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1. Introduzione
Gli animali modello e le colture cellulari sono da sempre la base della ricerca
biomedica, senza i quali non si sarebbe potuti arrivare alle conoscenze attuali, a partire
dai meccanismi molecolari degli organismi più semplici fino ai grandiosi avanzamenti
nella cura di malattie umane. Nonostante la fondamentale importanza di questi
modelli, riconosciuta anche dall’universalità del loro utilizzo, è impossibile però non
tenere conto delle loro limitazioni.
Per quanto riguarda le linee cellulari umane, la loro semplicità e scalabilità le rende
adatte, ad esempio, a saggi high-throughput di perturbazione genetica, ma non allo
studio della fisiologia o patologia umana. Questo perché sono colture bidimensionali,
che non riescono a riprodurre le interazioni tra le cellule stesse o l’architettura
tissutale, oltre al fatto che divergono dalle caratteristiche genetiche e morfologiche del
tessuto d’origine. Infatti, per poter essere coltivate indefinitamente nel tempo devono
essere linee cellulari tumorali, oppure, se sono cellule sane, devono essere
immortalizzate mediante trasformazione virale, e in ogni caso le cellule che
sopravvivono sono quelle adattatesi a vivere in coltura (Fujii e Sato, 2021).
Gli animali modello, rispetto alle colture cellulari, hanno il vantaggio di riprodurre
meglio le funzioni fisiologiche presenti in vivo, ma richiedono molto più tempo e
risorse per essere utilizzati nella sperimentazione. In questo caso, le problematiche più
evidenti sono dovute alla diversità o addirittura assenza di pathway metabolici presenti
nell’uomo, anche nelle specie più evolutivamente vicine come il topo, portando così
all’inefficacia della maggior parte dei farmaci quando traslati ai trials clinici. L’utilizzo
di animali inbred, ovvero geneticamente identici, non consente di rappresentare
l’estrema variabilità genetica presente nell’uomo, caratteristica basilare per gli studi di
medicina personalizzata. Un’ulteriore limitazione è l’impossibilità di descrivere il
processo di sviluppo umano, a causa delle difficoltà fisiche di accesso all’embrione nel
topo, o della bassa similarità biologica con altri modelli più accessibili come lo
zebrafish (Kim et al., 2020).
La strada alla risoluzione di queste problematiche si è aperta da poco più di dieci
anni, con la costituzione di un nuovo sistema di coltivazione cellulare, l’organoide, che
si è individuato grazie ai progressi nella comprensione dei pathway di differenziamento
delle cellule staminali e del microambiente nel quale si trovano. È un sistema in cui
cellule staminali adulte o pluripotenti (embrionali o indotte) crescono in una coltura
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contenente i fattori di crescita delle nicchie staminologiche, riuscendo così ad auto-
assemblarsi e differenziarsi assumendo una conformazione tridimensionale. In questo
modo gli organoidi, come suggerito dal nome, sono in grado di mimare in vitro la
struttura ed almeno alcune delle funzioni dell’organo d’interesse (Huch et al., 2017).
Sfruttando la loro alta similarità con la fisiologia umana, è possibile modellizzare
le malattie per studiarne meglio i meccanismi patogenetici o per scoprire nuovi farmaci
in grado di curarle, ma anche investigare le interazioni tra l’organismo e l’ambiente,
come ad esempio con il microbiota commensale. Studiare il processo con il quale si
formano gli organoidi in vitro permette anche di testare sull’uomo le conoscenze di
biologia dello sviluppo che si sono ottenute finora usando altri modelli. Spingendosi
oltre, gli organoidi possono essere utilizzati come piattaforma nella medicina
personalizzata, per stabilire la terapia più adatta al paziente, o essere loro stessi una
terapia, come nei casi di trapianti autologhi (Corrò et al., 2020; Huch et al., 2017).
Lo scopo di questa trattazione è dunque quello di analizzare le grandi potenzialità
degli organoidi, senza dimenticare che è una tecnologia ancora da perfezionare e
migliorare con ulteriori studi e validazioni, dato che è ancora poco esplorata in
confronto agli altri modelli cellulari e animali, usati da molto più tempo. Attenzione
particolare sarà riservata soprattutto agli organoidi intestinali, poiché fortemente
esplicativi della versatilità di questo sistema, considerando le loro applicazioni più
recenti nella ricerca biomedica, ponendo l’accento sulle differenze rispetto alle altre
piattaforme di studio ed evidenziando ciò che possono offrire in più.
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2. Organoidi umani
2.1 Definizione e tipologie
Gli organoidi sono colture tridimensionali di cellule staminali che si differenziano
nei tipi cellulari di un determinato organo, riproducendone struttura e funzioni, ma
non tutti gli aggregati cellulari in tre dimensioni si possono considerare organoidi. Per
esserlo, infatti, le cellule devono essere in grado di auto-organizzarsi e differenziarsi ex
vivo quando poste all’interno di una coltura che riproduce l’ambiente della nicchia
staminale (Fujii e Sato, 2021; Huch et al., 2017). Un’altra caratteristica fondamentale
è la capacità di queste cellule di auto-rinnovarsi, ed è grazie a questa che, per la maggior
parte degli organoidi, è possibile un’espansione stabile anche per oltre un anno. Per
garantire queste capacità, si devono ricreare in vitro le giuste condizioni che
permettono sia la proliferazione che il differenziamento delle cellule, e lo si fa fornendo
una precisa combinazione di fattori di crescita tipicamente presenti nella nicchia.
Questi fattori, tra cui morfogeni e mitogeni, vanno ad attivare tra gli altri il pathway di
segnalazione Wnt, cruciale per il mantenimento della proliferazione, quello di MAPK
(mitogen-activated protein kinase) che permette la sopravvivenza delle cellule in una
coltura a lungo termine, e ad inibire quello di BMP (bone morphogenetic protein) il
quale andrebbe altrimenti a bloccare la proliferazione. Pertanto, alla base
dell’instaurazione di questo sistema c’è la comprensione del ruolo biologico di questi
fattori in vivo, seguita da studi che considerano il singolo fattore per identificare il suo
effetto sulla crescita dell’organoide, e assestare le migliori condizioni di coltura.
Tuttavia, lo stesso mix di fattori non è ottimale per la crescita indistinta di tutti i tessuti,
perciò è necessario perfezionarlo in base all’origine delle cellule staminali (Fujii e Sato,
2021).
Questa procedura che prevede di fornire un insieme di fattori di crescita per
riprodurre i segnali di omeostasi tissutale della nicchia, è quella utilizzata per generare
una delle due tipologie di organoidi, in cui si parte da cellule staminali adulte (ASC).
Le cellule vengono prelevate direttamente dal tessuto dell’individuo, che può essere sia
sano che malato, come ad esempio nei casi in cui si voglia modellizzare il tumore del
paziente. Siccome questo tipo può essere prodotto esclusivamente da un tessuto con
capacità rigenerative, ad oggi essenzialmente tutti gli organoidi derivanti dalle ASC
riproducono solo la parte epiteliale degli organi. Per questo motivo sono meno
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complessi rispetto agli organoidi derivanti da cellule pluripotenti (i quali contengono
anche elementi mesenchimali e a volte endoteliali), e possono essere espansi in coltura
rimanendo geneticamente stabili per molto tempo (Corrò et al., 2020; Schutgens e
Clevers 2020).
La seconda tipologia di organoidi deriva da cellule pluripotenti embrionali oppure
indotte (PSC), e necessita di un procedimento più elaborato per essere costituita, infatti
anche le tempistiche si allungano dai 7 giorni degli organoidi ASC-derived a circa 2-3
mesi per questi. Prima di tutto, se si parte dalle iPSC, si devono riprogrammare le
cellule (generalmente i fibroblasti epiteliali) in cellule pluripotenti, le quali vengono
fatte espandere e poi differenziate nell’organo desiderato mediante un’esposizione
graduale a fattori di crescita o inibitori, che deve emulare gli step di differenziamento
percorsi in vivo. Durante questo processo, l’organoide mima le fasi di organogenesi che
avvengono durante lo sviluppo umano, ed è per questo che viene utilizzato come
modello per studiare l’embriogenesi. Il differenziamento non è efficiente al 100%,
poiché è difficile rispettare le reali concentrazioni e tempistiche di tutti i fattori inseriti
visto che è un processo non ancora del tutto caratterizzato, di conseguenza a volte
compaiono anche cellule non appartenenti ad un determinato organo, ma è comunque
interessante studiare i motivi di questa loro insorgenza. Quindi, queste due tipologie
di organoidi differiscono per vari aspetti, ed è necessario scegliere quale usare in base
allo scopo della ricerca (Kim et al., 2020; Schutgens e Clevers, 2020). (Figura 1).
In entrambi i tipi di organoide si deve evitare il contatto diretto con la plastica della
piastra, in modo da permettere una crescita in tutte e tre le dimensioni, perciò si deve
stabilire una coltura in sospensione, e lo si può fare utilizzando o meno uno scaffold.
Lo scaffold funge da lamina basale per le cellule, è il sostituto in vitro della matrice
extracellulare (ECM), e fornisce quindi sia supporto fisico che i segnali biochimici tipici
della ECM. I materiali più sfruttati per simulare l’ambiente extracellulare sono il
Basement Membrane Extract oppure il Matrigel, che derivano dal sarcoma murino di
Engelbreth-Holm-Swarm e contengono un insieme di proteine quali collagene,
laminina, proteoglicani. Le cellule vengono inglobate in questi supporti, oppure si può
stabilire un’interfaccia “aria-liquido” in cui crescono su uno strato di Matrigel o
fibroblasti inizialmente sommersi in un medium che viene poi fatto evaporare
gradualmente per permettere la polarizzazione delle cellule. Se invece non viene
utilizzato uno scaffold, gli organoidi sono contenuti in gocce di medium che rimangono