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Ci viene insegnato che la maggioranza ha il diritto di reclamare per sé la giustezza delle
proprie opinioni. E l’opinione pubblica è l’esternazione pratica di questo diritto: un vero e
proprio mito ammantato di sacralità.
Un mito che è quindi finzione per propria definizione ma che, comunque, per la sua
caratteristica di essere preso molto sul serio da tutti, dispiega i suoi effetti come se esistesse.
Come dice Mazzoleni,
l’opinione pubblica non esiste nella realtà, cioè non ha le caratteristiche di un
gruppo organizzato, come sono per esempio i partiti o i gruppi di pressione, la cui
azione ha effetti verificabili nel campo politico, ma è una sorta di “entità virtuale”
che […] essendo ritenuta reale è reale nella sue conseguenze.
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E i suoi effetti sono appunto reali, concreti, tangibili e di grande rilevanza sociale: per essa una
legge può nascere o morire in pochissimo tempo, per essa una folla inferocita può convincersi
che la violenza è l’unico rimedio contro una minaccia magari inesistente. Da qui la sua
incontestabile importanza da molti punti di vista: economico, politico, culturale, ma
soprattutto, sociologico.
Torniamo ora per un attimo sulla reverenza di cui l’opinione pubblica è fatta oggetto, su come
anche questa convinzione sull’importanza dell’opinione pubblica sia essa stessa un’opinione,
frutto di una conformazione a un sentire generalizzato, a uno stereotipo, a un credo. La
“gente” dice questo, e noi non possiamo prescindere da quello che viene detto ogni giorno nel
nostro ambiente. Sia che ci si conformi, sia che ci si opponga, sia che venga accolto od
osteggiato, il parere “della gente” non può mai essere ignorato.
In ultima analisi è la stessa opinione pubblica che ingenera nelle persone la convinzione che
essa sia fondamentale alla vita pubblica. A questo punto pare di dover riconoscere al mito un
istinto di sopravvivenza oltre che di squisita autocelebrazione.
L’importanza oggettiva degli effetti dell’opinione pubblica, così ragionando, non esisterebbe.
Una finzione non può produrre nulla di tangibile. Sono gli uomini a produrre le cose, a
cambiare le leggi, ad assaltare i palazzi. E ogni singolo gesto individuale avrà la sua singola
causa individuale. Il soggetto non è l’entità collettiva opinione pubblica, ma l’individuo con la
sua opinione, la sua personalità, la sua motivazione e la sua eventuale psicosi. Persone quindi,
non un mito collettivo dalla difficile definizione.
Se si volesse procedere in questo modo a ritroso con la forza iconoclasta della pura critica
razionale, si giungerebbe presto alla negazione totale dell’opinione pubblica, sia come
fenomeno sociale, sia come mito, sia come qualsiasi cosa che fosse degna di attenzione. E per
quanto potesse essere corretto come procedimento formale, tale metodo non darebbe nessun
progresso alla comprensione di un fenomeno di cui anzi, a quanto pare, andrebbe negata
l’esistenza.
Procedendo in questo modo non si può giungere a qualcosa di utile. Palleggiando tra tesi e
antitesi, tra botta e risposta dal sapore vagamente metafisico, si entrerebbe in una spirale di
relativismo annichilente. E difficilmente si riuscirebbe a definire un discorso né filosofico e né
tantomeno sociologico di una qualche utilità. Forse a un osservatore disincantato il tutto
potrebbe al massimo apparire come una desolante, sterile e puerile discussione.
Come puntualizza icastico Mazzoleni
Possiamo anche dire che a porsi il problema della “personalità politica” dell’opinione
pubblica sono soprattutto studiosi, mentre non nutrono dubbio alcuno i professionisti
della politica, che infatti legano le proprie fortune e le proprie disgrazie al
“termometro” dell’opinione pubblica
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E allora ritorniamo al nostro banalissimo quesito d’esordio: perché diamo per scontata
l’importanza dell’opinione pubblica?
Perché è così che la percepiamo.
Certo anche noi, come studiosi, non possiamo prescindere dalla nostra condizione di uomini
immersi nella società e quindi esposti alle influenze dello stesso fenomeno che si pretende
analizzare. Ma come tutti percepiamo un’opinione pubblica, la sentiamo in noi, ne vediamo gli
effetti. Ergo essa esiste, ed è un fenomeno della massima importanza.
7
Al di là, comunque, delle diatribe teoriche sui concetti, la “realtà” dell’opinione
pubblica è pacificamente accettata dalla scienza politica e dalla massmediologia
come una variabile cruciale della politica moderna
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Siamo disposti a correre il rischio di prendere un abbaglio, pur di cominciare costruttivamente
uno studio su un aspetto della realtà che ci circonda; un aspetto che siamo fermamente
convinti essere della massima importanza, non ci stancheremo mai di ripeterlo. Una volta
chiara l’approssimazione che abbracciamo consapevolmente, non c’è sillogismo che possa
smuoverci da queste premesse.
Perché all’origine di ogni trattazione deve esserci una presa di posizione determinata anche se
ipotetica, un fulcro su cui posare la propria leva, un’intuizione che avvia e focalizza le varie
osservazioni e sprona le deduzioni. Solo dopo l’intuizione, affascinante prerogativa dell’uomo
tra la creatività e l’osservazione, vero e unico talento di cogliere un significato nella forma del
tutto che trascende la somma dei singoli contributi - come ben compreso da studiosi del calibro
di Comte, Durkheim ed Einstein
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- si può procedere alla scelta del metodo, sperimentale o
meno che sia, per giungere poi alla dimostrazione che l’intuizione iniziale era vera, o falsa.
E quindi ecco il nostro fulcro.
Il fenomeno dell’opinione pubblica esiste ed è di fondamentale importanza.
Banale, è vero, ma da adesso in poi certo.
1.1 Una serie di definizioni
Convenuto infine che, se anche si di finzione si tratta, l’opinione pubblica è degna dello studio
che accingiamo a fare, bisogna cominciare con il definire questo nostro oggetto di studio.
Se proprio volessimo ridurre la definizione ad aspetti concreti, dovremmo forse riconoscere che
la natura dell’opinione pubblica, a differenza di altri eminenti fenomeni sociali come la
sovranità, la morale, la religione, non ci agevola il compito. I predetti fenomeni infatti, anche
se restii a prestarsi a riduzionismi formali, hanno una loro forma, seppur di facciata, nella
produzione culturale concreta. La sovranità è contemplata nelle costituzioni, diritto originario di
una nazione, e anche se nella dottrina si fa largamente strada la dicotomia tra costituzione
formale e costituzione vivente per evidenziare l’uso fattuale delle norme, quelle semplici parole
scritte sono pur sempre un punto da cui cominciare. Lo stesso dicasi per la famiglia, istituzione
praticamente eterna nella storia dell’uomo, ma pur sempre, per puro spirito di precisione,
oggetto di regolamentazioni giuridiche. Infine, non c’è religione che non abbia la propria
liturgia, il proprio libro sacro se non un codice di diritto suo proprio, come nel caso della
religione cattolica. La particolarità di queste fonti, che le distingue per intenderci da quelle di
rilevanza prettamente accademica riservate ai soli specialisti, è che non solo aiutano a
comprenderne la natura - chi metterebbe in dubbio le origini storico-sociali dell’istituto della
famiglia anche se formalizzate in legge dello Stato? - ma contribuiscono a definirla nella
propria forma. La sovranità era un concetto anche prima della stesura della costituzione,
eppure dopo di essa diviene, o in via principale tende a divenire, proprio quello che la
costituzione prescrive. Una fonte quindi che definisce per descrivere e nello stesso tempo
definisce per costringere.
E l’opinione pubblica?
Il diritto delle democrazie occidentali parla solo di singole opinioni e ci dice che esse sono libera
prerogativa di ogni singolo uomo: già la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789 definiva l’opinione individuale come “uno dei diritti più preziosi dell’uomo”.
Ma la singola opinione non è l’opinione pubblica. Il mio parere privato, anche se reso
orgogliosamente pubblico, non è l’idem sentire di tutta la società, anche se gli è strettamente
legato.
Ci sono mille e mille fonti per dedurne l’esistenza, si potrà dire. Tonnellate di carta stampata,
chilometri di nastro magnetico, gigabyte su gigabyte di documenti elettronici in cui sono
impresse le immagini e le informazioni che hanno, direttamente o meno, instillato nel pubblico
lettore o spettatore emozioni e sensazioni. Ma se nel caso della costituzione sembrava quasi
sciocco avanzare una completezza sociologica solo visionando la carta formale, a fronte di
interpretazioni e usi impropri nella realtà, sembra addirittura ridicolo farlo nel nostro.
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Cercare di definire il fenomeno dell’opinione pubblica nella sua completezza solo visionando ore
di telegiornale, come un normale spettatore, non porterebbe a formarci un’idea di quello che è
l’opinione pubblica come fenomeno, ma solo a formarci la nostra personale opinione, o magari,
se siamo particolarmente attenti alle tendenze sociali del momento, a darci un’idea
approssimativa dell’opinione pubblica di quel preciso momento storico. Utile forse in
un’inchiesta giornalistica, non in una trattazione sociologica.
Potrebbe venirci in aiuto il linguaggio corrente – quella che Durkheim chiama la definizione
volgare - in cui l’espressione “opinione pubblica” appare in perenne crescita di utilizzo,
venendo declinata dai media come processo di presa della maggioranza, o più semplicemente
come sinonimo di pubblico di massa. Ma per quanta cogenza possa esprimere una convinzione
diffusa, e ne abbiamo parlato, non gode dell’autorevolezza che riteniamo necessaria.
Ci sono per fortuna anche altre fonti per la nostra definizione nella forma di molti studi
sociologici che questo nostro lavoro, per la sua natura compilativa, non può e non deve
ignorare.
Mazzoleni, lungi dal voler cimentarsi in un compito così arduo come quello di dare una
connotazione concettuale all’opinione pubblica, ci descrive con efficacia la portata dilemmatica
tra realismo e nominalismo della questione, sottolineando al riguardo
la natura sfuggente del concetto e del fenomeno dell’opinione pubblica, su cui
hanno dibattuto e ancora dibattono schiere di teorici e di ricercatori, divisi in due
campi contrapposti: da una parte coloro che sostengono che l’opinione pubblica è
un costrutto mentale o tutt’al più uno strumento euristico, e dall’altra coloro che
invece vedono e valorizzano l’importanza delle dinamiche dell’opinione nella società
e nella politica.
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Inutile dire che, se vogliamo proseguire con il nostro studio, dobbiamo obbligatoriamente
annoverarci, forse immeritatamente, nella seconda categoria.
Anche Rush, d’altronde, chiosa abilmente sull’argomento evitando compromettenti prese di
posizione e, premesso che
sarebbe troppo facile affermare che l’opinione pubblica è semplicemente la somma
delle opinioni dei singoli.
si lascia andare a un veloce riferimento a
una tendenza a considerare l’opinione pubblica come un’entità unica, quasi fosse un
singolo essere umano.
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Per avere una definizione rigorosa nell’accezione pura del termine, bisogna rivolgersi però alla
scienza politica e a Matteucci che, nella voce “Opinione Pubblica” del Dizionario di politica, la
definisce così:
L'Opinione pubblica è tale in un duplice senso: sia nel momento della sua
formazione, perché non è privata e nasce da un pubblico dibattito, sia nel suo
oggetto, che è la cosa pubblica. In quanto “opinione” è sempre opinabile, cambia
nel tempo e da essa si può dissentire: essa, infatti, esprime più giudizi di valore che
giudizi di fatto, che appartengono alla scienza e agli esperti. In quanto “pubblica”,
cioè appartenente all'ambito o all'universale politico, bisognerebbe parlare di
opinioni al plurale, perché nell'universale politico non c'è spazio per una sola verità
politica, per una epistemocrazia. L'Opinione pubblica non coincide con la verità,
proprio perché è opinione, doxa e non episteme, ma, in quanto si forma e si
afferma nel dibattito, essa esprime un atteggiamento razionale, critico e bene
informato.
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Se nella prima parte della definizione viene stabilito l’ambito della materia cui attiene l’opinione
pubblica e vi si può ritrovare il suo carattere mutevole e vivente - in quanto tale però solo a
condizione che si formi in un dibattito sottinteso razionale, svolto in uno spazio pubblico e
quindi all’attenzione di chiunque interessato e bene informato vi voglia partecipare - nella
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seconda parte vediamo come Matteucci contraddica palesemente Rush quando presenta il
fenomeno come un insieme di singole, piccole opinioni pubbliche.
Nulla di più lontano da quanto sostenuto da Lippmann:
Le immagini di se stessi, di altri, delle loro esigenze, dei loro intenti e dei loro
rapporti, sono le loro opinioni pubbliche [degli esseri umani]. Le immagini in base a
cui agiscono gruppi di persone, o individui che agiscono in nome di gruppi,
costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole.
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Ecco finalmente una definizione che coglie il carattere collettivo del fenomeno dandogli una
forma monolitica, ma non nel senso della paventata “epistemocrazia” di Matteucci in cui esiste
una sola opinione pubblica con un solo contenuto esatto e vero, ma come fenomeno, questo sì
unico, capace di giustificare la coerenza delle azioni di gruppo, indipendentemente dal giudizio
sulla sua verità o falsità. Non un semplice contenitore quindi, pieno di opinioni confutabili e di
immagini più o meno distorte della realtà, ma un oggetto culturale nuovo, derivante ma a suo
modo autonomo dall’insieme delle singole opinioni pubbliche - quelle con le iniziali minuscole -
e dotato, in virtù di questa sua indipendenza, di ascendente e autorevolezza sulle persone.
Anche Sartori sembra, riprendendo quasi fedelmente la definizione di Matteucci, confondersi su
questo punto che noi, con Lippmann, consideriamo fondamentale. Quando infatti dice che
una opinione viene detta pubblica non solo perché è del pubblico (diffusa tra i molti,
o tra i più), ma anche perché investe oggetti o materie che sono di natura pubblica:
l‘interesse generale, il bene comune, e, in sostanza, la res publica.
9
sembra non volersi affatto riferire all’opinione pubblica come a un fenomeno sociale, ma
soltanto come a una specie del genere opinione individuale, determinata per origine e materia,
e che gode di una certa diffusione. Nulla di più riduttivo, secondo noi. Proseguendo poi sulla
stessa linea, ma nel tentativo di ridurre il numero virtualmente infinito di opinioni pubbliche da
dover contemplare in base alla precedente definizione, dice che nel suo libro si concentrerà
nello studio solo di
quelle opinioni che assumono una qualche rilevanza politica, che ci coinvolgono non
soltanto come privati ma anche come cittadini.
Giungendo infine all’apoteosi del pressappochismo quando sostiene che la pubblica opinione
può essere definita, in prima istanza così: un pubblico [sic], o una molteplicità di
pubblici, i cui stati mentali diffusi (opinioni) interagiscono con flussi di informazione
sullo stato della cosa pubblica.
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Sorvolando sul fatto che anche uno studioso del calibro del Sartori non riesca a trovare il
coraggio di riconoscere all’opinione pubblica lo stato di autonomia ontologica che le compete -
non la identifica neanche come insieme di opinioni, che almeno avrebbe fatto salvo il suo
carattere culturale, ma la brutalizza materialmente tramutandola in pubblico: insieme di
individui! - ci concentriamo sull’aspetto di questa pseudo-definizione che consideriamo di una
certa importanza: l’interazione di opinioni con flussi di informazioni. Successivamente viene
precisato dall’autore che le opinioni sono composte da una serie di “ingredienti”: bisogni,
desideri, valori e atteggiamenti e si puntualizza che il fattore discriminante dell’opinione
pubblica è proprio quello di essere attraversata, come insieme di normali opinioni, da un flusso
di informazioni e notizie su come la cosa pubblica viene gestita.
Ponendoci ad esaminare la questione da un punto di vista storiografico, se la definizione di
Matteucci, prevedendo la discussione in pubblico come condizione sine qua non dell’opinione
pubblica, ne portava la genesi perlomeno agli albori dell’evo contemporaneo, quella di Sartori,
contemplando come determinante l’azione di flussi informativi, esclude che essa possa essere
mai apparsa nelle società premoderne e tradizionalistiche, prima per intenderci che si
affermasse l’uomo di Gutenberg caro a McLuhan. Quindi non prima dell’evo moderno.
Non volendo accettare la ristrettezza cronologica di una tale definizione, vorremmo riuscire a
definire l’opinione pubblica come un fenomeno sociale generale e trasversale delle varie
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epoche, per poi solo successivamente rivolgerci a una sue eventuale tipologia rispecchiante la
sua lenta evoluzione storica.
Quello che propongono con le loro definizioni sia Mazzoleni che Sartori, anche se quest’ultimo
solo in parte, è essenzialmente l’identificazione di un modello.
Con modello infatti si intende una concettualizzazione e/o una particolare situazione storica cui
si fornisce un valore normativo rispetto alle altre, vuoi nel senso che quella è posta come
norma rispetto a cui giudicare la congruità delle altre esperienze simili, vuoi nel senso che
quella è l'esperienza capostipite che le altre cercano di copiare, tanto più che l'origine forte del
termine modello è mutuato infatti dalle arti.
Proprio alla luce di ciò possiamo dire che la definizione di Mazzoleni di opinione pubblica è più
che altro l'indicazione di un modello storico, sulla cui base, come abbiamo detto, giudicare i
fenomeni che gli studiosi intendono riportare a quella definizione.
Un modello storico pienamente funzionale a una trattazione di scienze politiche, ma che in
questo lavoro deve obbligatoriamente essere superato e utilizzato per una definizione
sociologica.
Questa trasmutazione può avere inizio nella convinzione che se per opinione pubblica è da
intendersi un giudizio critico espresso dal pubblico indipendentemente dalle sue modalità di
esternazione, la sua origine non sarebbe neanche da collocare agli albori della storia
contemporanea perché, come vedremo, anche se rispettosa dei canoni indicati di pubblicità e
razionalità sulla base di informazioni politiche attendibili, in quel preciso frangente storico essa
rappresenta l’opinione di una porzione irrisoria dell’intera popolazione. E se non si vuole
accettare, come noi, una sistemazione di questo paradosso soltanto con una definizione ad hoc
del pubblico - inteso tautologicamente come coloro che si impegnano con la discussione e
l’impegno pubblico alla creazione dell’opinione pubblica – è necessario riportare la questione
all’interezza del popolo come appartenenti attivi, consapevolmente o meno, della società e
aventi in essa un interesse, anche se solo alla propria sopravvivenza.
Ed è proprio da questi interessi – che possono aver avuto più o meno diritto di esprimersi nelle
varie esperienze storiche – che si lega il giudizio del singolo attore sociale sul modo in cui
l’istituzione politica preposta alla gestione della collettività si sta comportando.
Vorremo sottolineare questo aspetto per cercare di dimostrare l’assoluta logicità di un tale
assunto di partenza per cui l’opinione pubblica è sempre esistita nella società umana, proprio
per le basi stesse della costituzione sociale come apparato motivato alla sopravvivenza e
convivenza pacifica degli appartenenti tramite la sintesi dei loro interessi. Interessi questi che
sono unanimemente riconosciuti come derivanti dai bisogni dei singoli, sia che si tratti di quelli
più elementari e biologici, come il nutrirsi e il riprodursi, sia che ci si volga a istanze più
propriamente culturali e spirituali.
Se quindi ogni singolo individuo ha per sua propria natura dei bisogni e degli interessi da
questi derivanti che sa, anche a livello inconscio, di dover tutelare, e se anche per la loro tutela
egli decidesse di aderire a una comunità che per questa adesione pretende paradossalmente
dei sacrifici inerenti ai predetti interessi, la società come sistemazione collettiva di questo
paradigma non può negare, nello stesso momento in cui sorge, che nello svolgimento della
dinamica della sua realtà quotidiana si producano dei giudizi individuali sull’andamento di
questa pratica sintetica di tutela e sacrificio generalizzata a tutti gli aderenti.
Che da questa scontata pratica individuale derivi di conseguenza un fenomeno collettivo
chiamato opinione pubblica è una forzatura che per il momento corriamo il rischio di accettare,
consapevoli delle difficoltà che questo comporta nel voler attribuire una coerenza di stampo
sociale al giudizio di un popolo primitivo che della gestione della cosa pubblica, intesa non nel
senso del diritto contemporaneo ma in quello più vago di attinenza agli interessi di tutti, non
può o non vuole sapere nulla.
Nel volere questo non possiamo inizialmente sfuggire ad una facile accusa di eccessiva
generalità quando, nel ricercare una definizione iniziale di opinione pubblica, ci limitiamo ad
evidenziarne i caratteri che riteniamo veramente fondamentali all’identificazione di questo
fenomeno sociale.
Abbandonando il modello ricorreremo quindi a una definizione per categoria.
Per categoria s'intende di solito lo strumento primo di attività classificatoria dell'intelletto. Esso
mira a riunire fenomeni diversi che presentino però vari elementi di similitudine, nel momento
in cui questi vengano presi in considerazione in rapporto ai soli elementi della similitudine. Per
fare un esempio classico, un cavallo ed una pecora possono essere unificati nella categoria dei
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quadrupedi dove stanno insieme a molti altri animali, di ciascuno dei quali si prende in
considerazione un solo dato, quello cioè di avere quattro zampe.
In questa accezione possiamo far rientrare la nostra definizione generale, che paga per la sua
estesa validità un forte prezzo di applicabilità concreta. Presupponendo una conoscenza delle
varie opinioni pubbliche concretamente realizzatesi nella storia, si procede quindi a una loro
sovrapposizione e ad uno sfoltimento di ogni appendice, per quanto caratteristica, che dovesse
uscire fuori dalla forma comune.
La forma è dunque quello stampo di astrazione che noi attribuiamo alle cose per riconoscerle
eguali pur sapendole diverse nella loro individualità storica. Rispetto alla categoria però la
forma si contraddistingue perchè essa non astrae una componente da oggetti diversi per
unificarli - anche perchè a poco serve contare il numero delle gambe per dire che un uomo ed
una gallina appartengono alla stessa categoria - ma presume di essere quell'elemento
concettuale che consente la riconoscibilità di un'identità comune tra individualità storiche.
Proporremo quindi una forma dell’opinione pubblica, intesa come una definizione il più possibile
generale, e cioè quella di un’opinione degli appartenenti alla società – il pubblico – sulla
gestione politica della società stessa.
L’opinione pubblica indica l’insieme degli atteggiamenti, le preferenze, le convinzioni e talvolta i
pregiudizi comuni alla maggioranza degli individui circa fatti e argomenti di interesse pubblico.
Prescindendo per un attimo dalla realtà sociale dell’opinione pubblica, procederemo ora a un
breve esame dell’elemento fondante del fenomeno collettivo in esame, e cioè l’opinione nella
sua accezione soggettiva.
1.2 L’opinione individuale e l’atteggiamento
Nell’affrontare brevemente la componente singola dell’insieme collettivo dell’opinione pubblica
– che trascende la loro semplice somma - vogliamo qui concentrare la nostra attenzione
sull’aspetto che possiamo definire antropologico o anche epistemologico della formazione
dell’opinione nel singolo individuo. Non vogliamo, è bene intenderci, addentrarci in uno
spaccato di psicologia sociale per individuare le fonti di influenza sociale sul singolo individuo
che portano o possono portare alla formazione di un’opinione in luogo di un’altra.
Vogliamo anche in questo caso, per una sorta di purezza analitica semplificatrice, immaginare
un individuo isolato socialmente che sia stato benedetto da una conoscenza metafisica che non
imprime in lui nessun tipo di costrizione che non derivi dal suo ragionamento personale.
In questo caso parliamo di un’opinione che ha un percorso dall’interno verso l’esterno o, se si
preferisce, una traiettoria verticale dal basso verso l’alto (se proprio si vuole proseguire in
questo percorso dal singolo così idealizzato alla collettività non meno irrealistica, troveremo - lì
sì - un’opinione pubblica formata da una somma di singole opinioni).
Mutueremo quindi dalla psicologia un accenno, assolutamente inadeguato, di un approccio
idiografico, mirante per definizione a determinare come dalle leggi fondamentali della natura
umana – gli istinti biologici, le leggi dell’apprendimento, la motivazione – possa scaturire
l’unicità degli individui e della loro opinione.
Ci limiteremo quindi a degli accenni sulle componenti biologiche e psicologiche nella
formazione dell’opinione singola e, sembra superfluo aggiungere, trattando materie del genere
la connotazione di “pubblica” a detta opinione rimane semplicemente accessoria.
Quali schemi mentali usa un uomo o quale bisogno stimola in lui un’opinione non variano
certamente in base alla materia trattata nell’emissione del giudizio, o perlomeno il campo
diviene così soggettivamente relativo da dover obbligare a includere l’intera fenomenologia
nella dizione onnicomprensiva di “opinione”.
Rush, citando altro autore, ci dice che l’opinione singola consiste nei contenuti di coscienza di
una persona, indipendentemente dal giudizio sulla sua verità o falsità. Focalizzandoci sulla
tematica antropologica e biologica di questo nostro breve excursus, vediamo come per Rose
questa coscienza non sia altro che un risultato dell’evoluzione della nostra specie.
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La coscienza [...] ha fatto la sua comparsa come inevitabile conseguenza di una
particolare strategia evolutiva, che fin qui ha dimostrato di avere un esito
straordinariamente favorevole, quello dello sviluppo di una linea di comportamento
sempre più flessibile e modificabile.
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Ne deriva quindi un legame tra le variabili biologiche del comportamento umano e le sue
opinioni, ma questo tipo di legame, lungi dall’essere così diretto, ha una fase intermedia
culturale.
Sempre Rush, analizzando il punto di vista di Childs in merito, ne cita un brano significativo.
Le opinioni sono ciò che sono perché gli atteggiamenti personali sono quel che
sono, e questi atteggiamenti hanno origine dalla natura della personalità, cioè dal
risultato in continua evoluzione dell’interazione dinamica tra la persona e il suo
ambiente.
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Ed ecco introdotto il nostro medium culturale tra l’opinione ed i limiti e le potenzialità
biologiche dell’uomo, e cioè l’atteggiamento. II termine atteggiamento si riferisce a certe
regolarità che si riscontrano nei sentimenti, nei pensieri e nelle predisposizioni ad agire di un
individuo nei confronti di alcuni aspetti del suo ambiente.
Gli atteggiamenti non possono essere direttamente osservati; sono delle costruzioni ipotetiche
che debbono essere riferite da espressioni verbali o da comportamenti manifesti. Si
distinguono dalle opinioni e dalle credenze in quanto queste ultime sono prive di una
componente affettiva. Gli atteggiamenti individuali vengono spesso organizzati entro più
sistemi di valori intesi come orientamenti verso intere classi di oggetti. In sintesi possiamo
definire l'atteggiamento come un sistema permanente di valutazioni, sentimenti, emozioni e
tendenze dell'azione pro o contro l'oggetto sociale.
L’atteggiamento è collocato quindi a monte dell’opinione vantando su di essa una persistenza
nell’individuo che la volatile opinione, pur non essendone preclusa a priori, non può avere e
un’intensità emotiva generata da questo suo carattere duraturo – se non permanente – oltre
ad altri fattori. L’opinione in relazione all’atteggiamento risulta essere una sua espressione su
uno specifico argomento – ad esempio una particolare proposta politica – ed è ad esso che
deve l’apparenza di coerenza che esternamente può mostrare rispetto a precedenti o future
opinioni.
Volpe ci spiega, nella voce Atteggiamento del Nuovo Dizionario di Sociologia, che noi
sviluppiamo i nostri atteggiamenti nel faticoso processo di adattamento al nostro ambiente
sociale; una volta che questi si sono sviluppati, essi regolarizzano le nostre reazioni e il nostro
adattamento sociale. Nei primi stadi di sviluppo di un atteggiamento le sue componenti non
sono strutturate in modo tanto rigido da non potere essere modificate da nuove esperienze,
più tardi però la loro organizzazione può diventare così rigida da non potere essere più
modificata, fino ad essere stereotipa, specie per quelle persone che per lungo tempo sono
state incoraggiate a reagire in modi “accettabili” ovvero attenendosi strettamente a modelli
normativi, a dati eventi o gruppi. Gli atteggiamenti cristallizzati o stereotipati riducono la
ricchezza potenziale del mondo che circonda una persona o limitano perciò le sue reazioni ad
esso, rendendone il comportamento prevedibile.
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Gli atteggiamenti possono essere in relazione ad oggetti concreti e astratti, personali o remoti
e soprattutto hanno tre componenti: cognitiva, comportamentale e affettiva .
La componente cognitiva consiste nelle convinzioni dell'individuo nei confronti dell'oggetto
sociale. Le conoscenze più critiche incorporate nel sistema degli atteggiamenti sono le
convinzioni a carattere valutativo, che implicano l'attribuzione all'oggetto di certe qualità sulla
base valoriale della propria morale e su quella fattuale della sua conoscenza.
Ovviamente un ruolo decisivo occupano i metodi di acquisizione delle conoscenze, partendo dal
presupposto che gli atteggiamenti, per questo aspetto cognitivo, si configurano in base al tipo
di informazione al quale l'individuo è esposto. Ci sono numerosi esempi di come l'acquisire le
conoscenze di un oggetto può avere importanza nel provocare lo sviluppo di un atteggiamento
verso quell'oggetto. Ad esempio, dalle informazioni sulle conseguenze della guerra chimica e
biologica può scaturire un atteggiamento positivo verso il disarmo ed il controllo di armi del
genere.
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È raro tuttavia che un atteggiamento sia determinato dall'informazione se non nel contesto di
altri atteggiamenti. Una nuova informazione è spesso impiegata per la formazione di
atteggiamenti consonanti con atteggiamenti correlati preesistenti.
Inoltre non tutti gli atteggiamenti riflettono esattamente i fatti. Alcuni di essi – come le
superstizioni, le illusioni e i pregiudizi - sono caratterizzati da una notevole divergenza dai fatti
reali. Molti atteggiamenti mancano di validità semplicemente perché le persone non sono
informate sufficientemente. Per tutti, i fatti vengono mediati spesso da altre persone intese
come autorità. Come vedremo più avanti, l’informazione e la loro mediazione saranno
argomentazioni di massimo interesse nel nostro studio dell’opinione pubblica.
La psicologia sociale ci insegna che esistono diversi modi per conoscere quello che accade
intorno a noi. Quelli più diffusi sono la superstizione e l’intuizione, l’autorità, il ragionamento e
il metodo scientifico.
Le superstizioni, credenze o paure, fondate sul caso, sulla magia o su sentimenti irrazionali,
ignorano le leggi della natura e si fondano spesso su un unico avvenimento – sia esso negativo
o positivo – tralasciando tutte le altre evidenze in cui la predizione non ha avuto effetto.
L’intuizione consiste nello sviluppare una certezza che non è basata sull’uso del ragionamento
né dell’inferenza. Essa è un’esperienza soggettiva che gode di una reputazione migliore della
superstizione perché non è necessariamente in contrasto con la ragione. L’intuizione spesso si
fonda sulla percezione – e su un’elaborazione cognitiva – rapida e inconsapevole dei piccoli
dettagli.
Il metodo dell’autorità consiste nell’accettare le informazioni riferite da una fonte credibile,
degna di fiducia, ed esperta in un tema, senza mettere in dubbio quanto da essa riferito. Le
conoscenze che derivano dall’autorità sono più attendibili di quelle derivate dall’intuizione e
dalla superstizione, ma anch’esse non sono infallibili. Considerare una fonte autorevole e
accettare quello che essa sostiene può dipendere dalla simpatia che si ha verso quella persona.
Inoltre, in molti casi chi accetta le conoscenze proposte dall’autorità non sa in che modo
l’esperto ha acquisito quell’informazione.
Uno dei metodi più rispettati di acquisizione delle conoscenze è il ragionamento, sia esso
induttivo o deduttivo. Si possono sviluppare nuove conoscenze basandosi sul ragionamento
deduttivo, che prende le mosse da fatti o principi conosciuti. In questo tipo di ragionamento la
conclusione è vera solo se l’argomentazione è valida e le premesse sono vere. Il ragionamento
induttivo si fonda invece sull’osservazione e sull’esperienza diretta dei fatti per giungere a
nuove conoscenze. Esso è stato a lungo utilizzato come metodo per giungere a conoscenze
scientifiche.
La conoscenza derivante dal metodo scientifico è ovviamente, perlomeno allo staso attuale,
appannaggio dei campi specialistici e, per le sue procedure sistematiche e controllate derivanti
dal metodo sperimentale, si colloca all’apice dell’obiettività dei metodi cognitivi,ma mal si
adatta al nostro discorso per ovvie ragioni.
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Gli atteggiamenti sono modi organizzati, coerenti e abituali di pensare, sentire e reagire nei
confronti di fatti e persone del proprio ambiente. Essi sono quindi modi appresi di
adattamento, cioè abiti complessi e il loro sviluppo segue principi fondamentali
dell'apprendimento, e questo sia nella dimensione della componente cognitiva, con le modalità
che abbiamo visto, sia in quella comportamentale, che si estrinseca ovviamente
nell'esperienza.
L'esperienza è quindi prima di ogni cosa un metodo per l'apprendimento degli atteggiamenti e
quindi, per riflesso, una fonte che condiziona fortemente la formazione delle opinioni
individuali. A prescindere dai giudizi di valore o di obiettività che possono derivare dalla
componente cognitiva degli atteggiamenti, molto ricopre l'esperienza diretta nella formazione
di opinioni in merito ad argomenti che, anche alla lontana, possono richiamare le conclusioni a
cui la nostra vita quotidiana ci ha istruiti.
Giunti a questo punto non possiamo non evidenziare il seguente legame tra l'esperienza e
l'atteggiamento: nel tentativo di soddisfare i propri bisogni l'uomo affronta numerosi problemi
ed in tale modo sviluppa degli atteggiamenti; derivano quindi dall'esperienza provocata dai
bisogni.
Per quanto riguarda la teoria dell'azione sociale, potremmo dire che "in principio era
l'istinto". O meglio , "la pulsione ad agire", o ancora meglio - per il sociologo - il
bisogno.
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14
In via preliminare è obbligatorio procedere a una distinzione tra il bisogno e il desiderio. Tale
distinzione ha una notevole importanza nello studio della sociologia in quanto, come dice
Acquaviva
Possiamo studiare e costruire una società che, almeno in linea di principio, soddisfi
tutti i bisogni, non potremo mai costruire una società che soddisfi tutti i desideri.
Infatti l'individuo è neocorticalmente capace di elaborare una serie vastissima di
desideri che è altrettanto incapace di soddisfare completamente: maggiore la
distanza tra desideri e possibilità di soddisfazione, maggiore il livello di infelicità.
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Operata questa doverosa distinzione, che già da ora evidenzia la capacità di elaborazione
culturale dell’uomo – che come dice Acquaviva è neocorticalmente capace di ciò proprio grazie
all’uso della corteccia celebrale – vediamo quali possono essere questi bisogni, su cui si basano
gli stimoli iniziali ad ogni tipo di comportamento sociale, non da ultimo l’esternazione della
propria opinione.
Secondo l’influente teoria fenomenologia di Maslow, vi sono bisogni fondamentali che gli esseri
umani devono soddisfare: bisogni fisiologici (mangiare, dormire); bisogni di sicurezza (un
luogo che offra protezione); bisogni d’amore e appartenenza (relazioni affettive e amicizie);
bisogni di autostima (avere una buona opinione di sé); e bisogni di autorealizzazione
(realizzare in pieno il proprio potenziale). Secondo Maslow questi bisogni formano una
gerarchia, perciò i bisogni precedenti devono essere soddisfatti prima che i successivi possano
essere presi in considerazione. Così per raggiungere l’autorealizzazione dobbiamo avere cibo,
protezione, amore e autostima.
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Questa gerarchia dei bisogni può essere integrata dalla ulteriore precisazione che vede la
definizione di una categoria di bisogni primari, visti come tali quando in assenza della loro
soddisfazione l'uomo è "infelice" a prescindere dal tipo di società in cui è inserito e della cultura
in cui vive. Quindi i bisogni primari sono quelli maggiormente attinenti la dimensione biologica
e istintuale dell’uomo, mentre la categoria dei bisogni secondari appartiene alla elaborazione
culturale degli stessi bisogni primari che, proprio per la propria natura di derivazione
intellettuale e sociale – in una parola culturale – possono giungere addirittura a negare le
pulsioni animali da cui hanno avuto origine.
Se quindi un qualche tipo di dibattito può essere ammesso per i bisogni di natura culturale e
sociale, quali sono i bisogni secondari, pare che per quelli più propriamente animali – i bisogni
primari – non ci sia spazio per nessun tipo di valutazione, riducendo il discorso soltanto a una
qualche tipo di catalogazione derivante da un’osservazione di tipo etologico che ne ricalca il
carattere oggettivo.
Il tutto anche se la definizione biologica dei bisogni umani può destare qualche sospetto in
quanto la loro scientificità ha proprio questa presunzione di oggettività e, come dice Von
Hayek, "nelle frequenti dichiarazioni a proposito dei bisogni oggettivi degli individui,[...]
oggettivo sta semplicemente a indicare le opinioni di qualcuno su ciò che gli altri dovrebbero
desiderare".
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In ogni caso la nostra analisi va di certo oltre alla questione tra l’antropologico e il polemico sui
bisogni primari, ma si concentra sulla necessità della mente umana di mettere in atto strategie
intese a soddisfare e modulare questi concreti bisogni primari; una coscienza che fa sì che le
sue capacità di inventare modelli di comportamento, e quindi atteggiamenti, si dilatino di
continuo. Infatti, i bisogni primari sono storicizzati - e quindi modificati - dall'elaborazione
culturale della neocorteccia, divenendo bisogni secondari, oggetto anch’essi di successivi
atteggiamenti.
Se quindi la coscienza è quell'incredibile risultato della selezione naturale umana capace di
fornire una gamma pressoché infinita di modelli di comportamento flessibili per ottimizzare
l'adattamento dell'uomo al suo ambiente, questi modelli nati come atteggiamenti
originariamente per la soddisfazione di bisogni primari, divengono successivamente essi stessi
dei bisogni culturalmente storicizzati – definibili come bisogni secondari - che portano gli
atteggiamenti successivi, sorti per la soddisfazione di questi bisogni secondari, a un livello
sempre più astratto e quindi ormai completamente avulso dalle proprie origini biologiche.
L'opinione che scaturisce da questi ultimi tipi di atteggiamento – che sono la maggior parte
nella nostra situazione sociale culturale attuale – deriva anch’essa dalla coscienza umana, ma
15
può essere quindi definita in effetti come il punto di maggiore distanza dal biologico, pur
derivandone , in questo lento e inesorabile processo di astrazione.
Il sistema delle pulsioni primarie (e dei bisogni) è filtrato, elaborato, dalle
informazioni e dalle capacità logiche, simboliche, ecc. proprie della neocorteccia,
grandemente sviluppata nell'uomo [...] che somma le "istruzioni" ricevute dalla
filogenesi della specie con quelle provenienti dall'ambiente.
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Il legame tra il bisogno - come tendenza ad agire nel sociale per la propria soddisfazione di
pulsioni sia biologiche che sociali - e l'atteggiamento - come motivazione culturale ad agire -
viene evidenziato da Acquaviva in un esempio.
Posso sentire il bisogno di difendere il mio gruppo o la mia popolazione, e questo mi
viene dalla memoria della specie, ma posso anche agire - in maniera difensiva -
perchè amo la patria, e questa è una motivazione ad agire che affonda le sue radici
nel bisogno primario di cui ho detto, ma che è altro da esso, o almeno - in quanto
motivazione - ne è una successiva elaborazione.
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Il legame tra l’esperienza e la formazione dell’atteggiamento è stato qui delineato con
un’approssimativa rassegna degli stimoli biologici e sociali alla soddisfazione dei propri bisogni,
ma non dobbiamo con questo dimenticare il legame gerarchico che lega i predetti
atteggiamenti con le relative opinioni individuali, rapporto che vede il modello di
comportamento sociale in posizione di supremazia principalmente per la sua valenza
intensamente emozionale.
Infatti gli atteggiamenti si sviluppano non solo al servizio dei bisogni, ma spesso per la difesa
di altri atteggiamenti nei confronti dei quali si sente un forte legame emotivo, la cui perdurante
esistenza incontestata come mezzo di interfaccia con il proprio ambiente sociale è capace – e
con questo intendendo ricollegarci a quanto detto prima per non sconfessare completamente
una visione biologica dell’azione sociale – di fornire un senso di soddisfazione e di certezza
esistenziale molto intenso.
Proprio la rilevanza di questo atteggiamento alla soddisfazione di un nostro bisogno ci porta
alla sua difesa in un'ottica utilitaristica, sorvolando in questa sede sull'ipotesi di una difesa
dell'atteggiamento in un contesto esso stesso di aspirazione alla soddisfazione di uno dei
bisogni secondari di affermazione sociale tramite l'indicazione e l’adozione esemplare di una
ricetta di vita "vincente" ricevuta passivamente in sede di socializzazione.
Abbiamo visto come esso stesso possa diventare oggetto di un bisogno - anche se secondario -
come il bisogno generi l'impulso all'esperienza e come essa indichi all'individuo il migliore
atteggiamento da tenere per la soddisfazione di detto bisogno. L'atteggiamento stesso
divenuto bisogno culturale può, e spesso lo fa in via principale, motivare l'esperienza, la quale
per questo però non smette di aggiornarne la validità alla realtà.
La tendenza ad agire e quindi, nel nostro caso, ad esprimere un'opinione è la componente
dell'atteggiamento che include tutta la disponibilità di comportamento associata a
quell'atteggiamento. Se un individuo ha un atteggiamento positivo verso un determinato
oggetto, sarà disposto ad elogiare e sostenere quell'oggetto; se ha un atteggiamento negativo,
sarà disposto a screditare e avversare l'oggetto.
Nonostante questo imprescindibile legame "biologico" con la soddisfazione dei bisogni, gli
individui difficilmente rivelano apertamente i loro atteggiamenti; spesso apprendono a tenerli
nascosti anche ad amici piuttosto intimi e per questo si preferisce usare il termine "tendenza
ad agire" per indicare una delle componenti degli atteggiamenti, piuttosto che reazione tout
court, allo scopo di indicare che questi atteggiamenti non sono necessariamente espressi in un
comportamento manifesto.
L'opinione derivante quindi da un utilitaristico interesse alla soddisfazione di un bisogno, anche
nel caso sia puntualmente definita, può non essere espressa, escludendo con ciò un
determinismo socio-biologico se non nella sua formazione perlomeno nella sua esternazione.
Le opinioni quindi possono anche non venire espresse e rimanere nella coscienza dell'individuo
che può, col tempo, dimenticarle, usarle come metro coerente di future opinioni o radicalizzarle
in uno schema repressivo di frustrazione.
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In ogni caso, sia che l’atteggiamento sia estroverso o introverso, quello che lo rende
indissolubilmente legato alla nostra personalità, rendendolo anzi una sua parte integrante che
ne esalta l’autenticità, è il legame emotivo con esso.
Per quanto riguarda la componente affettiva dell'atteggiamento dobbiamo ripetere che è
proprio questa a distinguerlo dall'opinione, da cui altrimenti si differenzierebbe soltanto per
una questione di generalità delle tematiche trattate.
La componente affettiva di un atteggiamento si riferisce alle emozioni connesse con l'oggetto.
È questa carica emotiva che da agli atteggiamenti quel loro carattere resistente, stimolante,
motivato e anche, ovviamente, personale.
La valenza affettiva di un atteggiamento è quindi il motivo del suo principale pregio - quando
giunge ad assolvere in maniera equilibrata sia alla sua funzione di mantenimento di una
certezza esistenziale che di stimolo all'azione nella realtà sociale - che del suo difetto - quando
l'eccessiva personalizzazione dell'atteggiamento lo porta a non rivelarsi ed a rendersi avulso da
qualsiasi possibilità di funzione sociale.
E’ pur vero però che l'apprendimento dell'atteggiamento nell'esperienza avviene attraverso un
processo per prove ed errori nel processo di azione sociale per la soddisfazione dei bisogni. Ma
queste prove ed errori avvengono nel contesto degli atteggiamenti già presenti nell'individuo,
sia che siano stati autonomamente sviluppati in esperienze precedenti, sia che siano stati
ereditati dall'educazione e dalla socializzazione. Le prove ed errori vengono quindi valutati
avendo alle spalle uno spazio di sicurezze e insicurezze che modificano la modalità di giudizio
sulle esperienze di prova e riprova che vengono fatte. E la posizione di preminenza di questi
atteggiamenti precedenti viene a giustificarsi principalmente per la valenza emozionale che
ricoprono per l'individuo, derivando nella maggior parte dei casi dall'educazione ricevuta
durante l'infanzia, nella fase dello sviluppo dell'individuo in cui viene a formarsi la personalità.
L'emozione è come legata alla formazione della personalità nell'educazione infantile.
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L'apprendimento pedagogico degli atteggiamenti passa attraverso più fasi, e più precisamente:
una fase di prevalente imitazione degli adulti e degli altri bambini , tipica della prima infanzia;
una seconda fase di identificazione con gli altri - la madre, il padre - apprendendo
comportamenti più complessi, anche da un punto di vista culturale; infine una terza fase
durante la quale si assiste alla costruzione di una personalità indipendente che ha comunque
come punti di riferimento le precedenti fasi di imitazione e di identificazione, e questo sia che
si arrivi con il tempo al loro rifiuto, sia che si pervenga a una loro interiorizzazione e
accettazione definitiva.
Sia che ci si conformi o ci si opponga a quanto la società ha definito come conveniente per la
soddisfazione dei bisogni individuali degli associati, gli atteggiamenti precedenti e in qualche
maniera esterni all’esperienza individuale sono una realtà imprescindibile da cui l’azione
individuale – tra cui la formazione e l’esternazione della propria opinione – non può
assolutamente prescindere. Sotto questo punto di vista non può esservi un giudizio del tutto
autonomo dalla società, e qualsiasi teoria contempli una tale possibilità si gongola
essenzialmente in un limbo metafisico e ideale.
La componente affettiva dell’atteggiamento, così importante sia per la sua formazione che per
la sua persistenza, è strettamente legata con i meccanismi che nella psiche dell’uomo
generano l’emozione.
Anche in questo caso è possibile una breve digressione in ambito biologico; esiste infatti una
apposita zona del cervello umano demandata alla gestione delle emozioni, il cui studio ha
rivelato la funzione di tutte quelle sensazioni che dominano la vita quotidiana di noi tutti.
Il cervello paleomammaliano è situato nel sistema limbico e rappresenta il livello
mediano dell’evoluzione: è simile all’apparato nervoso dei piccoli mammiferi, come i
conigli e i gatti, ed è predisposto per la mera sopravvivenza e la riproduzione.
Anche se questo può sembrare strano, tutte le emozioni principali dipendono dal
suo funzionamento. L’esperienza positiva o negativa di fronte all’ambiente e ai suoi
possibili pericoli è direttamente connessa alle sensazioni di benessere o malessere,
al piacere e al dolore che anche gli altri mammiferi, in qualche grado, provano.
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Escludendo un ulteriore – e in parte superfluo – approfondimento che ci riporterebbe addentro
a tematiche principalmente antropologiche e biologiche, possiamo dire che l'emozione è legata
all'atteggiamento, anzi ne è forse la caratteristica prima, ed è ancora essa a porlo in diretta
connessione con quella che risulta essere la variabile indipendente nel processo di formazione
dell'opinione soggettiva, e cioè la personalità.
Possiamo dire anche solo in base al nostro buon senso che la personalità è la caratteristica
peculiare dell’autonomia del singolo soggetto; difficilmente quindi – ed escludendo casi di
psico-patologie – l’individuo terrà a qualcosa di più della sua stessa essenza mentale, se
vogliamo escludere l’istintivo atteggiamento alla propria conservazione fisica.
Si è precedentemente definita la personalità come variabile indipendente perché, pur se
considerata da alcune scuole psicologiche come l’insieme delle regolarità dei comportamenti,
pensieri e percezioni – e questo ci riporterebbe inevitabilmente all’esame degli atteggiamenti –
altri studiosi, come Allport , sono giunti alla definizione della personalità come
“un’organizzazione dinamica, interna alla persona, di sistemi psicofisici che determinano i suoi
modi caratteristici di comportarsi, pensare e sentire”.
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In questa definizione l’espressione “sistemi psicofisici” è da intendere come un richiamo al fatto
che la personalità, lungi dall’avere una mera esistenza esteriore in azioni e atteggiamenti da
cui poter inferire statisticamente una certa coerenza mentale alla base di essi, ha un suo saldo
sostrato fisico – nella fisiologia dell’organismo e lo abbiamo visto – e psichico – nell’accezione
più “profonda” del termine.
Emblematica in merito a ciò è la sintesi tra base psicofisica e culturale della personalità che si
viene a creare nella famigerata tripartizione di quest’ultima nelle strutture ipotetiche dell’ Es,
dell’Io e del Super-io teorizzate da Freud.
L’Es è sede delle pulsioni istintive, irrazionali e narcisistiche inaccessibili alla coscienza, in cui
l’individuo sviluppa tutte le risposte agli stimoli ambientali rivolte a ottenere la gratificazione
immediata dei suoi bisogni, senza curarsi se essa sia appropriata o nociva, sicché il suo
comportamento, pur autogratificante, spesso è disapprovato.
L’Io si forma attraverso una prolungata interazione con l’ambiente sociale, in cui
inevitabilmente l’individuo preda degli istinti comprende – spesso a proprie spese – che per
ricevere l’approvazione dell’associazione che gli consente di soddisfare così facilmente i propri
bisogni elementari deve cercare la gratificazione di essi solo quando ciò è socialmente
accettabile, imparando con questo a inibire le proprie tendenze istintive in funzione di
determinati vincoli sociali.
Il Super-io è la struttura acquisita durante la socializzazione ed è ciò che permette l’equilibrio
tra la naturale tendenza dell’individuo all’autonomia e la necessaria tendenza all’integrazione
sociale. Superata la fase in cui la socializzazione in famiglia è incardinata ancora sul ruolo dei
genitori – come figure autorevoli cui dover arrecare piacere o dispiacere – si presenta un
momento in ogni individuo in cui il soggetto impara a interiorizzare le norme della società e a
distinguere sulla base di esse cosa sia “giusto” da ciò che è “sbagliato”. Ciò avviene per mezzo
di due sottosistemi del Super-io: la coscienza e l’ideale dell’Io. Il meccanismo attraverso il
quale la coscienza controlla il comportamento è la colpa. Il sentimento di colpa insorge quando
il bambino trasgredisce, anche in assenza dei genitori, ed è per tenersene lontano che l’adulto
è spinto a comportarsi “convenientemente”. L’ideale dell’Io opera premiando, in mancanza di
premi dei genitori, il bambino che si comporta bene, ed è alla base della formazione
dell’autostima interiorizzata. Con lo sviluppo di un Super-io l’autocontrollo prende il posto del
controllo dei genitori. E’ principalmente tramite il Super-io che l’uomo difende la sua
personalità – l’Io – dall’assalto continuo dei suoi stessi istinti, ed è sempre tramite questa
struttura evidentemente e interamente culturale che la società estrinseca il suo più profondo
controllo coercitivo sulle singole personalità dei suoi associati, e dicendo questo anticipiamo
quello che più avanti andremo dicendo su Durkheim.
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Riassumendo, nella triade di Freud convergono i principali filoni di studio sui processi di
determinazione della personalità umana: l’insieme dell’Es racchiude il filone biologico, che
vuole l’azione umana, gli atteggiamenti e tutto ciò che ne deriva come dettati dagli
imprescindibili vincoli fisici e da tutte quelle che possiamo chiamare variabili disposizionali ;
l’insieme dell’Io contiene invece le variabili situazionali tanto esaltate dai comportamentisti,
indicando con ciò le infinite esperienze di interazione del singolo con il proprio ambiente da cui
poter trarre preziosi insegnamenti utili alla propria soddisfazione; infine vi è l’insieme del
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Super-io, in cui si focalizzano le visioni più propriamente deterministiche della sociologia negli
studi sull’olismo o collettivismo.
Un compromesso apparente tra questi tre estremismi teorici viene proposto dalla psicologia
cognitiva, che è quella branca della psicologia che studia i processi percettivi e di pensiero
nelle loro varie manifestazioni e che ha proposto un quadro di riferimento alternativo per dar
conto della personalità. Da questo punto di vista, gli esseri umani sono elaboratori di
informazioni, e la personalità viene in esso definita dalle strategie di elaborazione delle
informazioni usate nelle varie situazioni, soprattutto in quelle sociali.
Uno dei primi psicologi a sostenere che per comprendere il comportamento delle persone
dovremmo anzitutto cercare di comprendere come le persone percepiscono e interpretano il
mondo sociale e quello fisico fu Gorge Kelly. Kelly propose una teoria cognitiva della
personalità che dà conto dell’individualità umana nei termini dei particolari processi che
consentono a ciascuno di noi di comprendere e interpretare il mondo. Secondo Kelly, gli esseri
umani, un po’ come gli scienziati, costruiscono ipotesi sulla realtà e usano queste ipotesi per
fare predizioni sugli eventi. La sua teoria è basata sull’assunto che gli esseri umani posseggano
un sistema di categorizzazione e ordinamento del proprio mondo da cui risulta uno schema o
modello individuale mediante il quale ciascuno di noi interpreta gli eventi a seconda di come li
rappresenta e ne ha esperienza. Kelly chiamò questi schemi o modelli individuali “costrutti
personali”, in modo che uno stesso evento può essere interpretato differentemente da persone
differenti. La concezione del mondo di un individuo in un dato momento è determinata dal suo
particolare sistema di costrutti, che consiste di un infinito numero di eventi ordinati in base a
un infinito numero di dimensioni. Comunque, poiché i costrutti personali sono soltanto ipotesi
su come le cose potrebbero andare, essi hanno carattere dinamico e vengono continuamente
aggiornati. Ciò significa che un evento che prima abbiamo considerato “buono” possiamo poi
considerarlo “cattivo” se nuove informazioni ci inducono a modificare le nostre ipotesi.
Per dar conto delle differenti opinioni che le persone potrebbero avere nei riguardi di una certa
situazione, possiamo esaminare le differenze individuali nei modi in cui le persone interpretano
quella situazione, senza necessariamente chiamare in causa differenze generali e disposizionali
legate al temperamento, alla fisiologia o alla psiche profonda.
Non è tutto: i costrutti personali oltre all’interpretazione dell’esperienza diretta possono
giungere a determinare quali informazioni scegliamo – e quali rifiutiamo – per giungere a una
conclusione, indipendentemente dal contributo dell’informazione a una soluzione
soddisfacente. In questa selezione pare ricopra un importante ruolo una sorta di ancestrale
pregiudizio (bias) al servizio del Sé, pronto a elogiare il contributo soggettivo nella riuscita
delle azioni ed a evidenziare le responsabilità esterne nel fallimento.
Ed alla luce di quanto detto da Kelly, che ha voluto emancipare la personalità dalla biologia e
dalla psicanalisi, questo bias egotista diviene l’unico vero fondamento della coerenza del
comportamento umano.
Il legame emotivo dell’individuo ai propri atteggiamenti, indipendentemente da come si siano
venuti a formare, è quindi un insuperabile istinto all’egotismo sfrenato che appare come una
versione culturalmente mediata del narcisismo dell’Es freudiano.
In quest’ottica sembra praticamente facilissimo che, quando dobbiamo prendere una decisione,
possa accaderci di essere influenzati da certi tipi di informazione ai quali noi stessi diamo un
peso maggiore che non ad altri. Ma fino a che punto possiamo allora fidarci dei nostri giudizi
quando dobbiamo stabilire le ragioni degli eventi pubblici, se questi giudizi sono basati su un
pregiudizio individualista piuttosto che sull’evidenza dei fatti?
In effetti dati due eventi, per formulare un giudizio esatto sulla loro relazione dovremmo
conoscere la probabilità d’occorrenza di ciascun evento e la probabilità che i due eventi
occorrano insieme. Tuttavia nella vita reale non abbiamo l’opportunità o il tempo di registrare
sistematicamente l’occorrenza di tutti gli eventi in cui ci imbattiamo o di cui abbiamo notizia.
Perciò dobbiamo stimare soggettivamente la probabilità di un evento sulla base dell’esperienza
passata e di congetture più o meno fondate, il che ci riporta alla questione di come
interpretiamo soggettivamente la realtà.
In ogni caso, quanto detto da Kelly e dai suoi successori si collega alla definizione di opinione
data da Childs che abbiamo citato ad inizio paragrafo e alla componente cognitiva
dell’atteggiamento, legando indissolubilmente la personalità dell’individuo al modo in cui esso
apprende.
Ciò ci consente di chiudere il cerchio.
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Nel difficile tentativo di tratteggiare un compendio delle principali teorie inerenti alla
formazione dell’opinione individuale, notiamo come sia doveroso un riepilogo esplicativo per
rendere maggiormente omogeneo quanto detto.
L’atteggiamento è stato, in quanto bilancino culturale delle pulsioni fisiche dell’uomo al
comportamento in generale, il centro del nostro discorso. Alle sue tre componenti – cognitiva
comportamentale e affettiva – possono farsi ricondurre – come nel caso della triade freudiana
– le teorie che in un modo o nell’altro hanno voluto suggerire una fonte di determinazione
individuale definitiva dell’opinione soggettiva al di fuori di rilevanti influenze sociali.
La componente cognitiva è strettamente individuale perché, a prescindere dalle modalità con
cui la conoscenza viene ad essere fatta propria dal soggetto, è determinata dai costrutti
personali dell’individuo e dalla sua personalità.
La componente comportamentale è anch’essa individuale perché pretende di far risalire ogni
azione umana alla soddisfazione di un bisogno soggettivo, sia esso pro-sociale – e
sostanzialmente altruistico – o più prosaicamente antisociale.
Infine la componente affettiva - che abbiamo ripetuto più volte è fondamentale
all’atteggiamento in quanto tale - è determinata in pari proporzione dalla fisiologia del singolo,
essendo le emozioni in ultima analisi riconducibili al funzionamento chimico di ormoni, dalla
psiche delineata nella dialettica conflittuale che ha luogo nella tricotomia freudiana della
personalità, e dalla percezione personale della realtà che, a prescindere da considerazioni
apparentemente superflue sulla sua obiettività, si riconduce a una farsa per giustificare sempre
e comunque la validità del proprio Sé.
Riassumendo e portandoci verso una visione più sociologica del problema, nella formazione
dell’opinione hanno quindi un ruolo fondamentale i seguenti elementi costitutivi
dell’atteggiamento individuale:
- la personalità, presa come variabile indipendente e a cui sono da attribuire gli schemi
percettivi della realtà dell’ambiente sociale, condizionante per questo la formazione e
l’eventuale modificazione di tutti le altre componenti che comportano un obbligatorio rapporto
con l’ambiente sociale.
- la conoscenza, definita come informazione su una serie di fenomeni ed avente natura
fondamentalmente fattuale ma comprendente anche altre opinioni su questioni che vengono
considerate come dati di fatto fornite da autorità cognitive.
- la morale, definita come insieme di valori e credenze di base che riflettono probabilmente
una valutazione coerente del genere umano o una sua precipua sistemazione concettuale,
avente carattere normativo ed interiorizzata in sede di socializzazione.
- l’esperienza, la cui importanza deriva dalla sua posizione di terreno di prova dei valori della
morale e dell’attendibilità della conoscenza appresa, oltre a quella di sede propositiva di nuovi
atteggiamenti.
Detto questo passiamo alla definizione di un metodo che ci consenta di andare oltre alla
dimensione individuale dell’opinione e di studiare il fenomeno dell’opinione pubblica come fatto
interamente sociale.