2
di pubblico interesse, perseguono uno scopo socialmente rilevante e
sono vincolate alla non distribuzione di utili eventualmente conseguiti.
Le ragioni che hanno determinato, a partire dagli anni ’80, lo
sviluppo del terzo settore in Italia sono di due tipi, culturali ed
economiche
2
.
Innanzitutto si è registrata la crisi dei modelli di partecipazione
politica, la crisi delle ideologie e una crescente disaffezione ad una
politica sempre più giocata nell’arena televisiva e attraversata da
fenomeni di corruzione e degenerazione. Tutto ciò ha indotto molti
cittadini a riversare le proprie energie e la propria voglia di
partecipazione in organismi capaci di assicurare esperienze di
interazione con altre persone, possibilità di contare e decidere in prima
persona e di dare risposte a nuove esigenze sociali.
Questa tendenza ad “associarsi per risolvere i problemi” che,
secondo Tocqueville, costituisce un elemento fondamentale della
“democratica” società americana, per varie ragioni storiche ed
economiche è stata solo di recente riscoperta e rivalutata in Italia.
2
BARBETTA, cit., 9 ss.; PONZANELLI, cit. 1 ss. ; FASANELLI, La società civile incompresa e i
programmi del legislatore in materia di Terzo settore, in Gli enti non commerciali e le
organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Il Fisco, 1998, n. 10, 5 ss.
3
Se è vero, infatti, che nel nostro Paese i corpi intermedi hanno, fin
dall’epoca medievale, svolto un ruolo determinante nel campo
dell’assistenza, le iniziative provenienti dal basso si sono affermate
solo alla fine dell’ottocento. Inoltre, la crisi del Welfare State, per
motivi di insostenibilità economica e di inefficienza del sistema, ha
spinto la classe dirigente a individuare nuovi strumenti per garantire i
Diritti sociali
3
, diritti inviolabili dell’uomo per la nostra Costituzione.
Il modello americano del non profit è apparso come la soluzione
più convincente per superare le difficoltà dello Stato assistenziale. Si è
incominciato, quindi, ad incoraggiare l’associazionismo
4
per fini di
solidarietà sociale sfruttando alcune caratteristiche di queste
organizzazioni quali: il maggior affidamento che suscitano nei
destinatari, la capacità di attrarre donazioni, la facilità di attirare
volontari. L’equazione che riassume questa nuova posizione è:
più spazio alle organizzazioni non profit nell’area dei servizi collettivi
uguale minor spesa pubblica e migliore servizio per i cittadini.
3
BALDASSARRE, Costituzione, ordinamento e attività non profit, in Gli enti non commerciali e le
organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Il Fisco, n. 10, 1998, 3379; RIGANO,
L’incentivazione all’associazionismo prima e dopo il d.lgs. n. 460 del ‘97, in Terzo settore e nuove
categorie giuridiche: le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Milano, 2000, 80.
4
RIGANO, Le associazioni non lucrative a confronto con la disciplina comunitaria del Mercato, in
Giur. Cost., 1997, 3542.
4
Si delinea, così, un nuovo rapporto tra Stato ed enti privati:
rispetto al sistema prefigurato nel codice del ’42, essi non sono più
visti come fenomeni da proibire o da sottoporre a rigidi controlli ma
vengono considerati come organismi da proteggere e sostenere
5
.
Ciò spiega il favor
6
del legislatore per questi enti che si
manifesta dapprima con finanziamenti a fondo perduto, poi con
sovvenzioni finalizzate e agevolazioni ed esenzioni condizionate dalla
meritevolezza del fine perseguito e dalla sussistenza di specifici
requisiti in capo agli enti. Il mutamento d’indirizzo risponde alla
convinzione che la crescita di un associazionismo maturo, efficiente e
non parassitario sia favorita da forme mirate di incentivazione.
A partire dai primi anni ’90 sono stati adottati numerosi
provvedimenti legislativi
7
diretti al mondo non profit, rilevanti sia dal
punto di vista fiscale, sia dal punto di vista civilistico.
5
BASILE, Associazioni e fondazioni: novità legislative e problemi aperti, in Gli enti non profit in
Italia, 1994, 20; NAPOLITANO, Le associazioni private a rilievo pubblicistico, in Riv. crit. dir.
priv., 1994, 586.
6
RIGANO, L’incentivazione all’associazionismo prima e dopo il d.lgs. n. 460 del ’97, in Terzo
settore e nuove categorie giuridiche: le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Milano,
2000, 75 ss.; DE GIORGI, voce <<Onlus>>, [aggiornamento-2000], in Digesto civ., Utet, Torino,
590.
7
PONZANELLI, Fondazioni, non profit e attività d’impresa: un decennio di successi, Riv. dir.
privato, 1999, 186.
5
Si tratta di normative di settore, volte a regolare specifiche
figure organizzative o aspetti della loro attività, che prevedono, per la
loro applicazione, il possesso da parte dell’ente di specifici requisiti
strutturali (l’adozione di uno statuto con speciali regole di
funzionamento interno, l’apporto dei volontari all’attività del gruppo)
e teleologici (l’assenza dello scopo di lucro, l’esclusivo fine di
solidarietà). Espressione di questo modo di legiferare sono la L. n. 266
del 1991, Legge quadro sul volontariato, e la L. n. 381 del 1991 sulle
cooperative sociali.
In questo contesto si inserisce il d.lgs n. 460 del 1997 che non
ha creato una nuova tipologia giuridica di ente ma ha previsto una
qualità speciale, rilevante in sede tributaria, che le varie figure
soggettive prive di scopo di lucro del diritto civile, possono rivestire
qualora ne abbiano i requisiti
8
. Questa legislazione è molto
interessante dal punto di vista civilistico perché, oltre a dare rilevanza
al dato negativo della non distribuzione degli utili, qualifica tali
8
FUSARO, Il tortuoso cammino del decreto legislativo sulle Onlus, in Gli enti non commerciali e
le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, Il Fisco, n. 10, 1998, 3397; SANTUARI, Le
Onlus-Profili civili, amministrativi e fiscali, Padova, 2000, 125 ss.
6
organizzazioni alla luce di due criteri
9
, quelli dell’attività e dello
scopo, che sono assenti nella disciplina codicistica degli enti del
Libro I. E’ da questa legislazione che bisognerà partire per una
revisione civilistica degli enti collettivi senza scopo di lucro al fine di
costruire una vera e propria categoria normativa degli enti non profit.
Il codice del ’42, infatti, contiene una disciplina delle
formazioni sociali intermedie, che risente dell’ideologia liberale e
fascista
10
: la prima apertamente ostile a ogni corpo intermedio che
possa intromettersi nel rapporto Stato – cittadino, specie se di
estrazione religiosa; la seconda diffidente verso ogni forma di
associazionismo.
La Costituzione italiana, invece, contiene un complesso
normativo estremamente favorevole alle società intermedie. Essa
11
ha
valorizzato le formazioni sociali come luogo di realizzazione della
personalità dei singoli individui (art. 2) e ha esaltato la libertà di
associazione (art. 18) quale strumento di partecipazione dei cittadini
9
DE GIORGI, Il nuovo diritto degli enti senza scopo di lucro: dalla povertà delle forme
codicistiche al groviglio delle leggi speciali, in Riv. dir. civ., 1999, 298 ss.
10
VITTORIA, Gli enti del primo del codice civile: l’attuale assetto normativo e le prospettive di
riforma, in Le fondazioni in Italia e all’estero, a cura di Rescigno, Padova, 1989, 35 ss.
11
BOTTARI, I profili istituzionali della normativa in tema di Onlus, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,
1999, 343.
7
allo sviluppo politico, economico e sociale del Paese (art. 3 co. II). Si
può affermare che la Costituzione ha disegnato una società pluralista
12
in cui l’azione collettiva dei privati è non solo garantita ma addirittura
sollecitata per l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
(art. 2).
In tale disegno è iscritto anche il principio di sussidiarietà
13
, che
oggi è stato inserito esplicitamente da una riforma costituzionale,
secondo il quale in determinati settori d’interesse generale (scuola,
12
BASILE, op. ult. cit., 18; RIGANO, L’ordinamento giuridico e fiscale, in Senza scopo di lucro.
Dimensioni economiche, storia, legislazioni e politiche del terzo settore, a cura di Barbetta,
Bologna, 1996, 78; E. ROSSI, Le formazioni sociali nella Costituzione italiana, Padova, 1989;
RESCIGNO, Le formazioni sociali intermedie, in Riv. dir. civ., 1998, I, 301.
13
Il principio di sussidiarietà è un principio ispiratore dei rapporti tra Stato e società, da almeno
200 anni: sviluppato soprattutto nella cultura di lingua tedesca nell’ottocento, viene ripreso nel
secolo successivo dalla nascente dottrina sociale cattolica. Nel nostro ordinamento il principio
viene introdotto con la L. n. 439 del 1989 di ratifica della Carta europea delle autonomie locali
adottata a Strasburgo nel 1985 ed è successivamente formalizzato quale principio fondamentale
del nuovo ordinamento comunitario dall’art. 3B del Trattato di Maastricht del 1992. In base ad
esso, ogni ente sovraordinato svolge una funzione <<sussidiaria>> rispetto all’ente locale più
vicino al cittadino, secondo una scala di attribuzioni e funzioni che inizia dal Comune e, attraverso
le Province, le Regioni e lo Stato, termina con il mantenimento delle funzioni comuni di interesse
sovranazionale da parte dell’Unione Europea. Si è cercato, così, di armonizzare le attribuzioni
dell’Unione Europea con quelle degli altri Enti, nella prospettiva della realizzazione di una
struttura federale. Nel nostro ordinamento questo principio ha ispirato la legge delega n. 59 del
’97 e il successivo d.lgs. n. 112 del ’98, nonché la L. n. 127 del ’97, che hanno realizzato un’ampia
opera di decentramento conosciuta come “Federalismo amministrativo”. Nella XIII legislatura una
Commissione Parlamentare Bicamerale ha elaborato un testo di modifica della Costituzione, il cui
art. 56 fissava, per l’esercizio di funzioni pubbliche, il principio di sussidiarietà in senso sia
verticale che orizzontale. Esso ha trovato la definitiva consacrazione, nel nostro ordinamento, con
la legge Cost. n. 3 del 2001 che, nel nuovo art. 118, attribuisce tutte le funzioni amministrative ai
Comuni, salvo che non intervenga l’esigenza di un esercizio unitario, e favorisce l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento delle attività di interesse generale.
FERRARIS, Decentramento amministrativo, in Digesto pubbl., IV, Utet, Torino, 189 ss.;
QUADRIO CURZIO, op. ult. cit., 3388; FASANELLI, cit., 3970; VITTADINI, Il principio di
sussidiarietà per una nuova Welfare society, in Non profit, 2000, 627 ss.
8
assistenza, sanità, cultura) si deve favorire l’iniziativa dell’ente più
vicino ai cittadini tra Comuni, Province e Regioni (sussidiarietà
verticale) o anche di singoli e associazioni (sussidiarietà orizzontale).
Questo principio richiede l’intervento in campo sociale dei corpi
intermedi e dello Stato, insieme, secondo una logica di
complementarità e non di contrapposizione. Il nuovo modello di Stato
sociale che si va delineando in Italia prevede, quindi, la cooperazione
tra settore pubblico e settore privato senza scopo di lucro nelle aree
d’intervento tradizionali dei sistemi di Welfare.
9
2. – Cenni storici: L’esperienza nordamericana
Il modello più importante di organizzazione di un settore non
profit è considerato quello nordamericano
14
. Esso viene utilizzato dai
Paesi europei come schema di riferimento per la costruzione del terzo
settore.
Negli Usa il fenomeno non profit ha un forte radicamento
sociale e culturale come ha ben spiegato Tocqueville nel suo libro
“La Démocracie en Amérique” in cui ci descrive americani di tutte le
età, condizioni e opinioni unirsi incessantemente per lottare contro i
mali e le difficoltà della vita.
C’è chi
15
ritiene che la propensione ad associarsi, negli Usa, può
essere fatta risalire ai primi immigrati europei i quali, lontani dai
Governi e dai centri finanziari della madrepatria, compresero che per
sopravvivere e per rispondere ai bisogni basilari della società civile
avrebbero dovuto unire le loro forze in associazioni volontarie.
14
PONZANELLI, Le non profit organizations dell’esperienza statunitense, in Riv. dir. civ., 1985,
59 ss.; BALDASSARRE, op. ult. cit., 3379 ss.
15
SANTUARI, L’impresa sociale: un concetto giuridico?, in Dir. famiglia, 2000, 904.
10
Di sicuro, la pluralità delle culture e quindi la pluralità di lingua,
religione e costumi, spingeva i gruppi ad organizzarsi per raggiungere
finalità che trascendevano i singoli individui, senza necessità di far
riferimento allo Stato
16
.
E’ così che nasce e si sviluppa lo spirito democratico di quel
Paese, nel quale l’associazionismo rappresenta un fattore di crescita
morale e civile dei cittadini.
Molto importante in questo processo è stata l’etica protestante
soprattutto in relazione alla grande affermazione delle fondazioni
17
. I
beni che la fortuna o la Provvidenza ha attribuito ad un individuo,
secondo tale morale, devono, almeno parzialmente, essere destinati a
scopi vantaggiosi per l’intera collettività. Sono le fondazioni, infatti,
gli organismi che caratterizzano maggiormente il settore non profit
nordamericano, laddove nei Paesi europei contemporanei si nota una
certa prevalenza del fenomeno associativo e cooperativo.
16
Così scrive a tal proposito RESCIGNO: << Il pluralismo del modello americano aveva suscitato
l’ammirato stupore di Tocqueville, rivelandogli un modo di vivere e di operare radicalmente
diverso dalle abitudini del nostro continente e dalla nostra mentalità di chiamare lo Stato ad
intervenire ovunque si debba perseguire un interesse che trascenda le possibilità, le attitudini, le
potenzialità economiche del singolo.>>, in Le formazioni sociali intermedie, in Riv. dir. civ., 1998,
I, 306; JEAN-JAQUES CHEVALLIER, <<La démocracie en Amérique>> di Alexis de Toqueville, in
Le grandi opere del pensiero politico, Bologna, 1968, 293 ss.
17
RESCIGNO, voce <<Fondazione (diritto civile)>>, in Enc. del dir., XVII, Milano, 1968, 794.
11
L’espansione del settore non profit negli Usa ha, oltre a ragioni
storiche e culturali, anche altri due motivi. Il primo è che
l’ordinamento americano ha una diversa organizzazione del settore
pubblico che riduce al minimo la sua sfera d’intervento in campo
sociale, tanto che si parla di “Stato minimale”
18
. Il secondo è
l’organizzazione del settore fiscale
19
: le non profit organizations non
sono sottoposte ad alcuna tassa. Se le tasse, infatti, servono per trarre
soldi dal reddito privato e utilizzarli a fini socialmente utili, ebbene, le
attività non profit sono socialmente utili e non c’è ragione di
sottoporle a tassazione. I privati, cittadini e imprese, possono poi
detrarre l’importo delle donazioni effettuate a favore di enti che
operano in tale settore e ciò crea un forte incentivo a dare contributi.
Questo sistema fiscale, unitamente agli altri fattori descritti, ha
determinato una crescita del settore non profit per un valore pari
al 15% del PIL, laddove in Italia la sua incidenza si aggira
sul 2% del PIL.
18
Per esempio le università, tranne qualche caso, sono organizzazioni statali in Italia e non profit
negli Usa. G.ROSSI, Le non profit organizations nel diritto pubblico italiano, in Gli enti non profit
in Italia, Padova, 1994, 224; BARALIS, Enti non profit: profili civilistici, in Riv. not., 1999, 1091.
19
BALDASSARRE, op. ult. cit., 3380 ss.; VITTADINI, op. ult. cit., 626.
12
- L’esperienza italiana
Nel nostro Paese i corpi intermedi hanno fin dall’epoca
medievale svolto un ruolo fondamentale nell’ambito assistenziale.
Tra l’XI e il XVII secolo predominano le organizzazioni con
finalità di beneficenza che cercano di alleviare le difficili condizioni di
larghi strati della popolazione che vivono nella miseria e
nell’indigenza
20
. La Chiesa, che può essere considerata una
organizzazione non profit ante litteram, svolge una funzione
determinante grazie a due fattori: la forte motivazione religiosa
fondata sui principi di carità e solidarietà, e la presenza capillare sul
territorio. E’ quasi inesistente, invece, l’iniziativa proveniente dal
basso che spinge gli individui a riunirsi per affrontare i disagi della
vita.
Nell’ ‘800 il clero amministrava gran parte dei servizi
assistenziali attraverso le Opere pie, enti morali il cui patrimonio
consisteva principalmente in lasciti e donazioni accumulate nel corso
20
ZANINELLI, Gli sviluppi storici, in Senza scopo di lucro. Dimensioni economiche, storia,
legislazione e politiche del settore non profit in Italia, a cura di Barbetta, Bologna, 1996, 117 ss.
13
dei secoli. Nel 1861 se ne contavano 18.000
21
e i servizi che
erogavano erano assai superiori a quelli erogati dalle istituzioni
pubbliche.
Alla fine del XIX secolo si afferma una concezione dell’attività
assistenziale come “funzione” dello Stato e si apre il conflitto tra lo
Stato Unitario e la Chiesa cattolica che conduce all’approvazione della
L. n. 6972 del 1890 nota come legge Crispi. Essa sottometteva al
controllo statale le Opere Pie, che fornivano servizi di tipo
assistenziale, sanitario ed educativo, trasformandole in Ipab,
Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, organismi di natura
giuridica pubblica.
E’ da rilevare, in questo periodo, anche una lenta ripresa delle
iniziative dirette a soddisfare i bisogni collettivi promosse dagli stessi
soggetti interessati: ricordiamo le aggregazioni di tipo mutualistico e
di tipo cooperativistico.
Nel periodo tra le due guerre, la concezione fascista dello Stato
non lascia spazio alle iniziative libere dei privati cittadini.
21
BARBETTA, cit., 37.
14
Lo Stato corporativo svolge una cospicua attività di assistenza e
beneficenza per mezzo di organi statali o parastatali
22
.
E’ soltanto grazie alla Carta costituzionale
23
che le formazioni
intermedie di carattere privato ricevono il riconoscimento del loro
ruolo di sviluppo della personalità umana all’interno della società
civile. Tuttavia, la costruzione di un sistema pubblico di intervento nei
settori dell’assistenza, della sanità e dell’istruzione non facilita, negli
anni successivi al secondo dopoguerra, l’emersione del terzo settore.
Il sistema ha cominciato a mutare quando ha avuto inizio il
processo di decentramento regionale ad opera del d.p.r. n. 616 del
1977
24
e quando nel 1988 la Corte dichiarò incostituzionale l’art.1
della legge Crispi che, di fatto, proibiva la prestazione di servizi
assistenziali da parte di soggetti privati.
22
E’ possibile ricordare, a titolo esemplificativo, l’Opera nazionale della Maternità e dell’Infanzia,
I figli della Lupa, l’Opera Balilla, l’Opera del Dopolavoro e l’Ente delle Opere Assistenziali.
ZANINELLI, op. ult., cit., 135 ss.
23
VITTORIA, Gli enti del primo libro del codice civile: l’attuale assetto e le prospettive di riforma,
in Le fondazioni in Italia e all’estero, a cura di Rescigno, Padova, 1989, 37.
24
Nel 1977, attuando un processo di riorganizzazione e decentramento nella gestione dei servizi
sanitari e sociali, lo Stato emanò una legge che, di fatto, sottometteva le Ipab al controllo delle
autorità locali. BARBETTA, cit., 40; BASILE, Enti non lucrativi, in Enc. del dir., aggiornamento-
III, Milano, 1999, 573.
15
Negli ultimi quindici anni il terzo settore è praticamente esploso
grazie anche alla cultura della sussidiarietà che fa del non profit un
protagonista della rinascita della società civile. Oggi, il terzo settore
vanta, in Italia, circa 200 mila organizzazioni non profit con circa 700
mila dipendenti e 5 milioni di volontari, inquadrate sotto forme
giuridiche svariate.