aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano
carattere di Istituti di insegnamento o di beneficenza, come pure negli uffici,
nei lavori pubblici, negli ospedali, ovunque è prestato un lavoro salariato o
stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere
le 8 ore al giorno o le 48 ore settimanali di lavoro effettivo”
1
. Ad una prima
lettura di questa disposizione è possibile rilevare le sue imprecisioni causate dal
fatto che in essa il legislatore non si è limitato a definire solamente la durata
massima normale della giornata lavorativa, ma al contrario, usando una formula
alquanto ambigua, ha determinato anche i limiti dell’orario settimanale
2
.
Dottrina e giurisprudenza, conseguentemente, si sono per lungo tempo
interrogate sulla questione relativa all’interpretazione della disgiuntiva “o”
posta tra il limite giornaliero e quello settimanale, dalla risoluzione della quale
dipende la definizione dell’orario “normale” legale quale soglia oltre la quale il
lavoro deve essere inteso straordinario e, in quanto tale, da retribuire con le
maggiorazioni relative. Parte della dottrina
3
, sostenendo una interpretazione
1
Secondo alcune letture il legislatore si è intenzionalmente discostato dal testo della Convenzione
Internazionale di Washington del 1919, riferendosi invece alla disgiuntiva “o” dell’427 del trattato di
Versailles, tramite una formulazione che autorizza la compensabilità di eventuali superamenti dell’orario
giornaliero, contenuti nel limite massimo di 48 ore e operando all’insegna di una maggiore flessibilità. Vedi in
proposito ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 280.
2
Cfr. ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 275.
3
A sostegno di tale tesi vedi D’EUFEMIA G., L’orario di lavoro e i riposi, in Trattato di diritto del lavoro,
diretto da BORSI U. e PERGOLESI F., vol. III, La disciplina organizzativa del lavoro, Padova, 1959, p. 207;
DE LUCA TAMAJO R., Il tempo di lavoro (Il rapporto individuale di lavoro), in Il tempo di lavoro, Atti delle
Giornate di studio dell’A.I.D.La.SS, (Genova 4-5 aprile 1986), Milano, 1987, p. 9 ss.; ICHINO P., Il tempo
della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Milano, 1985, p. 273; CESTER, Lavoro e tempo libero
nell’esperienza giuridica, in QDLRI, n. 17, 1995, p. 9 ss.; SALIMBENI, Estensione e collocazione temporale
letterale di questa disgiuntiva, ritiene che essa debba essere letta come un aut
(oppure), non negando, conseguentemente, la possibilità di orari giornalieri
superiori alle 8 ore, ma entro le 48 ore settimanali, senza considerare il lavoro
aggiuntivo come lavoro straordinario e perciò senza maggiorazioni retributive.
Questa è la tesi dell’alternatività tra limite giornaliero e settimanale, ossia
quella più flessibile, che potrebbe trovare una delle basi sulla constatazione che,
se i due limiti dovessero essere intesi come concorrenti, essendo gia in vigore
nel 1923 il principio del riposo settimanale
4
, quello delle 48 ore settimanali
diverrebbe inutile, non essendo possibile superare le 48 ore a settimana
lavorando solo 8 ore al giorno per 6 giorni
5
. Questo tipo di interpretazione,
inoltre, può trovare la ragione della sua esistenza da un punto di vista storico,
anche in base alla considerazione che in alcuni rapporti di lavoro di breve
durata, come ad esempio nei lavori a “giornata” in agricoltura ancora molto
diffusi nel 1923, non poteva essere applicato il limite di orario settimanale. Da
tutto ciò deriva che l’unica maniera per dare senso a questa doppia previsione
sia riferire l’osservanza del limite delle 8 ore al giorno o delle 48 ore
settimanali a seconda che il rapporto abbia rispettivamente durata inferiore o
maggiore ad una settimana. Ma tali argomentazioni non possono essere ritenute
del lavoro straordinario nell’ambito di una nuova concezione dell’orario di lavoro, in Dir. Lav., I, 1988, p.
495; SANDULLI P., Orario di lavoro.I) Rapporto di lavoro privato in Enc Giur. Treccani, vol. XXI, Roma,
1990, p. 6.
4
Legge n. 489 del 1907, art. 7.
5
Cfr. ICHINO P., Orario di lavoro, in Digesto Disc. Priv, Sez. Comm., Torino, 1994, p. 393; ICHINO P., Il
tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Giuffrè, Milano, 1985, p. 278; ICHINO P., L’orario di
lavoro e riposi, artt 2107 e 2109, in Com. Cod. civ. diretto da P: Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 21.
sufficienti. Si deve difatti considerare che se il legislatore avesse voluto
stabilire la concorrenza tra i due limiti avrebbe usato la congiunzione “e”, come
d’altra parte ha fatto nell’art. 5. L’uso della “o” non può quindi ritenersi una
svista, poiché compare anche nel 1° co. dell’art. 4 nonché nelle norme
regolamentari (R.D. 10 settembre 1923 n. 1955, art. 8; n. 1956, art. 5)
6
. Da
quest’indirizzo deriva un concetto di giornata normale di lavoro “flessibile”,
che impone il rispetto di una durata massima media nell’arco di una settimana.
Quest’interpretazione, inoltre, è anche confermata dalla contrattazione
collettiva che, nel regolare la materia dell’orario di lavoro, si ispira alla tesi
dell’alternatività dei limiti legali
7
.
Un’altra parte della dottrina
8
ha sostenuto invece che la “o” deve essere letta
come un vel ( e )
e che i due limiti dovrebbero essere considerati in modo
congiunto, evidenziando inoltre la necessità di adeguare l’interpretazione
dell’art. 1 al successivo dettato costituzionale (art. 36, co. 2). La riserva di
legge in tema di fissazione della durata massima della giornata lavorativa,
contenuta nella norma costituzionale, avrebbe, infatti, carattere assoluto e non
6
Cfr. DE LUCA TAMAJO R., Il tempo nel rapporto di lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., 1986, n. 31, p. 447;
nello stesso senso ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985,
p. 279.
7
Cfr. MAGNANI M., Riduzione o flessibilizzazione dell’orario di lavoro, in Lav. Giur., 1997, p. 12; cfr.
pure ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 281.
8
Sono invece sostenitori della tesi della concorrenza PERA G., Diritto del lavoro, Padova, Cedam, 1996,
pp. 460-461; CASSI V., La durata della prestazione di lavoro, vol. II, Milano, 1956, pp. 34-35; CORRADO
R., Trattato di diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, pp. 135-136; BALLESTRERO M.V., Orario di lavoro,
in EncG. Dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, p. 623; CARABELLI U., LECCESE V., Orario di lavoro:
limiti legali e poteri della contrattazione collettiva, in QDLRI, 1995, n. 17, p. 35; SCARPONI S., Riduzione e
gestione flessibile del tempo di lavoro, Milano, 1998, p. 95 ss.
consentirebbe, quindi, la possibilità di adottare discipline di origine contrattuale
che stabiliscano il superamento del limite legale delle 8 ore giornaliere o di
quello globale di 10 ore al giorno, ossia di quello comprensivo del lavoro
straordinario
9
. Questa tipo di lettura, secondo i suoi sostenitori, è confermata
anche dal dettato dell’art. 5 dello stesso Decreto n. 692, che definendo lo
straordinario come “l’aggiunta alla giornata normale di lavoro di cui all’art. 1”
di un determinato periodo di tempo, presuppone, di conseguenza, una durata
fissa e non variabile della giornata lavorativa
10
. Integrando, quindi, il disposto
dell’art. 1 con quello dell’art. 5, si giungerebbe ad escludere che la giornata
lavorativa possa eccedere le 8 ore al giorno alle quali potrebbero essere
aggiunte al massimo 2 ore di lavoro straordinario.
È da notare, inoltre, che anche sul fronte giurisprudenziale non si è riusciti a
tracciare una via certa ed univoca infatti, sia la Suprema Corte che i giudici di
merito
11
, per lungo tempo, hanno oscillato tra le due diverse sponde
interpretative.
9
CARABELLI U., LECCESE V,, Orario di lavoro: limiti legali e poteri della contrattazione collettiva, in
QDLRI, 1995, n.17, p. 35; SCARPONI S., Riduzione e gestione flessibile del tempo di lavoro, Milano, Giuffrè,
1998, p. 95; questa opinione non è invece condivisa da DE LUCA TAMAJO R., Il tempo nel rapporto di
lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., 1986, n. 31, p. 447, ad avviso del quale “la genericità del dettato costituzionale
non impone vincoli aprioristici e non preclude quindi al legislatore ordinario di operare all’insegna della
flessibilità mediante la previsione di una durata massima media nell’ambito della settimana”.
10
ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 276-
277.
11
A sostegno della tesi della concorrenza si sono espressi: Trib. Firenze 24 giugno 1989, in Riv. It. Dir.
Lav., 1990, II, p. 168 con nota critica di TIRABOSCHI, Brevi riflessioni in tema di durata massima della
giornata di lavoro; Pret. Roma 27 aprile 1993, in Giur. Lav. Lazio, 1994, p. 419 con nota critica di GALGANI
All’inizio degli anni ’80, la Cassazione, infatti, sebbene avesse già
appoggiato la tesi della concorrenza
12
, sosteneva ancora che la particella “o”,
risultante dal disposto dell’art. 1 R.D.L. n. 692 del 23’, potesse assumere solo
un significato disgiuntivo e che, pertanto, i limiti delle 8 ore giornaliere e delle
48 ore settimanali fossero tra loro alternativi
13
.
Tale panorama interpretativo è, però, mutato nel corso degli anni 90’. La
Cassazione, infatti, riallacciandosi ad una isolata decisione del 1983, ha
sostenuto la tesi della concorrenza, ritenendo che “ai fini del diritto alla
corresponsione della maggiorazione retributiva per la prestazione di lavoro
straordinario, la disposizione dell’art. 1 del r.d.l. n. 692 del ‘23, vada
interpretata nel senso che il limite dell’orario giornaliero normale ivi indicato
deve essere autonomamente considerato rispetto a quello settimanale, in
considerazione della finalità della normativa e del carattere più usurante e in
ogni caso comportante un maggiore costo personale del lavoro eccedente la
prevista durata massima della giornata lavorativa
14
.
In conclusione, anche se ultimamente la Suprema Corte ha mutato
orientamento, la tesi dell’alternatività sembra prevalere su quella contraria,
B. In senso contrario invece Pret. Catania 21 novembre 1985, in Dir. Prat. Lav., 1986, p. 1227; Trib. Cremona
28 aprile 1985, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, p. 860.
12
Cass. 20 aprile 1983, n. 2729, in Mass. di Giur. Lav., 1984, p. 35 con nota critica di MEUCCI, Sui limiti
legislativi alla durata della prestazione di lavoro; Cass. civ. sez. lav. 29 gennaio 1985, n. 520, in Mass. di Giur.
Lav., 1985, p. 68; Cass. 15 novembre 1985, n. 5616, in Rep. Foro It., 1985, c. 1687, n. 1132; Cass. sez. civ. 2
agosto 1996, n. 6995, in Dir. Prat. Lav., 1997, p. 28.
13
Cass. 17 maggio 1958, n. 1632, in Riv. Giur. Lav., 1958, 379; Cass. 22 ottobre 1971, n. 2973, in Foro It.,
1971, I, 1709; Cass. sez. pen. 2 giugno 1984, n. 5179, in Mass. di Giur. Lav., 1984, 520.
14
Cass. civ., sez. lav., 2 agosto 1996, n. 6995, in Dir. Prat. Lav., 1997, p. 28.
proprio perché essa è funzionale per l’adozione di regimi di orario flessibili
che, secondo recenti studi, avrebbero il merito di favorire l’occupazione. La
flessibilità della durata normale giornaliera della prestazione, inoltre, non deve
essere considerata come contraria agli interessi dei lavoratori, ma anzi può
rispondere alle loro esigenze personali o familiari quando vengono contratte
forme di organizzazione del lavoro che consentano di aumentare o diminuire la
prestazione giornaliera, con variazioni compensative in altri giorni della
settimana (es. flexi-time). La flessibilità però non può essere illimitata, devono
infatti essere rispettati il principi costituzionali della limitazione della giornata
lavorativa e quello della tutela della salute dell’individuo che sono la fonte del
diritto ad un congruo riposo quotidiano, diritto che deve essere tassativamente
garantito al lavoratore qualunque sia la distribuzione dell’orario di lavoro
settimanale
15
.
In fine ritornando sul disposto dell’art. 1 del r.d.l. n. 692, possiamo notare
come esso parli di “durata massima normale della giornata di lavoro”, dove
l’uso dell’aggettivo massima lascia intuire come il legislatore avesse voluto
stabilire un limite all’orario di lavoro giornaliero normalmente praticabile nelle
aziende.
Il legislatore, avendo stabilito infatti che la durata massima della giornata di
lavoro non potesse superare le 8 ore al giorno, da un lato presupponeva,
15
Si potrebbe in proposito sollevare una questione di illegittimità costituzionale circa la mancanza nella
legge di una limitazione all’elasticità della durata massima e della fissazione di intervallo minimo tra due
prestazioni giornaliere, commisurato alla loro astensione.
secondo una parte della dottrina, la coincidenza tra durata normale della
giornata lavorativa e il limite giornaliero di 8 ore, dall’altro lato apriva invece
la via ad una riduzione dell’orario giornaliero sul piano negoziale, eliminando
al contrario il potere dell’autonomia delle parti di elevarlo oltre il limite
massimo
16
. Dalle parti, perciò, poteva essere stabilita una durata normale della
giornata lavorativa diversa e ridotta rispetto a quella massima legale di 8 ore.
Tale indirizzo è stato successivamente confermato anche dall’art. 2107 c.c. che,
parlando dei limiti in modo generico senza alcun riferimento al limite massimo
della durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro, doveva essere
letto come volto a rendere possibile una fissazione dell’orario normale di lavoro
anche da parte della contrattazione collettiva
17
.
16
Da ultimo, in tal senso CARABELLI U., LECCESE V., L’orario di lavoro: limiti legali e poteri della
contrattazione collettiva, in QDLRI, 1995, n. 17, p. 33.
17
ICHINO P., L’orario di lavoro e riposi, in commento agli artt 2107 e 2109 del codice civile diretto da P:
Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 118.
2 L’ambito di applicazione
Per quanto riguarda il campo di applicazione della disciplina limitativa
dell’orario, si deve notare il fatto che il legislatore del ’23 abbia voluto disporre
espressamente l’esclusione da tale normativa dei rapporti di lavoro non
subordinato in agricoltura. Tale comportamento potrebbe farci pensare che
l’ambito applicativo del decreto potesse essere esteso in settori diversi da quello
agricolo, anche al di fuori dell’area del lavoro subordinato.
Interpretando infatti la disgiuntiva come una alternativa tra requisito della
dipendenza e quello della soggezione al controllo, si potrebbe dedurre che
intenzione del legislatore sia stata quella di estendere il campo di applicazione
anche ai rapporti di lavoro autonomo, ma sotto il controllo diretto del
committente
18
. Tuttavia tale interpretazione non può ritenersi corretta, poiché la
volontà del legislatore di applicare la disciplina solo al lavoro subordinato
discende in modo inequivocabile da diverse espressioni del testo legislativo.
Ciò è confermato dal fatto che nel 1° co. dell’art. 1 il termine “lavoro” è
accompagnato dagli attributi salariato o stipendiato che certamente non sono
riferibili al lavoro autonomo. Il requisito della dipendenza quindi non può
considerarsi come alternativo rispetto a quello della soggezione al controllo, ma
devono intendersi come coincidenti o concorrenti, interpretando la disgiuntiva
18
ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 302.
“o” come una congiuntiva “e”
19
. Il r.d.l. del 1923 non può essere
conseguentemente applicato al lavoro autonomo né direttamente né in modo
analogico. Non c’è nessun dubbio al riguardo quando il lavoro autonomo trova
le sue basi in un contratto d’opera in senso stretto, nel quale l’oggetto ha la
veste di un opus indivisibile nel tempo, e nel quale perciò l’estensione
temporale della prestazione non arriva ad assumere alcun rilievo. Delle
perplessità invece potrebbero sorgere in merito a quei contratti d’opera nei
quali la prestazione lavorativa ha un carattere continuativo, ma anche in questi
casi, differentemente da quanto avviene nei rapporti di lavoro subordinato, si
deve ritenere che non sia riscontrabile l’esigenza di protezione del lavoratore
quale parte debole nei confronti del committente. Per tale motivo la dottrina
20
ritiene che anche le norme costituzionali in materia di durata giornaliera,
settimanale, annuale di lavoro, siano da riferirsi solo al lavoro subordinato
21
.
Quanto sopra esposto, però, non comporta necessariamente l’estensione della
disciplina limitativa dell’orario di lavoro alla totalità dei lavoratori subordinati,
disciplina che, difatti, non può essere attuata in quei rapporti di lavoro nei quali
19
ICHINO P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, vol II, Milano, Giuffrè, 1985, p. 303;
D’EUFEMIA G. L’orario di lavoro e i riposi, in Trattato di diritto del lavoro, vol. III, La disciplina
organizzativa del lavoro, Padova, 1959, p. 211
20
Cfr. TREU T., Commento all’art. 36, in Comm. Cost., Tomo I, artt. 36-40 Bologna-Roma, 1979, p. 118
nel quale asserisce che dei diritti previsti dall’art.36 Cost. siano titolari i soli lavoratori subordinati.
21
A questo punto deve, però, essere precisato che spesso, soprattutto in quei rapporti che si situano in zone
di confine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, ossia nei rapporti di collaborazione autonoma e
continuativa (lavoro parasubordinato), il lavoratore è più debole rispetto al creditore.
l’obbligazione sia caratterizzata dalla fungibilità tra estensione temporale e
intensità della prestazione, con ampia discrezionalità del lavoratore.
L’applicazione del limite massimo dell’art. 1 della legge e dell’art. 5, per le
maggiorazioni previste per le prestazioni eccedenti il limite massimo, è
configurabile solo nel momento in cui esista un “vincolo d’orario”
all’estensione o alla collocazione della prestazione, ossia nel caso in cui
l’estensione sia l’unico metro quantitativo della prestazione stessa. Tali
argomentazioni inoltre devono poi essere ritenute valide anche per il rapporto
che intercorre tra socio e cooperativa di lavoro, tra socio d’opera e società, e
nell’impresa familiare.
Si può poi notare nel primo articolo del r.d.l. del 1923 che, anche se la
limitazione della durata del lavoro sembri riferibile alla giornata complessiva
del lavoratore, in realtà è da ritenere che l’estensione temporale abbia per
oggetto la prestazione giornaliera e settimanale nell’ambito di ciascun rapporto
di lavoro. Tutto ciò, può essere dedotto dalla disciplina del lavoro subordinato
nell’art. 5 e dall’apparato sanzionatorio degli artt. 8 e 9 dello stesso decreto del
1923 che possono applicarsi solo al singolo rapporto, e dall’art. 2107 cc. che si
riferisce alla singola prestazione lavorativa.
È quindi pacifica e non controversa l’applicabilità del limite massimo di
orario solo al singolo rapporto di lavoro.
La circostanza che la durata massima della giornata e della settimana
lavorativa sia riferita al singolo rapporto e non al singolo lavoratore, anche se è
trascurabile quando la generalità dei lavoratori è impegnata in rapporti a tempo
pieno e l'orario normale è di 48 ore settimanali, può comportare delle
problematiche quando l’orario normale previsto dai contratti collettivi scenda
sotto le 40 ore settimanali, o aumentino i rapporti a tempo parziale. In questi
casi, infatti, si lascia largo spazio alle doppie attività. Il fenomeno del doppio
lavoro difatti può vanificare totalmente la disciplina limitativa dell’orario senza
violarla. Il contenimento del doppio lavoro, che il limite di durata massima non
può assicurare direttamente, può però essere realizzato indirettamente cercando
di eliminare la necessità del lavoratore di prolungare la giornata lavorativa oltre
il limite normale, attraverso un’adeguata tutela del reddito.
3 La nozione di lavoro effettivo
La durata massima della giornata e della settimana lavorativa si computa, ai
sensi dell’art. 1 del R.D.L. n. 692 del 1923, esclusivamente in base alle ore di
“lavoro effettivo”, ossia in base alla prestazione in senso stretto, che include i
periodi di mera attesa in cui non è richiesta un’attività assorbente, ma
comunque la sua costante disponibilità
22
.
Questo concetto viene specificato in modo più puntuale sia dall’art. 5 del r.d.
n. 1955 del 1923 (regolamento di attuazione del r.d.l. n. 692 del 1923), che
dall’art. 3 r.d.l. n. 692 del ’23. L’espressione “lavoro effettivo” si trova,
22
ICHINO P., L’orario di lavoro e i riposi, in commento agli artt. 2107 e 2109 del codice civile, diretto da
Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1987, p. 26.
pertanto, sia nell’art. 1 sia nell’art. 3 del r.d.l. n. 692 del 1923, circostanza che
ha acceso un animoso dibattito relativo al significato da attribuire a questa
locuzione nelle due diverse norme.
Alcuni hanno ritenuto che nell’art. 1 il lavoro effettivo sia l’attività
effettivamente e concretamente prestata, mentre nell’art. 3 le stesse parole si
riferirebbero a ogni lavoro che richiede un’applicazione assidua e
continuativa
23
.
Altra parte della dottrina ritiene, invece, che l’espressione “lavoro effettivo”
assuma lo stesso significato in entrambi gli articoli e che la definizione di cui
all’art. 3 serva solo a specificare meglio il significato dell’art. 1
24
.
Tuttavia queste due contrapposte posizioni non sembrano così distanti dal
momento che la locuzione può essere intesa nello stesso senso nei due articoli,
sebbene assolva a funzioni diverse: mentre l’art. 1 individua il lavoro a cui si
applica la disciplina limitativa dell’orario, all’art. 3 la nozione è usata in senso
negativo, per definire il lavoro discontinuo e i lavori di attesa e custodia, non
soggetti a limiti legali
25
.
23
Per quanto riguarda i sostenitori di questa tesi vedi CASSI V., La durata della prestazione di lavoro, vol.
I, Milano, 1959, pp. 44-45; CORRADO R., Trattato di diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969, p. 137.
24
Sono invece sostenitori di questa interpretazione BARASSI L., Il diritto del lavoro, vol. III, Torino, 1969,
pp. 377-378; RIVA SANSEVERINO L., Disciplina delle attività professionali. Impresa in generale, in
Commentario del cod. civ. a cura di SCIALOJA A. e BRANCA G., V, Roma, Zanichelli, 1977, p. 407;
BALLESTRERO M.V., Orario di lavoro, in EncG. Dir., vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 624-626; PERA
G., “Diritto del lavoro”, Padova, 1988, pp. 608-609.
25
Cfr. MARTONE M., Sulla nozione di “lavoro effettivo”, in Arg. Dir. Lav., 1998, n. 2, p. 466.
Ai sensi di queste norme devono essere esclusi da tale concetto i lavori
discontinui di semplice attesa e custodia. In base a tali norme ne rimangano al
di fuori anche i riposi intermedi fruiti dai lavoratori sia all’interno che
all’esterno dell’azienda, a condizione che siano prestabiliti ad ore fisse e
indicati nell’orario di lavoro
26
. Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione
27
la quale ha ritenuto che i riposi intermedi vadano esclusi dalla nozione di lavoro
effettivo, non solo se non vi è prestazione di attività ma anche quando essi
comportino per il di pendente la facoltà di disporre a propria discrezione del
tempo libero ancorché con l’obbligo di restare nell’ambito del posto di lavoro.
L’art. 5 del decreto 1955 del 23’ dispone che neanche il tempo impiegato per
recarsi al posto di lavoro
28
rientri nel concetto di lavoro effettivo. In
quest’ultimo caso, infatti, il tempo utilizzato per raggiungere il luogo di lavoro,
anche se speso durante una trasferta ed indipendentemente dal tipo di trasporto
utilizzato dal lavoratore, rimane estraneo all’attività lavorativa e pertanto non
può essere computato nel normale orario di lavoro del quale potrebbe costituire
un prolungamento. Tale spazio temporale, conseguentemente, non può essere
26
Su tale punto è intervenuto anche il legislatore comunitario che all’art. 3 della direttiva 104 del ’93 ha
stabilito che il lavoratore, qualora l’orario giornaliero superi le 6 ore, ha diritto ad una pausa, le cui modalità, la
cui durata e condizioni di concessione sono fissate da contratti collettivi o accordi tra le parti sociali, o, in loro
assenza, dalla legislazione nazionale.
27
Cfr. Cass. 19 febbraio 1985, n. 1462, in Or. Giur. Lav., p. 819; Cass. 2 aprile 1986, n. 2268, in Rep. Foro.
it, 1986, c. 1172, n. 1132.
28
Lo stesso art. 5 del decreto n. 1955 del ’23 ha, peraltro, previsto che, nelle miniere e nelle cave, in ragione
delle particolari difficoltà necessarie a raggiungere il posto di lavoro, la durata della prestazione venga computa
all’entrata e all’uscita dal pozzo.
né qualificato né retribuito come lavoro straordinario
29
. Questa regola però
viene meno nel caso in cui il tempo del viaggio sia inscindibilmente
connaturato alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e sia
quindi imposto dal tipo di lavoro effettuato. A conferma di tale orientamento è
infatti intervenuta recentemente anche la Suprema Corte
30
che a sua volta, con
una serie di sentenze, ha sostenuto che il tempo impiegato per raggiungere il
luogo di svolgimento della prestazione lavorativa resta estraneo all’attività
lavorativa vera e propria e che quindi non si somma al normale orario di lavoro,
ad eccezione però del caso in cui il tempo del viaggio risulti essere funzionale
alla prestazione lavorativa, circostanza nella quale tale tempo non solo rientra a
tutti gli effetti nell’attività lavorativa ma deve anche essere sommato al normale
orario di lavoro come straordinario.
Sono altresì escluse dall’orario di lavoro effettivo le operazioni di marcatura
del cartellino segnatempo
31
nonché quelle necessarie per indossare o dismettere
gli indumenti di lavoro. Quest’ultimo tema però, è risultato nel tempo assai
29
Cfr. Cass. 21 novembre 1985, n. 5745, in Mass. Giur. Lav., 1986, p. 61, secondo la quale va escluso che
spetti, in tal caso, il compenso per lavoro straordinario trattandosi di un disagio extralavorativo risarcibile a
diverso titolo; contra Pret. Milano 12 giugno 1992, in Dir. Prat. Lav., n. 35, 1992, 2409, secondo il quale lo
spostamento da una località all’altra rappresenta una normale modalità di espletamento della prestazione
lavorativa e ove prolunghi l’orario lavorativo ordinario, dà titolo al compenso per lavoro straordinario.
30
Cass. sez. lav. 9 dicembre 1999, n. 13804, in Rass. Giur. Civ. annotata, 2000, n. 4, p. 410 nella quale la
Corte, stabilendo che il tempo del viaggio rientri nell’attività lavorativa solo nel caso nel quale esso sia
funzionale rispetto alla prestazione, ha voluto precisare che tale carattere sussiste solo quando il dipendente,
obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta inviato in diverse località per svolgervi
la sua prestazione lavorativa; nello stesso senso cfr. Cass.1° settembre 1997, n. 8275, in Not. Giur. Lav., 1997,
753; Cass. 7 giugno 1996, n. 5323, in Not. Giur Lav., 1996, 543; per quanto riguarda la giurisprudenza di
merito v. Trib. Milano 8 settembre 1993, in Or. Giur. Lav., 1993, 697.
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Cass., 25 maggio 1983, n. 3629, in MGL, 1984, 45, e GC, 1984, I, 1601.