; perché la televisione è un mezzo
“democratico”, unisce immagini e sonoro, e chiunque la può guardare e capire anche
se non sa leggere né scrivere, anche se non sa usare il computer e non conosce gli
ultimi ritrovati tecnologici. La televisione è una sorta di grande orologio che
scandisce, attraverso le sue rappresentazioni, i suoi ritmi, i suoi appuntamenti forti, le
abitudini di ascolto condivise dall’intera popolazione: rispecchia i mutamenti della
società dopo aver alimentato le condizioni di questi mutamenti. A differenza del
cinema essa non è costituita da un singolo testo, ma da un flusso ininterrotto di
programmi, che nessuno potrà mai vedere per intero, e nel quale ci inseriamo, a
3
nostro piacimento, in un qualunque momento della giornata, anche senza un preciso
impegno o atto di volontà (basta premere un tasto).
La seconda parte della tesi è dedicata a una realtà televisiva che ci riguarda da
vicino, emersa poco tempo fa e affermatasi prepotentemente nel giro di qualche anno
surclassando tutti gli altri generi tradizionali: si tratta del reality show.
In seguito al successo di questo nuovo genere la tradizionale separazione tra
pubblico e televisione è definitivamente tramontata, e questa nuova situazione pone
interessanti interrogativi per gli studi sull’audience. Ho deciso di analizzare un
singolo testo: il reality game-show che ha goduto in questi ultimi anni di maggior
successo – il Grande Fratello – con particolare attenzione verso tutti quegli aspetti
che hanno contribuito a modificare il rapporto dello spettatore con la televisione.
Ispirandomi al metodo di studio utilizzato dall’antropologia e dall’etnografia per
l’analisi della ricezione del messaggio televisivo, ho effettuato un piccolo
“esperimento di ricezione” relativo a una puntata del Grande Fratello. Dopo aver
interamente registrato su videocassetta una visione collettiva del programma insieme
a un gruppo di ragazzi e ragazze di varia età, ho intervistato privatamente ciascuno di
loro con lo scopo di comprendere meglio i significati che erano da loro assegnati al
testo televisivo, dunque le diverse modalità di fruizione del programma.
La trascrizione integrale delle sette interviste e delle domande è riportata in
appendice.
Spero che il mio lavoro possa aver fornito – seppur in piccolo – nuovi
interessanti spunti all’interno del fervido e variegato mondo degli studi sui mass
media.
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1. La fruizione del messaggio televisivo
1.1 La fruizione del messaggio televisivo
Negli ultimi anni sono cresciuti considerevolmente il potere e la risonanza
che la televisione ha nella nostra vita; essa esprime una sua – seppur contraddittoria –
visione del mondo e al tempo stesso condiziona e orienta la nostra immaginazione.
D’altro canto, anche i telespettatori svolgono un ruolo non trascurabile all’interno del
processo di ricezione del messaggio televisivo. Cultura, posizione sociale, età… sono
tutte variabili che condizionano fortemente il processo individuale di fruizione di un
qualunque film o programma televisivo; i significati che vengono assegnati al testo
sono dunque in parte soggettivi e non preventivabili nel momento della sua
produzione. Questa consapevolezza è il frutto di un’evoluzione degli studi sui mass
media, che nel tempo hanno spostato l’oggetto della loro ricerca dal testo allo
spettatore, dal momento della produzione a quello della ricezione, dall’emittente
all’audience.
Di seguito sarà tracciato un quadro sintetico, il più possibile esaustivo,
delle principali teorie sui media che si sono succedute a partire dagli anni Venti, in
modo da poter seguire più da vicino le diverse tappe di questo graduale, importante,
cambiamento di prospettiva che ha coinvolto direttamente anche gli studi sul medium
televisivo. Per l’elaborazione di questo capitolo mi sono basata principalmente sulle
informazioni contenute nei testi di Silverstone (1994) e Cheli (1999).
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1.2. Gli studi sui mass media
La ricerca sui media e sulla loro influenza all’interno della società è un campo
di studio abbastanza recente, nato negli Stati Uniti durante gli anni Venti. La grande
efficacia riscontrata dalla propaganda bellica durante il primo conflitto mondiale e la
notevole crescita della pubblicità commerciale stimolarono moltissimo l’interesse
degli studiosi dando vita a numerose ricerche. I primi studi psicologici e sociologici
determinarono l’affermarsi di una teoria che considerava i media come potenti
strumenti di persuasione, nei confronti dei quali le persone risultavano indifese: gli
spettatori erano visti come epifenomeni di forze attive altrove, come ad esempio gli
apparati statali o le industrie culturali, che trasmettono una loro verità e una loro
ideologia convinti che il pubblico passivamente recepisca il messaggio e lo approvi
1
.
Questa teoria – “teoria dell’ago ipodermico” – definita ironicamente bullet theory (o
“teoria della pallottola magica” con chiari rimandi all’efficacia dei messaggi lanciati
sulla gente, quasi come se fossero “proiettili magici”), può essere riassunta in tre
punti fondamentali (Cheli 1999):
1) Il pubblico dei media è costituito da una massa indifferenziata e
atomizzata di individui.
2) Qualsiasi messaggio costituisce un potente e immediato fattore di
persuasione.
3) Gli individui sono indifesi nei confronti dei messaggi a loro rivolti.
Secondo la bullet theory il comportamento delle persone è determinato da
meccanismi biologici di natura ereditaria e quindi tutti rispondono in modo uniforme
a uno stesso stimolo; concezione questa, fortemente influenzata dagli studi di
psicologia e sociologia dell’epoca, che vedevano l’individuo singolo come privo di
una qualsiasi autorità, del tutto dipendente da schemi istintuali, meccanismi imitativi,
stimoli suggestivi. Ne consegue che la propaganda e la pubblicità tramite mass media
1
E’ opportuno precisare che i termini comunicazione e persuasione vennero diffusamente
utilizzati dagli studiosi per riferirsi all’oggetto di studio solo verso la metà degli anni Quaranta. In
precedenza i termini convenzionalmente adottati erano quelli più ristretti di propaganda e di impatto
sull’opinione pubblica.
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erano ritenute in grado di influenzare, direttamente e rapidamente, le opinioni e i
comportamenti di vastissimi gruppi di persone. Un simile approccio al mondo dei
media, seppure carente sul piano scientifico, trovava un’unanime approvazione da
parte del mondo politico così come dagli studiosi e uomini di cultura, che vedevano
negli avvenimenti di quegli anni (ascese delle dittature, propaganda bellica…) ampie
conferme a questa concezione. Oltretutto, gran parte delle ricerche erano
commissionate da grandi aziende o gruppi politici che cercavano nella
comunicazione strumenti di persuasione e consenso.
L’idea dominante dunque considerava la comunicazione semplicemente come
una trasmissione di messaggi da un’emittente a un destinatario, totalmente indifeso e
incapace di costruirsi una propria opinione personale. La semplice ricezione di esso
veniva considerata sufficiente a determinare una risposta comportamentale: il modo
in cui il messaggio viene decodificato e interpretato dall’utente è un aspetto del tutto
trascurato da questo tipo di analisi.
Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta le ricerche sulle
comunicazioni di massa si fecero più approfondite grazie ai sofisticati strumenti a
disposizione degli studiosi: alcuni ricercatori ammorbidirono questa concezione
onnipotente dei media, sostenendo che la loro influenza nei confronti delle persone
poteva variare a seconda dei casi. Si affermò l’ipotesi che gli effetti della
comunicazione di massa non dipendessero solo dalla qualità e quantità dei messaggi
trasmessi ma variassero in funzione delle caratteristiche psicologiche e socioculturali
dei riceventi. La visione dei mass media come onnipotenti agenti di influenza sociale
venne così ridimensionata, e questo mutamento di prospettiva trovò in seguito
importanti conferme nei dati empirici delle ricerche appositamente condotte negli
anni Quaranta, all’interno delle quali particolare importanza hanno i contributi di due
studiosi: Paul Lazarsfeld e Carl Hovland. Così come le indagini di Lazarsfeld
(Lazarsfeld, Berelson , 1944) avevano mostrato che l’influenza dei media sulle
persone non era diretta ma veniva filtrata dalla società (in particolare dal ruolo di
alcuni individui, gli opinion leaders), quelle di Hovland dimostrarono che anche le
caratteristiche sociali e psicologiche dell’individuo modificano i messaggi che
arrivano dall’esterno facendo sì che persone diverse abbiano reazioni diverse di
fronte a uno stesso messaggio. A seguito di queste ricerche la visione onnipotente dei
media che aveva dominato la scena nei vent’anni precedenti iniziò a tramontare. I
media non apparvero più come dei mezzi di persuasione di immensa potenza poiché
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risultò chiaro che tutti i messaggi che essi diffondevano erano elaborati e filtrati in
modo diverso da persona a persona. Si iniziò così a parlare di influenza selettiva ed
effetti limitati: la comunicazione persuasoria risultava conseguire, nel complesso,
bassi livelli di cambiamento atteggiamentale, e ciò veniva attribuito all’azione
“filtrante” dei processi di mediazione, sia individuale che sociale. Si placarono così
le preoccupazioni degli intellettuali e del mondo politico per i possibili rischi sociali
e culturali connessi all’azione dei media: anzi, questi ultimi vennero visti come
preziosi alleati e non più come un qualcosa da guardare con sospetto. Nonostante ciò
gli studi sulle comunicazioni di massa continuarono a interessare numerosi studiosi e
tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta risultò chiaro ai
ricercatori che le conoscenze acquisite negli anni precedenti, nonostante
l’indiscutibile rigore metodologico, erano piuttosto insoddisfacenti, oltre che
ampiamente contraddittorie, ed era alquanto difficile inserirle in un unico modello.
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1.3. Dall’approccio funzionalista alla teoria degli effetti a lungo termine
A partire dalla fine degli anni Cinquanta la communication research entrò
dunque in un periodo di transizione durante il quale subì un cambiamento di rotta
dovuto a un nuovo approccio teorico di orientamento funzionalista. Il funzionalismo
rappresentò un ponte tra le teorie a breve termine e quelle a lungo termine e da esso
prese corpo il modello degli uses and gratifications, che si distingue da quelli
precedenti per il fatto di incentrarsi non più sugli effetti, ma sul consumo, ovvero sul
processo di fruizione delle comunicazioni di massa.
Questo nuovo approccio poggia sull’ipotesi di fondo che vi sia un rapporto
diretto tra l’uso dei vari media e i bisogni dei fruitori: i media sono così considerati
non più strumenti che bersagliano le persone con i loro messaggi a fini persuasivi,
ma piuttosto come una sorta di fornitori di prodotti simbolici la cui utilizzazione o
meno dipende in ultima analisi dall’individuo stesso, visto adesso quale soggetto
capace di decidere attivamente la propria condotta. Si ha così una ridefinizione della
questione degli effetti, che adesso non è più “che cosa fanno i media alle persone”,
bensì “che cosa fanno le persone con i media”, vale a dire “quali funzioni svolgono i
media per l’individuo e la collettività” (Cheli, 1999). Nonostante il modello sia per
certi versi indubbiamente innovativo (in primo luogo nel ritenere il ricevente un
soggetto attivo), esso rimane ancora incentrato sulla dimensione a breve termine e
può essere al massimo considerato come un ponte tra i due diversi paradigmi (a
breve e a lungo termine).
Verso la fine degli anni Sessanta alcuni studiosi misero in discussione i
fondamenti delle teorie precedenti affermando che, fino ad allora, le indagini sui
media si erano limitate alla propaganda e alla pubblicità, trascurando altri possibili
effetti a più lunga scadenza; inoltre non si era ancora considerata la televisione, che
negli ultimi anni aveva assunto una posizione di primo piano essendo ormai
diventata fenomeno di massa raggiungendo un livello di diffusione paragonabile a
quello della radio. Indubbiamente il clima fortemente anticonformista che regnava in
questi anni in America come in Europa ha contribuito alla nascita di queste nuove
teorie, sicuramente originali e indipendenti da quelle degli anni precedenti.
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La teoria degli effetti a lungo termine sposta l’attenzione dal piano
comportamentale a quello della rappresentazione: essa si sofferma cioè sulle
conseguenze graduali che una prolungata esposizione ai media può produrre sulle
attività percettivo-rappresentazionali delle persone e sulla loro immagine della
realtà. La comunicazione dei mass media, se continuativa e prolungata, può
influenzare i riceventi anche sul piano dei valori, dei modelli di comportamento,
degli stili di vita, della visione del mondo: tutto ciò di cui si interessa anche
l’antropologia culturale, come sarà spiegato più dettagliatamente in seguito. Sul
piano empirico, i mass media non devono essere esaminati quali veicoli di campagne
altrui, ma anche e soprattutto quale sistema comunicativo globale, la cui varia e vasta
emissione comunicativa, pur non essendo necessariamente ispirata da finalità
persuasorie, può comunque avere nel tempo un impatto notevole sull’individuo, sulla
cultura, sulla società.
La ricerca degli anni precedenti si soffermava esclusivamente sull’efficacia di
un determinato messaggio pubblicitario o di propaganda, trascurando il fatto che la
comunicazione è costituita soprattutto di informazioni, contro le quali il pubblico non
si protegge, come invece può fare di fronte ai tentativi di aperta persuasione.
Nonostante oggi gli studi sui media siano accomunati da questa consapevolezza,
rimane ancora aperto il dibattito tra gli studiosi: dalla sociologia alla semiotica, dagli
studi culturali all’antropologia, ogni disciplina si concentra su un elemento diverso e,
data la complessità dello stesso oggetto di studio, siamo ancora ben lontani dalla
parola fine. Se infatti l’obiettivo finale di ogni ricerca sui media non è più il mezzo di
comunicazione né il messaggio ma il processo di fruizione continuativo e prolungato
di esso, ecco che comincia ad acquistare importanza un elemento fino a poco tempo
fa ancora ignorato: il pubblico. Il modello di riferimento per questo nuovo modo di
concepire il rapporto tra mass media, individuo, società diviene sempre più
esplicitamente il processo di socializzazione, tramite il quale l’individuo viene
direttamente condizionato dall’ambiente circostante a partire dall’infanzia:
all’interno di questo processo i mass media sono visti quali fattori estremamente
potenti e condizionanti.
Questo cambiamento di prospettiva genera notevoli problemi alla ricerca:
studiare l’uomo e il suo ambiente sociale – per sua natura sfuggente e difficile da
definire – non è come studiare un testo o una macchina.
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1.4. Gli studi sull’audience televisiva
La parola audience designa l’insieme delle persone raggiunte, in un certo
momento o periodo di tempo, da un messaggio di comunicazione.
Come descritto nel paragrafo precedente, gli studi e le teorie sui media hanno
nel tempo spostato l’oggetto finale della loro ricerca dal testo, in quanto produttore di
significati, all’uomo, poiché capace di interpretarli. Gli studi e le teorie relative alle
modalità di interpretazione dei bisogni e delle preferenze dell’audience sono
numerosi e in parte discordanti. Rimane comunque convinzione diffusa che i
destinatari di un messaggio di comunicazione non siano né passivi nel momento
della ricezione né tanto meno una categoria omogenea al suo interno. L’audience non
corrisponde a nessun gruppo sociale specifico proprio perché essa in quanto
categoria è stata creata proprio da coloro che intendevano studiarla: questo significa
quindi che è stata a sua volta prodotta dall’industria dei media. Quando dunque un
ricercatore o uno studioso entra all’interno di un nucleo familiare per studiarne i
comportamenti di fronte alla tv, sta al tempo stesso creando l’oggetto della sua
ricerca.
Una ricerca mirata a studiare il tipo di consumo delle comunicazioni di massa
si presenta fin dall’inizio come un’analisi più complessa di una semplice rilevazione
quantitativa. Risulterebbe fuori luogo in questa sede fornire un dettagliato resoconto
degli studi sull’audience effettuati dalle varie discipline nell’ultimo mezzo secolo;
quello che segue è pertanto un accenno delle questioni ritenute più importanti al fine
di poter fornire una cornice idonea alle tematiche che verranno trattate, per questo
motivo la prospettiva utilizzata privilegerà gli studi relativi al solo medium
televisivo.
Se agli occhi degli studiosi l’integrità e l’autorità del messaggio dei media –
date precedentemente come presupposte e incontestabili – cominciano a sgretolarsi,
adesso la ricerca si trova davanti nuove sfide e nuove difficoltà, generate dal senso
sfuggevole dell’audience e dalle circostanze contingenti che ne determinano le scelte.
È possibile affermare che quasi tutte le teorie sugli effetti della televisione tendano
ad analizzare la risposta del singolo individuo, classificato per età e per interessi ma
totalmente decontestualizzato e privo di legami sociali: il potere dei media doveva
essere compreso nei modi in cui si supponeva che influenzasse l’individuo isolato.
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Gli studi di Katz e Lazarsfeld (Katz e Lazarsfeld, 1955) in questo senso costituiscono
un passo avanti in quanto per primi spostano l’attenzione verso un concetto di
socievolezza sollevando la questione della natura del rapporto tra sociale e
individuale come elementi del rapporto tra pubblico e media. L’audience adesso è
vista come composta da membri di gruppi, che nel loro attivo rapporto con i media
selezionavano, trasformavano o rifiutavano le informazioni o le idee che i media
stessi fornivano.
La ricerca sui mass media non può limitarsi a campioni casuali di individui
privi di connessione. Gli intervistati devono essere studiati nel contesto del gruppo o
dei gruppi cui appartengono o che “hanno in mente” e che quindi possono
influenzarli nella formulazione delle loro opinioni, atteggiamenti o decisioni e nel
rifiuto o nella accettazione dei tentativi di influenza esercitati dai mass media (Katz e
Lazarsfeld 1955, pag. 95).
Il loro studio, pur costituendo un grande passo avanti per la ricerca
sull’audience, risultava comunque carente di numerosi elementi (Silverstone 1994,
pag. 245-246) quali:
• Assenza di una visione consumatoria della comunicazione, cioè che riconosca
come parte importante della fruizione il dato anche non razionale e
imprevedibile.
• Assenza di una concezione dell’individuo in quanto collocato in un mondo
politico, economico e ideologico non direttamente visibile nelle pratiche
quotidiane.
• Assenza di una riflessione sui diversi ordini di temporalità nel rapporto di
ricezione, non esclusivamente a breve termine.
Questi e altri argomenti furono oggetto di studi successivi, tutti molto
originali, che affrontano la questione da punti di vista diversi.
Sonia Livingstone (Livingstone, 1990) esamina e cerca di valutare la natura
dei rapporti tra gli spettatori di soap operas e le soap operas stesse: il suo approccio è
di tipo socio-psicologico e verte sullo studio dei rapporti testo-lettore. Dopo aver
“mappato” le coincidenze e le congruenze interpretative da parte di un campione
vario di spettatori rispetto ai personaggi di una soap, la ricercatrice giunge a
identificare alcuni meccanismi che vengono impiegati dagli spettatori nel rapportarsi
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a questo genere di programmi. Il suo approccio è senza dubbio originale, tuttavia
rimane da chiarire se questo genere di processi siano del pari applicabili ad altri
generi di programmi televisivi o a una fruizione meno costante, anche delle stesse
soap operas.
Gli studi di Katz e Liebes (Katz e Liebes, 1986) sugli spettatori di Dallas
offrono un quadro sociologicamente più sfaccettato della natura del rapporto tra
spettatori e programmi televisivi ponendo l’accento sulle differenze culturali e il
modo di rapportarsi al testo. Gruppi relativamente omogenei di tre coppie (sposate),
legate fra loro da rapporti di amicizia e distinte in base al retroterra culturale ed
etnico sono state da loro invitate a guardare e discutere episodi del programma;
principalmente in Israele, ma anche nel Giappone e negli Usa. Kats e Liebes si
sforzano di capire la dinamica secondo la quale gli spettatori con retroterra culturale
differente si rapportano alle storie del programma: i risultati dei loro studi hanno
suggerito che l’identità culturale ed etnica fornisce un’importante discriminante nei
rapporti spettatore-testo. Essi distinguono tra atteggiamento referenziale (un
atteggiamento che porta a riferire le letture dei testi alla propria esistenza) e critico
(implica un coinvolgimento semantico o sintattico con il testo). Importante
sottolineare come il concetto di distanza critica non implichi necessariamente una
contestazione della fondamentale referenzialità del testo o della sua forza ideologica:
gli spettatori possono essere critici pur continuando ad accettare i significati
fondamentali offerti dal testo.
Tutte le ricerche sopra riportate (anche se rappresentano – come già detto –
solo una piccola parte degli studi in materia) si riferiscono al rapporto tra audience e
televisione. Ciò che li differenzia è invece l’oggetto su cui essi pongono l’accento:
alcuni si concentrano su un genere televisivo intervistando singole persone
(Livingstone), altri invece su programmi individuali e piccoli gruppi di spettatori
(Kats e Liebes). Individuare alcune componenti metodologiche di questi studi
sull’audience è importante non solo per definire in quale maniera ogni ricercatore
affronta il problema, ma soprattutto per evidenziare quante diverse sfaccettature offra
questo campo di ricerca e quanto sia ancora distante una risposta univoca da parte
degli studiosi. Resta comunque il fatto che queste e altre ricerche simili, riportate qui
in modo sommario a semplice scopo esemplificativo, contribuiscono a migliorare la
nostra comprensione degli elementi cruciali dell’attività dell’audience in rapporto
con i testi della televisione.
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Nonostante questo, l’audience è un’entità che ancora sfugge: è diventata
sempre più problematica e non solo per gli accademici quanto anche per le imprese
commerciali che mirano a un sempre maggiore controllo di essa per poter
massimizzare il loro profitto. È necessario che i ricercatori riconoscano che il
problema del potere della televisione non ammette una facile soluzione, ma allo
stesso modo non è possibile giungere a una soluzione senza riconoscere la
complessità dei rapporti culturali e sociali nei quali i telespettatori sono immersi. Per
questo motivo un’indagine su di essa non dovrebbe basarsi, per dirla con le parole di
Silverstone,
su una serie di individui precostituiti o gruppi sociali rigidamente predefiniti,
ma su una serie di pratiche e dialettiche quotidiane nel cui ambito l’azione complessa
del guardare la televisione è situata accanto ad altre azioni e attraverso le quali quella
stessa azione complessa è costituita (Silverstone 1994, pag. 227).
Gli studiosi tendono ancora a sottovalutare tutte quelle dinamiche che si
creano tra ricezione e ambiente sociale. “La vita quotidiana sfugge, e con essa anche
la televisione” (Silverstone, 1994, pag. 16). In realtà invece la televisione fa ormai
parte della nostra vita quotidiana, riempie le nostre case e condiziona il nostro modo
di pensare: come una finestra sul mondo, ha aperto nuovi spazi al nostro
immaginario collettivo.