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INTRODUZIONE
L’idea di questo lavoro è nata circa l’anno scorso, durante il mio primo anno di
Magistrale. Era una domenica e stavo guardando una puntata del salotto di Barbara D’Urso
su canale 5. Ironie a parte, l’argomento di discussione era l’omogenitorialità. Non è, infatti,
una novità che la televisione utilizzi argomenti LGBT - al pari della morte e delle donne nude
– per fare audience utilizzando la scusante della “sensibilizzazione” come attenuante di una
mera prostituzione mediatica…ma questo è un altro discorso.
Come ospiti, nel dibattito, erano presenti Alessandro Cecchi Paone ed un
neuropsichiatra infantile di cui non ricordo il nome. La discussione riguardava in particolare
l’adozione di minori da parte di coppie gay e lesbiche. C’era tra il pubblico chi diceva che
non era d’accordo perché un bambino ha bisogno di un padre e di una madre (motivazione
discutibile) e chi, invece, era favorevole perché << basta l’amore >> (altrettanto discutibile).
Il neuropsichiatra infantile affermava che non era accettabile che un bambino fosse allevato
in una famiglia con due uomini o due donne, perché di sicuro sarebbe cresciuto con gravi
problematiche psicologiche. In quel momento Cecchi Paone intervenne dicendo che le
parole del medico non erano frutto di scienza, ma di un puro parere personale, che il medico
per la comunità scientifica era un “signor nessuno”, che il medico “non ha pubblicato
neanche una riga sulle riviste internazionali”.
Queste frasi mi hanno fatto riflettere sulla differenza tra scienza e opinione, tra risultati
e pregiudizio, tra dimostrare e dare per scontato.
Basta una laurea in medicina per poter dare credibilità ad una frase? Per me, e per chi
possiede del giudizio critico ovviamente no.
È per questo motivo che ho deciso di imbarcarmi in un progetto, insieme alla
professoressa Simonelli, riguardante un argomento che include in sé aspetti oltre che
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psicologici anche politici, giuridici, culturali, ecc.: trovare una qualche motivazione, da
aggiungere a quelle scientifiche già esistenti, che possa almeno indurre il beneficio del dubbio
sulle proprie opinioni, sia esse favorevoli che contrarie.
Nello specifico abbiamo cercato di indagare come si crea, all’interno di coppie
eterosessuali e omosessuali, il progetto di genitorialità, ossia constatare se i gay, le lesbiche e
gli eterosessuali siano ugualmente capaci di comportamenti genitoriali ad un livello precoce
(prima dell’effettivo arrivo del figlio). In sostanza è quello che accade a chi avvia la pratica di
adozione: la coppia che non può o non vuole avere figli per via “naturale” si mette in gioco
al cospetto di un tribunale e dei servizi sociali perché pronta a far spazio, nel proprio nucleo
domestico, ad un altro individuo.
Il lavoro che segue è suddiviso in due parti: background teorico (capp. 1 e 2) e ricerca
(cap. 3 e seguenti).
Nel primo capitolo è stato trattato il tema della genitorialità ab ovo ed in toto attraverso
le teorie sulla coppia, sul supporto sociale, sulla cogenitorialità e sul ruolo paterno per cercare
una risposta al pubblico della D’Urso. È vero che basta solo l’amore? È vero che un bambino
ha bisogno di una madre e di un padre? Ma cosa intendiamo per madre? Il genitore femmina
o il genitore che accudisce il piccolo? E cosa intendiamo per padre? Il genitore maschio o il
genitore che sostiene la famiglia e che educa? Vista l’evoluzione della famiglia il ruolo
genitoriale non combacia necessariamente con il sesso del genitore recante l’etichetta di
“madre” o “padre”: lo stereotipo del padre che porta lo stipendio a casa e che detta legge
non esiste più, così come lo stereotipo della madre casalinga che allatta e cambia i pannolini.
Come la psicoanalisi ha mostrato ci sono famiglie con madri falliche, piene e narcisistiche e
padri vuoti e passivi che aleggiano in casa come figure ombrate senza stanziare la propria
presenza nella psiche dei figli. I ruoli si sono invertiti su molti aspetti e la genitorialità viene
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anche “diluita” attraverso la partecipazione di altri parenti o altre figure (nonni, zii, ma anche
tate, baby sitter, ecc.).
Il secondo capitolo parla nello specifico delle dinamiche di coniugalità e genitorialità
delle coppie gay e lesbiche, mostrando cosa la ricerca iniziata più di venti anni fa sia riuscita
a dimostrare. Gli studi presentati sono per lo più stranieri (Stati Uniti in primis) in quanto
permessi dalle leggi vigenti in materia di adozione, affidamento, PMA e surrogacy, le quali
vanno ad aumentare il potenziale campione omogenitoriale derivante da precedenti relazioni
eterosessuali.
Nel terzo capitolo sono mostrati gli obiettivi di questa ricerca: dimostrare eventuali
uguaglianze tra coppie etero- ed omosessuali senza figli che abbiano progettato una futura
genitorialità. In questo caso, ciò che si va ad indagare è il rapporto con il figlio fantasmatico
(Lebovici, 1988) inteso come l’ancestrale rappresentazione di un figlio nata dal desiderio di
diventare genitore (Simonelli, 2014c) e modulata dalle proprie esperienze di figlio. La ricerca
fissa anche come obiettivo il valutare come altre componenti della coppia (attaccamento al
partner, soddisfazione e adattamento), del singolo (attaccamento ai propri genitori, profilo
di personalità e omofobia interiorizzata) e dell’ambiente (supporto sociale e stigma sessuale)
moderino il costrutto di genitorialità.
I capitoli successivi presentano la metodologia, le analisi e i risultati del progetto
svolto.
Lo scopo, a prescindere dalle conclusioni, è quello di mostrare come sia necessario
supportare le proprie opinioni con i dati e non con le credenze e con i pregiudizi: si spera
quindi che questo piccolo contributo scientifico svegli dal torpore l’ignoranza sul tema e che
le persone che gestiscono i patrimoni scientifici investano in questo filone di ricerca per
permettere di dare una risposta convincente e definitiva su un argomento che pone il 10%
della popolazione ad un livello di diritti negati derivante dal proprio orientamento sessuale.
LA GENITORIALITÀ
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1. LA GENITORIALITÀ
1.1. La genitorialità nei diversi approcci della psicologia
La genitorialità è una funzione autonoma e processuale dell’essere umano ed è
indipendente dall’azione del concepire, il quale ne è una caratteristica, seppur importante,
non indispensabile (Fava Vizziello, 2003). Si riferisce alla capacità di proteggere, accudire e
interpretare i bisogni dell’altro non solo per quanto riguarda il rapporto con i figli o con le
persone care, ma anche nel mondo del lavoro per ruolo o per scelta (Cramer & Palacio
Espasa, 1993). Le prime espressioni genitoriali possono essere individuate già nel bambino
di un anno di vita “quando, rendendosi conto dello stato della mente dell’altro, pensa di poter
egli stesso soddisfare l’intuìto desiderio dell’adulto, quindi prende il cucchiaio con cui viene
nutrito e tenta di imboccarlo” (Fava Vizziello, 2003, p. 41). Da queste prime righe è già
possibile capire come la funzione genitoriale sia una competenza intrinseca dell’individuo
non necessariamente alimentata dal rapporto biologico su cui si basa la relazione, ma dalle
componenti affettive della relazione stessa che dall’adulto passano al bambino
permettendone uno sviluppo grazie alla capacità di prendersene cura (Simonelli, 2014a).
Freud, nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), fu il primo ad illustrare come lo sviluppo
del bambino dipendesse dal rapporto nella prima infanzia con il caregiver primario, in
particolare con la madre. Tuttavia egli si occupò di questo argomento da un punto di vista
unidirezionale, focalizzandosi soltanto sul bambino. Anche altri autori, successivi a Freud,
hanno dato un contributo alla psicoanalisi delle interazioni tra genitore e figlio: tra questi
possiamo ricordare i teorici della Psicologia delle Relazioni Oggettuali (in particolare Melanie
Klein, 1959) i quali affermavano che il mondo interno della madre influenza il senso del Sé
e degli altri del bambino e fornisce un’organizzazione coerente e stabile che egli può
incorporare successivamente come parte della propria struttura psichica (Tambelli, 2010).
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Altri autori, come Bion, con la teoria degli elementi beta (1962), Winnicott attraverso
la definizione di “madre sufficientemente buona” (1965) e Kohut, con il bisogno di empatia
(1971), hanno presupposto che il compito della figura significativa primaria fosse quello di
tradurre le proiezioni pulsionali primitive del bambino in stati mentali comprensibili e
tollerabili (Tambelli, 2010). Questo processo permetterebbe l’introiezione delle elaborazioni
dei propri stati mentali e lo sviluppo delle facoltà metacognitive atte a rendere il bambino
meno dipendente dalla madre con il passare del tempo. Tuttavia il focus rimane di natura
unidirezionale, in quanto l’oggetto di studio passa, quasi esclusivamente, dal bambino al
genitore.
Riassumendo, il costrutto psicoanalitico di genitorialità ha assunto nel corso degli anni
tre accezioni che Tambelli (1993, 2010) così delinea:
una fase evolutiva nella quale il genitore rielabora i conflitti rimasti in sospeso nella
propria storia personale;
una crisi nella quale l’individuo si trova ad affrontare il cambiamento, più o meno
repentino, dell’immagine del Sé necessario allo strutturarsi di uno spazio interno di
relazione con il bambino;
un processo di fattori intrapsichici e interpersonali che coinvolge le rappresentazioni che
emergono dalla storia personale dei genitori, dalla loro vita attuale, dalla loro relazione
di coppia e dai legami familiari in cui sono iscritti maternità e paternità.
L’approccio bidirezionale del rapporto genitore-figlio inizia ad essere enfatizzato a
partire dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969, 1973, 1980) il quale cominciò a
interrogarsi su come poter coniugare gli assunti psicoanalitici, quelli evoluzionistici e le allora
recenti scoperte in campo etologico sulle relazioni precoci tra madre e figlio (Sponchiado,
2001). Secondo la teoria, la relazione con le figure significative è caratterizzata dalle
componenti di ricerca di protezione e bisogno di esplorazione le quali si autoregolano e si equilibrano
LA GENITORIALITÀ
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in un rapporto omeostatico (Simonelli & Calvo, 2002). Il periodo sensibile, nel quale si
sviluppa il processo di costruzione del legame di attaccamento tra il bambino e una persona
discriminata, corrisponde al primo anno di vita, allorquando il rapporto è caratterizzato da:
- ricerca di vicinanza fisica da parte del bambino per sentirsi a suo agio;
- ricerca di una base sicura in caso di situazioni percepite come pericolose;
- protesta per la separazione dal caregiver primario.
Per Bowlby, quest’ultima componente corrisponde alla caratteristica più importante
per la valutazione dell’attaccamento come raggiunto e costruito.
Una volta proposta la teoria dell’attaccamento, Mary Ainsworth, una collaboratrice di
Bowlby, ideò la Strange Situation Procedure (SSP; Ainsworth, Blear, Waters & Wall, 1978),
una procedura di valutazione della qualità dell’attaccamento nella prima infanzia attraverso
la manipolazione di situazioni vissute dal bambino come stressanti e angoscianti, le quali
vanno ad innescare i meccanismi di attaccamento atti a mantenere l’omeostasi tra i poli
vicinanza/esplorazione. Il concetto alla base di questa ideazione riguarda il fatto che le
relazioni non sono tutte uguali tra loro, ma cambiano da un punto di vista qualitativo. La
valutazione, infatti, riflette dei criteri differenti (ricerca e mantenimento del contatto,
comportamenti di evitamento e altri) che vanno a definire il tipo di attaccamento secondo
una distinzione categoriale (Speranza, 2010):
(B) Attaccamento sicuro: usano la propria madre come base sicura riuscendo in
questo modo ad esplorare ed interagire autonomamente con l’ambiente. Le madri di
questi bambini sono viste come accoglienti e disponibili emotivamente.
(A) Attaccamento insicuro evitante: durante la SSP il bambino esplora volentieri e
facilmente l’ambiente, ma presenta scarse manifestazioni di affetti positivi. Il bambino,
pur essendo angosciato, mostra un’apparente tranquillità. Le madri sono viste come
controllanti o rifiutanti e nel momento del conforto non fanno uso di contatto fisico;
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(C) Attaccamento ansioso-ambivalente: sono incapaci di esplorare l’ambiente in quanto
troppo angosciati e preoccupati. Durante le separazioni non riescono a regolare l’ansia.
Le cure materne sono state incostanti e imprevedibili o incapaci di rispondere alle
richieste del bambino.
Successivamente Mary Main, utilizzando la SSP, notò che c’erano bambini che non
rispondevano ai criteri di classificazione del legame di attaccamento né di tipo sicuro (B) né
di tipo insicuro (A e C) (Main & Solomon, 1986):
(D) Attaccamento disorganizzato: non immediatamente identificabile in quanto si
manifesta principalmente dopo la riunione, attraverso comportamenti visibilmente
contraddittori (per esempio, corrono verso il genitore, ma poi si fermano prima di
raggiungerlo oppure si nascondono). Le madri di questi bambini sembrano avere
comportamenti spaventati o spaventanti quando interagiscono con i bambini, questo
comporta un’ambivalenza nella quale la madre è vista non solo come relazione
primaria, ma anche come fonte stessa di pericolo e terrore (Main & Hesse, 1990).
Più recentemente l’interesse per l’attaccamento si è spostato verso gli aspetti
rappresentazionali che lo caratterizzano definiti con il termine di Modelli Operativi Interni (MOI)
(Bowlby, 1973, 1980), ovvero quelle interazioni diadiche sperimentate dal bambino che
vengono interiorizzate (o apprese) diventando dei modelli interni di organizzazione del Sé e
delle modalità relazionali dell’individuo (Simonelli & Calvo, 2002). Attraverso i MOI il
bambino riesce a fare delle previsioni riguardo alla risposta che il caregiver darebbe in
relazione ad un proprio comportamento, soddisfacendo l’istinto etologico di sopravvivenza
contro i pericoli e le frustrazioni. Essi non sono rigide copie della realtà, quanto piuttosto
strutture mentali contenenti la configurazione spaziale, temporale e causale dei fenomeni del
mondo (Craik, 1943). Il termine “modello” rimanda alla struttura relazionale della
rappresentazione (Lis, Venuti & Mazzeschi, 1999) la quale si ordina secondo uno schema,