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meccanismo apparentemente perfetto, qualcosa che non andava. Infatti, i politici spesso
dicono d’ispirarsi all’opinione pubblica, mentre i cittadini troppe volte si dichiarano
insoddisfatti del “lavoro” dei loro referenti. In ultima analisi: c’era o non c’era un rapporto
diretto tra opinione pubblica e politica?
È questo il motivo per cui nasce questo studio nel quale si analizzerà il fenomeno
opinione pubblica, ripercorrendo la storia del concetto, le sue accezioni e gli autori che le
hanno dedicato attenzione. Nella sua caratterizzazione fortemente interdisciplinare e per
affrontare meglio l’analisi del concetto nelle sue molteplici sfaccettature, assumeremo un
andamento cronologico sullo sviluppo degli studi in materia.
Partendo da quest’assunto, si proseguirà osservando innanzitutto i due elementi che la
compongono: il pubblico e l’opinione. La loro trattazione sarà sistematica ed avrà come
scopo la comprensione dei due fenomeni che partono disgiunti per riunirsi, infine, in unico
concetto che è quello che interessa precipuamente. Si toccheranno le diverse prospettive
sotto le quali tali concetti sono stati affrontati e che si sono evoluti con il progresso delle
scienze sociali e, soprattutto, con le tecniche d’indagine demoscopica che, a partire dagli
anni Trenta del secolo scorso, hanno dato una vera svolta agli studi del settore. Solo
scoprendo ed applicando i metodi d’analisi e di misurazione dell’opinione prima e della
pubblica opinione poi, si riuscirà a capirne i processi di formazione come sono stati svelati
dai ricercatori. A questo punto si analizzerà il processo di formazione dell’opinione
pubblica, in altre parole la concettualizzazione empirica più recente del fenomeno.
Nel prosieguo del lavoro si prenderà ad oggetto d’analisi il sondaggio d’opinione, in
pratica lo strumento che, al saldo di vari adattamenti teorici e pratici, concede ai ricercatori
la comprensione dell’opinione pubblica. Si scoprirà cos’è e come si realizza, analizzando,
successivamente, il dibattito che si è sviluppato attorno ad essi. In questo percorso
s’incontrerà una proposta recente che riguarda la rilevazione puntuale dell’opinione
pubblica: il deliberative poll.
Si passerà, infine, ad una riflessione sul rapporto tra opinione pubblica e comunicazione,
tenendo presente che esse sono sempre state legate a doppio filo. “L’opinione pubblica è
per sua natura fondamentalmente comunicativa” (Price 2004, 35). Tale realtà pare molto
più interessante nell’epoca contemporanea dove v’è stato l’avvento del dibattito pubblico
mediato a scapito della più tradizionale discussione pubblica dell’epoca borghese e dove la
televisione, che ha invaso la nostra vita, è, nel frattempo, incalzata dai nuovi media.
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Questo lavoro verrà affrontato con la volontà e la voglia di cercare di fugare alcuni
dei miei dubbi, che credo essere comuni a quelli di molte altre persone. Lungi da noi l’idea
di avere un quadro esaustivo sul fenomeno che, per la vastità dell’argomento e degli studi
ad esso correlati, sarebbe impresa titanica. L’intento è, più semplicemente, quello di avere,
al completamento dell’opera, le idee più chiare su una materia che suscita vasto interesse e
che è, soprattutto nel nostro tempo, di fondamentale importanza per il futuro delle
democrazie occidentali, soprattutto quando esse si pongono come modello per altre realtà e
culture differenti dalla nostra. Infatti, citando un passo della tesi, rimane indubbio che “se
la nostra è davvero una “democrazia del pubblico” basata sulla “prova della discussione”,
l’opinione pubblica costituisce, a livello normativo, proprio il senso della democrazia
stessa: non solo il luogo della rappresentanza ma anche della partecipazione, non solo
ambito della decisione ma anche della discussione e del confronto.
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II) L’OPINIONE PUBBLICA
1) Il concetto di opinione pubblica: la storia, gli autori,
le accezioni
Si può affermare che ogni tentativo di dare un’unica e chiara definizione del
concetto si dimostra inefficace. Infatti, non ne esiste alcuna, generalmente accettata.
Noelle-Neumann assicura che “generazioni di filosofi e giuristi, storici, politologi e
studiosi di comunicazione si erano dannate l’anima nel tentativo di dare una definizione
chiara di opinione pubblica” (2002, 108), tanto che Harwood Childs ne contava circa
cinquanta formulate fino al 1965. Di fronte a queste considerazioni si dovrebbe supporre
che giungere ad una definizione generalmente accettabile sia oltremodo difficile, eppure il
termine continua ad essere impiegato nella ricerca, negli scritti che riguardano il governo e
nelle spiegazioni del comportamento sociale, tanto di carattere scientifico che di altra
natura. L’obiettivo sarà dunque comprendere i suoi differenti usi, indagandone soprattutto
la valenza politica.
1. 1 Origini dell’idea
Il concetto di opinione pubblica è fondamentalmente un prodotto dell’illuminismo,
poiché l’idea è strettamente collegata alle filosofie politiche liberali della fine del XVII e
del XVIII secolo. Ben prima del suo essere pensata in termini liberali e democratici,
tuttavia, erano in uso due accezioni differenti della parola opinione, che valgono ancora
oggi. Habermas (1995, 111-112) ci aiuta a far luce su questa distinzione. Un primo
significato è epistemologico e discende dall’uso di distinguere tra questioni di giudizio e
questioni di fatto o tra qualcosa d’incerto e qualcosa di conosciuto per vero, sia per
dimostrazione sia per fede. Esso deriva dal latino opinio, opinione o giudizio incerto, non
pienamente dimostrato. Collegato alla società nel suo complesso, il termine assume talvolta
un’accezione peggiorativa, che si riflette in espressioni quali “opinione comune”,
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“opinione generale”, “opinione dozzinale”. Nonostante le sue connotazioni a volte
negative, il termine opinione utilizzato in tale significato si ricollega essenzialmente ad uno
stato conoscitivo, ad una forma inferiore di conoscenza. Opinione è doxa, non è (per rifarsi
alla classica distinzione platonica) episteme, non è sapere o scienza. Un secondo significato
è quello di “opinion, cioè reputation: la fama, la considerazione, quello che si rappresenta
nell’opinione degli altri” (Habermas 1995, 112). Noelle-Neumann l’equipara alla condotta,
alla morale, alla consuetudine, ponendo l’accento sul ruolo dell’opinione popolare in
quanto agente di una sorta di pressione sociale informale e di controllo sociale. Tale
concezione si espresse compiutamente in Locke nel suo Saggio sull’intelletto umano del
1690 (1971). Egli ci spiega che vi sono tre leggi che governano la natura umana: la legge
divina, la legge civile, la legge della virtù e del vizio, o legge dell’opinione o della
reputazione, o anche – Locke utilizza denominazioni interscambiabili – legge della moda e
del giudizio dei privati. Quindi, piuttosto che considerare l’opinione come un modo di
conoscenza, ci si concentra sull’approvazione sociale o censura, l’opinione come un modo
di condonare o di condannare informalmente, che si stabilisce in ogni associazione di
uomini nel mondo ed ha come soli limiti un certo luogo ed un determinato tempo.
L’individuo può sottrarsi ad essa soltanto spostandosi in un luogo sufficientemente lontano
oppure sperando nel passare del tempo, poiché l’opinione è transitoria.
La parola pubblico agli inizi della sua storia conosce molti diversi significati, ma
possiamo metterne in evidenza due particolarmente degni di nota. Il termine latino publicus
deriva molto probabilmente da poplicus o populus, “il popolo”, ma vi erano almeno due
diverse rappresentazioni dell’idea di popolo presenti nel primo utilizzo della parola
pubblico. In un primo significato, pubblico si riferiva all’accesso comune, come
nell’espressione “luogo pubblico”. Secondo Habermas res publica era qualunque bene
accessibile in generale alla popolazione (1995, 16). Il concetto fondamentale era qui quello
di apertura, di disponibilità. L’idea rimane ancor oggi vitale, come quando si utilizza il
verbo pubblicizzare per riferirsi al processo di rendere qualcosa generalmente disponibile.
Un secondo significato ha poco a che vedere con l’accesso comune, concentrandosi invece
sull’interesse comune o il bene comune. Il suo uso è preponderante e si riferisce a questioni
d’interesse generale e, segnatamente, a questioni di governo o di Stato. Non a caso, prima
del 1830, i dizionari francesi opponevano public non a privé (“privato”), ma a particulier
(“particolare, individuale”). La stessa idea persiste oggi con riferimento ai “lavori pubblici”
e al “diritto pubblico”.
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Un edificio del governo può essere considerato pubblico anche se non è aperto a tutti.
Prima dell’evoluzione del concetto, le qualità personali dei governanti e le loro attività
erano accreditate come cosa pubblica. Nei documenti medievali signorile e pubblico erano
considerati sinonimi e publicare significava confiscare per il signore. Nella dottrina
dell’assolutismo regio, predominante in Europa prima del XVIII secolo, il monarca era
visto come la sola persona pubblica, fonte e principio di unità in una società
particolaristica. In seguito venne a riferirsi in generale allo Stato, quando esso progredì in
un’entità che ha un’obiettiva esistenza al di sopra e rispetto alla persona del governante.
Sebbene il concetto di opinione pubblica non emerga fino all’illuminismo, tanto
opinione che pubblico esprimevano dunque, prima di quell’epoca, molteplici significati
che rimangono tuttora parte della nostra comprensione del concetto. Più in particolare,
opinione era usato per riferirsi sia ai processi razionali/cognitivi sia ai processi
razionali/sociali, dualismo trasposto di fatto in tutti gli scritti successivi sull’opinione
pubblica. Il termine pubblico condivideva un analogo doppio uso. Per riprendere le celebri
parole di Abramo Lincoln, il termine pubblico significava in origine “del popolo” (quando
riferito al comune accesso) e “per il popolo” (quando riferito al bene comune). Venne a
significare “dal popolo” (cioè portato avanti dalla gente comune, il senso in cui spesso lo
pensiamo oggi) molto più tardi.
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1. 2 La nascita dell’opinione pubblica
L’unione dei due termini in una singola locuzione, utilizzata per riferirsi ai giudizi
collettivi che influenzano l’agenda politica al di fuori della sfera del governo, si verificò in
Europa in seguito all’operare su larga scala di tendenze, le più diverse possibili, di carattere
sociale, economico e politico. I francesi, maggiormente che gli inglesi, sono visti come gli
inventori e divulgatori del concetto. Secondo Noelle-Neumann, a quanto s’è potuto
accertare, esso è comparso per la prima volta al plurale (“opinions publiques”) nel 1588
con Montaigne (1970, 833), come sinonimo di “opinions vulguères” (opinioni volgari, del
popolo). Ma l’uso dell’espressione al singolare (“opinion publique”), intorno al 1744, è
attribuito a Rousseau (1964, XCI, 1184), che la impiegò nel secondo significato definito
sopra, per riferirsi alle consuetudini e alle condotte sociali. Altro personaggio
comunemente indicato come importante divulgatore dell’espressione opinion publique, è
Necker. Egli era ministro delle Finanze della corona francese e sosteneva che per il
successo delle politiche governative non si poteva prescindere dal sostegno dell’élite. A tal
fine puntellò la piena pubblicità delle attività statali, pubblicando un rendiconto dei conti
pubblici nel 1781, il celeberrimo Compte Rendu. In ogni caso, nel 1780 gli scrittori
francesi facevano un uso abbastanza frequente della locuzione opinione pubblica per
riferirsi ad un fenomeno piuttosto politico che sociale.
Il processo storico dell’opinione pubblica si deve far risalire all’invenzione della
stampa a caratteri mobili (1452-56) che permise la diffusione della letteratura e
l’espansione dell’alfabetizzazione, soprattutto nelle classi mercantili ed imprenditoriali. Le
società di lettura e le librerie di seconda mano iniziarono a prosperare e, con la
professionalizzazione delle arti che si sostituì al mecenatismo, gli autori e gli artisti
cominciarono a dipendere dal sostegno popolare. Sta di fatto che, alla fine del Settecento,
la letteratura politica e morale era molto popolare tra le classi colte. Tale processo s’innestò
sugli effetti già in pieno spiegamento della Riforma protestante che sfidava l’antico ordine
socio-politico della giurisdizione e dell’autorità papale. Infatti, gli insegnamenti di Calvino
e Lutero, che radicavano una concezione nuova e individualistica della persona, alla fine
del XVII secolo, si erano già evoluti in filosofie liberali d’ampia portata. Esse affermavano
che gli individui dovrebbero essere liberi di seguire le loro predilezioni in tutti gli aspetti
della vita (religioso, economico e politico).
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1. 3 L’emergere di una sfera pubblica
Al concetto di sfera pubblica si è fatto spesso riferimento in relazione al libro di
Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, del 1962. La nozione si riferisce
ad uno “spazio” metaforico che costituisce un’arena, più o meno autonoma e più o meno
aperta, per il dibattito pubblico. Ma come nasce il concetto di sfera pubblica? Possiamo
affermare, con Habermas, che la genesi della sfera pubblica borghese ha inizio agli albori
del capitalismo finanziario e commerciale che, a cominciare dal XIII secolo, si diffonde
dalle città dell’Italia del Nord anche verso l’Europa occidentale e settentrionale. Lo
scambio commerciale internazionale e cittadino, che risulta indubbiamente manipolato dal
potere politico, si dispiega in una rete orizzontale, largamente estesa, di dipendenze
economiche che, in via di principio, non possono più essere ricondotte a rapporti verticali
di tipo familiare e propri del sistema di dominio dei ceti, appartenenti all’ormai declinante
sistema medievale.
Le necessità del commercio fanno sorgere anche la necessità della circolazione delle
notizie, che sono indispensabili alla sussistenza di questo. Indubbiamente, all’inizio questo
scambio avveniva per posta, quindi privatamente e organizzato su base professionale dai
mercanti d’informazione. Non si poteva parlare di posta, né di stampa in senso stretto
finchè tali servizi d’informazione non furono accessibili alla generalità del pubblico. Le
notizie fatte conoscere su base professionale non erano ancora pubblicate e le novità
irregolarmente pubblicate non si erano ancora oggettivate in notizie.
Nel XVI secolo le compagnie commerciali si organizzarono su base allargata di capitale e
non si accontentarono più di mercati limitati. La vecchia base operativa cittadina si allargò
al territorio statale. Era la nazionalizzazione dell’economia cittadina ed era lo Stato ad
assicurare, con il fisco, i capitali per lo sviluppo mercantile. Le amministrazioni locali
erano poste sotto il controllo del governo. Lo Stato prese il timone del capitalismo, in
modo sempre più vincolante, fin nei dettagli, regolamentando il processo stesso di
produzione. In questo contesto, come pendant all’autorità, si costituì la società civile.
“Infatti, le antiche forme familiari, che agganciavano l’intera personalità dell’individuo a
sistemi di fini sovrapersonali tipici della meccanicità sociale sclerotizzata del medioevo,
erano morte e l’economia singola di ogni famiglia era diventata il centro della sua propria
esistenza” (Habermas 1995, 32). Ognuno nel suo piccolo nucleo familiare doveva pensare
ed operare per il proprio progresso e per stare al mondo nel modo più dignitoso possibile.
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Si erano propagati i germi della libera iniziativa ed in tal modo si era anche creata una
distinzione riconoscibile e sostanziale tra la dimensione pubblica e la dimensione privata.
Sta di fatto che, però, l’attività economica privatizzata doveva orientarsi verso uno scambio
allargato di merci sotto la pubblica direzione e sorveglianza. Le condizioni economiche
nelle quali si svolgevano, risiedevano, perciò, fuori dei confini dell’economia familiare ed
erano quindi, per la prima volta, d’interesse generale. Ora il privato aveva interesse a
conoscere e, in seguito, ad intervenire sull’andamento del governo.
In soccorso alle nuovo vento economico e sociale, arrivò lo sviluppo dell’altro elemento
dirompente della circolazione protocapitalistica: la stampa. I primi giornali in senso stretto
apparvero settimanalmente, ma diventarono già quotidiani verso la metà del XVII secolo.
Essi si occupavano, com’è ovvio, prevalentemente di notizie del commercio internazionale,
anche se erano ancora un organo d’informazione secondario, poiché la missiva, visto che
gli abbonati non avevano alcun interesse a che il loro materiale diventasse pubblico, era
ancora la fonte d’informazione più attendibile e rapida. Pian piano, però, anche le notizie
diventarono merci, che erano subordinate alle leggi di mercato. Una parte del materiale
informativo, quindi, cominciava ad essere stampato in forma periodica e, venduto
anonimamente, otteneva, pertanto, pubblicità. Maggior peso acquistava, nel frattempo,
l’interesse dei nuovi governi, che ben presto utilizzarono la stampa ai fini
dell’amministrazione. Poiché essi si servivano di questo strumento per rendere noti ordini e
disposizioni, i destinatari del potere diventarono effettivamente il publicum.
L’autorità indirizzava le sue notificazioni al pubblico, in linea di principio, dunque a tutti i
sudditi; tuttavia, di solito, per questa strada non raggiungeva “l’uomo comune”, bensì i
“ceti colti”. Insieme all’apparato dello Stato moderno sorse, infatti, un nuovo strato di
“borghesi”, che assunsero una collocazione centrale in seno al pubblico: gli impiegati
dell’amministrazione pubblica. Essi avevano soppiantato, nel frattempo, i vecchi ceti degli
artigiani e dei bottegai, decaduti con la perdita d‘importanza delle città commerciali.
Anche i grandi capitalisti, tramite le loro compagnie, si erano collegati direttamente con lo
Stato ed anch’essi appartenevano a quel pubblico di nuovi borghesi. Questi erano il nuovo
ceto dei dotti che fin dall’inizio era un pubblico di lettori. Esso non poteva, come nel
passato, essere integrato nel suo complesso alla cultura nobiliare del languente barocco. La
sua posizione egemonica nella nuova sfera della società civile conduceva piuttosto ad una
tensione con la corte, in modo diversificato da nazione a nazione. “In questo strato
direttamente coinvolto e cointeressato dalla politica mercantilistica, l’autorità suscita una
risonanza che rende il publicum, l’astratta controparte del potere pubblico, cosciente di sé
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come interlocutore, come pubblico di quella nascente sfera pubblica borghese che si va
formando. Questa si sviluppa infatti nella misura in cui il pubblico interesse alla sfera
privata della società civile non è più oggetto di cura esclusivamente da parte del governo,
ma è preso in considerazione da tutti i sudditi come loro proprio interesse” ( Habermas
1995, 37).
Le misure quotidiane della politica mercantilistica, riguardavano ormai tutti e, quindi,
diventava problematica anche quella zona in cui il potere pubblico manteneva il
collegamento con i privati, tramite continui atti amministrativi che non erano diretti
esclusivamente al mondo dei produttori, ma anche a quello dei consumatori. Ci si poteva
trovare, ad esempio, di fronte ad ordinanze di questo tenore: “stante la scarsità di granaglie,
si vieta per decreto il consumo di pane il venerdì sera” (Sombart 1967, vol. I, 365).
Interferenze di questo tipo mal si conciliavano con la crescente autonomia della sfera
privata. “Quindi, poiché la società contrappostasi allo Stato da un lato delimita chiaramente
un ambito privato nei confronti del pubblico potere, dall’altro, però, eleva a questione di
pubblico interesse la riproduzione della vita, oltre i limiti di un potere domestico privato,
quella zona di contatto amministrativo continuato diventa “critica” anche nel senso che
provoca la critica di un pubblico raziocinante. Il pubblico può raccogliere questa sfida
tanto più in quanto ha bisogno soltanto di cambiar funzione allo strumento con cui
l’amministrazione aveva già fatto della società una faccenda pubblica in senso specifico: la
stampa” (Habermas 1995, 38). Infatti, già nell’ultimo trentennio del XVII secolo
nascevano riviste che miravano principalmente non tanto all’informazione, quanto
all’istruzione pedagogica e perfino alla critica e alla recensione. Tutto questo con sommo
disappunto dei governi dediti, per quanto possibile, alla regolamentazione ed al controllo
delle medesime. Tali tentativi non riuscirono ad arginare la costituzione, nel tempo, di un
foro nel quale i privati, raccolti come pubblico, si disponevano a costringere il potere a
legittimarsi dinanzi alla pubblica opinione.
Alla fine del XVII e all’inizio del XVIII secolo, acquistò importanza una nuova
varietà d’istituzioni sociali: i caffè (coffeehouses) d’Inghilterra, i salotti (salons) di Parigi e
le società conviviali (Tischgesellschaften) della Germania. In questi luoghi le discussioni
sulla letteratura e l’arte incominciarono ad intrecciarsi con la politica. Al loro interno,
l’autorità dell’argomento soppiantava l’autorità del titolo ed il libero scambio
d’informazioni; la libertà di critica e ragionamento divennero strumenti di una
“autoaffermazione pubblica” nelle questioni politiche. L’opinione pubblica emerse come
una nuova forma di autorità politica, con la quale la borghesia poteva sfidare il governo
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assoluto. Secondo Habermas, fondamentale era la razionalità e l’egualitarismo
dell’opinione pubblica nel corso dell’Illuminismo. Essa era vista discendere dal discorso
ragionato, dalla conversazione attiva e dalla discussione. Discussione che era “pubblica”
nel senso che aspirava a determinare il bene pubblico o il bene generale, non quindi
semplicemente uno scontro d’interessi individuali. Essa era, inoltre, aperta, quindi era
“pubblica” nel senso che, la partecipazione aperta, se non del tutto assicurata, era
auspicata. Essa era autonoma ed egualitaria, in pratica operava indipendentemente dallo
status sociale ed economico, dando la precedenza al valore delle idee piuttosto che al
potere politico. Infine, la discussione doveva essere illuminata dalla piena pubblicità degli
affari politici e delle loro conseguenze, affinché fosse possibile emettere un corretto
giudizio.
Il concetto illuministico di opinione pubblica camminava di pari passo con la
controversia di diritto pubblico sul principio del potere assoluto. Infatti, Hobbes prima e
Montesquieu poi preparano il rovesciamento del principio di tale potere. Per loro era la
verità, non la volontà a fare le leggi. La legge, quindi, era da ricondurre senz’altro alla
ragione umana che si esprimeva nell’opinione pubblica, e che era, per questo, unica fonte
legittima di essa. La ragione umana si esprimeva nell’opinione pubblica, poiché nel
pubblico dibattito, che richiedeva raziocinio, scaturiva la forza dell’argomento migliore,
che, una volta applicato, avrebbe fatto coincidere ragione e giustizia. Al monarca
illuminato, non restava che porre l’opinione pubblica alla base del suo agire politico nella
forma di norme generali. Tale filosofia politica tende ad influenzare tuttora la nostra idea di
democrazia, quale governo fondato sulla volontà popolare cui i governanti danno forma
politica in norme valide per tutti.
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1. 4 Ambiguità del significato di opinione pubblica e l’opinione pubblica come governo
L’analisi di Habermas è stata molto importante, ma molte voci critiche si sono
levate nei confronti della sua lettura del fenomeno. Innanzitutto, la sfera pubblica borghese
di Habermas è un ideal-tipo normativo criticato da molti come non rispondente alla realtà,
poiché presuppone l’esistenza di un pubblico bene informato, critico e attivamente
partecipe alla vita politica, che non esisteva nel Settecento e non esiste oggi. Altrettante
chimere erano da considerarsi nel XVIII secolo l’egualitarismo e la razionalità attribuite
all’opinione pubblica dell’epoca. Molti storici, infatti, pensano che gli intellettuali
dell’epoca fossero lontani da un egualitarismo incondizionato. Per quanto riguarda la
natura critica e razionale dell’opinione pubblica, il problema di come derivarla da una
massa conflittuale di opinioni individuali costituì un dilemma centrale della filosofia
liberale. Rousseau affermava che il “bene generale” fosse percepibile soltanto attraverso la
diretta e continua partecipazione dei liberi individui che discutono di scelte collettive. Egli
non sosteneva il conflitto tra gli interessi individuali, ma credeva che i membri del
pubblico, nel decidere insieme il meglio per la propria comunità, rinunciassero ai loro
interessi e affari privati per il benessere comune. Tale idea che l’opinione pubblica
trascenda l’opinione individuale e rifletta un astratto bene comune, piuttosto che un mero
compromesso d’interessi individuali, influenzò la riflessione sul concetto ben dentro il XX
secolo. Altri scrittori, pur rimanendo nel vago su cosa fosse l’opinione pubblica, indicarono
chiaramente che non si trattava dell’opinione di una moltitudine. Essi, però, non erano
espliciti circa il gruppo di persone a cui si riferivano. Alcuni sostenevano che l’opinione
pubblica faceva capo all’opinione degli “uomini di lettere”, altri che era l’opinione dei
parlamenti nel loro tentativo di opposizione alla corona. Ma la realtà è che questo pubblico
era un chiaro costrutto politico o ideologico, senza alcun evidente referente sociologico. A
dispetto di Habermas, l’opinione pubblica è apparsa a molti, nel periodo prerivoluzionario,
come un concetto usato dai vari gruppi in competizione per il potere politico, in base al
quale avrebbero determinato, a proprio favore, il peculiare referente sociologico.
Altre idee sull’opinione pubblica circolavano a cavallo fra XVIII e XIX secolo e
un’analisi seria del fenomeno non può prescindere dalla loro trattazione. Ci riferiamo agli
scritti di Madison nel Federalist e a quelli dei teorici inglesi “dell’utilitarismo”, Bentham e
Mill.
Madison, uno dei padri della costituzione americana, affermava, nella famosa raccolta di
trattati che i fondatori degli Stati Uniti hanno scritto fra il 1787 e il 1788 su questioni
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riguardanti la costituzione, queste parole: “Se è vero che tutti i governi poggiano
sull’opinione pubblica, è anche vero che la forza dell’opinione in ciascuno individuo e
l’influenza che potrà praticamente avere la sua condotta, dipendono, in gran parte, dal
numero di coloro che egli pensa possano condividere la sua opinione” (1788, 271). Queste
dichiarazioni già prefiguravano un ruolo politico molto più formale per l’opinione pubblica
nei confronti del governo. Tale ruolo, pensato adesso in termini legislativi ed elettorali, fu
portato alla luce dal lavoro di Mill e Bentham nel XIX secolo. In contrasto con Rousseau,
essi sostenevano che il comportamento dei singoli obbedisce alla necessità di soddisfare i
propri desideri ed evitare il dolore, cercando di massimizzare i propri interessi ed il proprio
utile. Si rendeva dunque necessario un meccanismo che armonizzasse questi diversi
interessi. La risposta fu il governo della maggioranza, stabilito attraverso regolare elezione
o plebiscito. L’opinione pubblica veniva compresa al meglio come “gli interessi
agglomerati degli uomini della collettività”. Lo Stato doveva avere il ruolo d’arbitro o di
curatore su individui e gruppi che competevano per massimizzare i loro interessi,
attraverso la concorrenza economica e il libero scambio che erano fondamentali per il
sistema. La differenza tra la concezione utilitaristica dell’opinione pubblica e le precedenti
idee dell’Illuminismo (vedi Rousseau) si trova nelle differenti proposte per determinare il
bene comune. I primi pensatori liberali videro l’opinione pubblica come un modo per
realizzare la volontà comune, individuata nel continuo coinvolgimento popolare sotto
forma razionale ed egualitaria. Gli utilitaristi la vedevano, invece, come determinata dalla
funzione massimizzante delle distinte volontà individuali, vale a dire attraverso il governo
della maggioranza. Questo cambiamento, però, non significava che la discussione pubblica
non aveva più alcun ruolo da svolgere. Anzi, il terzo elemento fondamentale di questa
concezione democratica era la libertà di stampa, poiché solo questa avrebbe assicurato, da
parte del “tribunale dell’opinione pubblica”, la tutela contro possibili abusi di potere. Il
continuo coinvolgimento popolare nella discussione pubblica non era proposto, tuttavia,
come il migliore o più pratico meccanismo per determinare il bene comune, ma, piuttosto,
la determinazione dei desideri popolari rimaneva affidata alla maggioranza, come espressa
da regolari elezioni. Un secondo e consequenziale mutamento concettuale riguardava lo
stesso pubblico che nei primi scritti era vagamente definito come quei membri delle classi
colte che frequentavano i caffè e i salotti. Esso fu dapprima identificato con l’elettorato
eleggibile, comunque, ai tempi, facente ancora parte di una ristretta élite, e poi allargato a
tutti con l’introduzione del suffragio universale e di elezioni annuali. Infine, qualcuno
pensa che il modello di democrazia maggioritaria presumesse che ogni cittadino sarebbe
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stato capace di dar forma ad opinioni politiche sulle pressanti questioni del giorno, come
quello di Rousseau. Né Mill né Bentham, però, nutrivano aspettative particolarmente forti
riguardo alla capacità di quest’elettorato ampliato di deliberare una linea di condotta
politica. Essi erano più interessati alla capacità del pubblico di scegliere e scartare
rappresentanti piuttosto che alla capacità di avere fondate opinioni politiche.
Per chiudere il cerchio sulle tante obiezioni al paradigma di Habermas, non si può non
illustrare brevemente le più recenti ed interessanti, relative alla ricostruzione del rapporto
tra sfera pubblica ed opinione pubblica. Si parlerà del lavoro di due storici inglesi Briggs e
Burke (2002) e di uno dei maggiori sociologi italiani, Alessandro Pizzorno (2001). Briggs
e Burke ricostruiscono la nascita della sfera pubblica nell’Europa dell’Età moderna sulla
base di fonti e di materiali storici più ampi, più aggiornati e più empirici di quelli
habermasiani. Essi analizzano la dimensione normativa ed ideal-tipica della sfera pubblica
borghese elaborata dal sociologo tedesco. Secondo costoro, l’emergere di una sfera
pubblica sarebbe documentabile dalla riforma luterana e si presenterebbe come un
“processo intermittente o a zig-zag”. A periodi in cui è possibile rilevarne la presenza,
seguirebbero periodi d’involuzione e questo lungo fenomeno d’incubazione, con
l’alternanza di fasi espansive e recessive, non avrebbe dunque quelle caratteristiche di
svolta strutturale che Habermas sembra assegnarle. Soprattutto, le modalità di costruzione
della sfera pubblica (e dell’opinione pubblica) avvengono dall’alto, da parte dell’élite
politiche e religiose, quindi attraverso un uso strumentale dell’appello al popolo. Viene
così messa in dubbio quella che per Habermas era la funzione critica ed emancipativa della
“pubblicità” e viene evocata una seconda dimensione (strumentale, manipolativa, di
controllo) della sfera pubblica, mediante una eterodirezione della discussione pubblica.
Quindi decadrebbe la ragione della progressiva disgregazione della sfera pubblica borghese
che, per l’analisi di Habermas, sarebbe stata vanificata e mistificata nella moderna società
di massa. Emergerebbe una natura ambivalente della sfera pubblica: un luogo nel quale
l’opinione pubblica è il risultato di tendenze duplici (dall’alto e dal basso) e finalità duplici
(di controllo ed emancipazione), in cui il potere vecchio e nuovo cercano di ottenere
legittimazione sia attraverso l’uso pubblico della discussione (e della ragione), sia
attraverso la rappresentazione pubblica della discussione razionale.
In questa direzione si può collocare anche l’affermazione di Pizzorno (2001) che,
analizzando la genesi della sfera pubblica attraverso la tradizione liberal-democratica,
sottolinea come, accanto alla concezione della sfera pubblica (e dell’opinione pubblica)
come sovranità popolare – “nel corso del XVIII secolo questo concetto di opinione
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pubblica critica si trasforma nel concetto di opinione pubblica come luogo della sovranità
popolare” (2001, 26) –, si sviluppi anche un ruolo antipopolare della sfera pubblica stessa,
in quanto filtro o correttivo dell’ingresso delle masse sulla scena politica col suffragio
universale, a riconferma dell’ambivalenza di cui s’è già parlato. Più pertinente è la critica
di Pizzorno su altri terreni. In primo luogo si concentra sul fondamento discorsivo che
caratterizza la dinamica dell’opinione pubblica, o meglio la discussione razionale, la
razionalità comunicativa come mutuo intendersi contrapposta alla razionalità strumentale.
Egli capovolge l’assunto di Habermas affermando che la sfera pubblica non è il luogo del
mutuo intendersi, della veritas e della ratio, ma piuttosto il terreno della retorica
discorsiva, della negoziazione, del confronto identitario. Ciò implica l’abbandono dell’idea
teleologica di una discorsività razionale, illuminata, quindi emancipatrice perché
universalistica (la famosa “volontà generale” che verrà criticata da molti autori) ed il
conseguente riconoscimento della natura non solo razionale, ma anche emotiva, proiettiva,
simbolica ed identitaria delle dinamiche d’opinione. In secondo luogo, Pizzorno fornisce
un contributo decisivo alla definizione normativa della natura e della funzione della sfera
pubblica nelle nostre società. Egli parte dal riconoscimento che la democrazia si distingue
da altre forme di governo non tanto per la presenza d’istituzioni rappresentative (dacché
esistono anche in regimi pseudodemocratici o autoritari), quanto per la presenza di una
sfera pubblica caratterizzata dal diritto di comunicazione pubblica e dalla libertà di
conversione (la libertà di modificare le scelte personali politiche, culturali ed identitarie).
La sfera pubblica è, quindi, non solo una componente della democrazia, ma è anche l’unico
luogo veramente democratico, perché permette di comunicare pubblicamente le proprie
appartenenze e rende possibile la “conversione” attraverso le dinamiche d’opinione che
sono sì discorsive, ma non necessariamente orientate alla razionalità comunicativa ed alla
comprensione reciproca.